Room to Grow: il Radical Design degli anni Settanta
Negli anni '70, gli innovatori di questa corrente creativa tratteggiavano nuova visione della casa, ripensando le relazioni al suo interno e l'utopia collettiva attorno allo spazio domestico.
La mostra “Italy: the New Domestic Landscape” (Italia, il nuovo paesaggio domestico), inaugurata nel 1972 al Museo di Arte Moderna di New York è stato uno degli show più significativi nel campo del design. Ideata dal curatore Emilio Ambasz, presentava all’intellighentia americana un gruppo di italiani tra pensatori, designer e architetti che sarebbero poi stati radunati sotto il cappello di Radical Design. Tra i più noti c’erano Gae Aulenti, Ettore Sottsass, Archizoom, Superstudio e Gaetano Pesce, tutti uniti nel ripudiare gli ideali modernisti e nel discutere la possibilità di un pensiero utopico attraverso il design. Una citazione tratta dal Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry apriva il catalogo, suggerendo che l’utopia dovesse essere ripensata dalla cellula domestica grazie alla trasformazione dell’istituzione sociale più resistente al cambiamento, la famiglia.
MARXISTS DO IT BETTER
La mostra del 1972 non era un movimento unificato e costruito intorno a un manifesto politico o estetico, sebbene i suoi partecipanti condividessero una comune allergia verso il fiorire della società consumistica nell’Italia post-bellica. Secondo il Radical Design, l’aspetto più disgustoso di quella conversione al consumismo consisteva nell’aumento della separazione materiale tra i lavoratori italiani e gli strati più alti della classe media tra la metà degli anni ’60 e gli inizi dei ’70. Il cinema di Vittorio De Sica e di Ettore Scola raccontava di baraccopoli che si allargavano nelle periferie di Milano o Roma, in netto contrasto con le aspirazioni domestiche descritte nelle riviste italiane di design. Per questo motivo la loro attitudine verso il design e l’architettura oscillava tra il sospetto e il rifiuto totale. Il design non poteva più essere separato dal dibattito politico quotidiano.
Contrariamente al credo modernista per cui l’utopia era il risultato della visione onnisciente di un architetto-demiurgo, il gruppo del Radical Design pensava invece che dovesse essere inventata all’interno del nucleo domestico dai suoi stessi membri. La responsabilità ideologica dell’avanguardia di inventare nuovi futuri era stata trasferita dalla pianificazione urbana e dall’architettura al campo del design. In quel processo, il modello della famiglia nucleare imposta dallo sviluppo del capitalismo durante il XIX secolo andava completamente ripensata. “Italy: the New Domestic Landscape” era un attacco alle dimore borghesi, che erano verticalmente strutturate intorno alla figura del pater familias. Qualunque movimento di avanguardia o controcultura ha bisogno di un nemico, sia esso reale o immaginario. Per il gruppo del radical design – così come per molte avanguardie a partire dagli anni ’60 come i situazionisti francesi, il British Independent Group, il movimento trans-europeo COBRA – quella figura era impersonificata dal mitico padre del Modernismo, Le Corbusier. Chirurgo del Razionalismo, il designer svizzero- francese concepiva lo spazio urbano come una continua linea di assemblaggio di funzioni che dovevano essere governate dall’architetto stesso.
Intriso di pensiero situazionista degli anni ’60, il gruppo del Radical Design voleva contrastare il potere alienante della liturgia domestica post-bellica concettualizzata nel 1920 da Le Corbusier come una “Macchina per vivere”. Dopo il boom economico degli anni ’50, il motto: «Il design comanda, chi lo usa si adegua», era stato la matrice della società del consumo di massa. L’immagine della perfetta famiglia nucleare era proiettata in modo aggressivo in ogni casa attraverso i magazine, la radio e la Tv. L’immagine di due bambini che giocano innocenti sotto gli occhi amorevoli della loro madre mentre il loro padre legge il giornale, divenne la rappresentazione canonica della felicità e del raggiungimento del traguardo sociale.
Contro l’idea del designer eroico che rafforzava soluzioni predeterminate, gli artisti difendevano un concetto di design come un ecosistema che sottolineasse la nozione di gioco nella vita di tutti i giorni. È così che nel 1972 – quasi quattro decadi dopo la prima mostra del MoMa-Museum of Modern Art nel 1934 dedicata al design Machine Art (L’arte della macchina), a cura di Philip Johnson – il museo introduceva un discorso sul design marxista a New York.
PER UN ARCIPELAGO DI UTOPIE
A quel tempo, “Italy: the New Domestic Landscape” era diviso in due parti: 180 oggetti prodotti nella decade allora in corso e 11 ambienti commissionati dal museo per la mostra.
La prima sessione era divisa in tre sottocategorie: conformista, riformista e contestatore. Quella suddivisione aveva lo scopo di rappresentare una gradazione politica dalla speranzosa sezione pro-design, ai fedelissimi dell’anti-design. Tuttavia la distinzione non si notava un gran che, perché tutti gli oggetti erano disposti all’interno di casse di pino e plexiglass che imitavano il frastornante effetto dei negozi di Galleria Vittorio Emanuele a Milano. In più il discorso contestatore di Ambasz non si esprimeva attraverso il rifiuto di produrre oggetti, ma era affine a un design modulare o senza forma. Tra gli esempi più celebri, c’erano la Poltrona Sacco disegnata nel 1968 da Piero Gatti, Cesare Paolini e Franco Teodoro; la Tube Chair di Joe Colombo del 1969; l’Abitacolo, struttura abitabile di Bruno Munari del 1971. Eppure, nonostante l’apparente innocenza, a muovere quei designer era un disseminarsi di creatività in tutti gli aspetti della vita – la lotta costante tra la noia intellettuale e la routine. «Immagina di provare a fare il sostenuto mentre ti stravacchi su una Sacco», scriveva Ambasz nel catalogo.
Tuttavia era la sezione degli ambienti di “Italy: the New Domestic Landscape” che aveva radunato le prese di posizione più radicali verso il design. Diviso ancora una volta in due categorie – pro e anti design – da una parte c’era la convinzione che il design potesse trasformare le relazioni sociali, soprattutto all’interno del circolo familiare, in opposizione a chi riteneva la società già satura di oggetti e vedeva come priorità fosse il cambiamento politico. Tra i pezzi pro-design, tre erano basati su di un ambiente modulare: il sistema seriale di unità domestiche su ruote di Ettore Sottsass, gli elementi architettonici rossi di Gae Aulenti che potevano essere riadattati e la Total Furnishing Unit di Joe Colombo. Gli altri quattro ambienti erano unità mobili, tra cui la più originale era la Kar-A-Sutra verde di Mario Bellini, un letto da orge adattabile e installato in una macchina familiare.
D’altro canto, il gruppo dell’anti-design si concentrava su installazioni ispirate alla teoria della cibernetica. Ugo La Pietra aveva disegnato una cellula domestica triangolare che operava come nodo di comunicazione all’interno del più ampio reame dei global media. Era una critica contro la trasformazione della casa da parte della Tv che la trasformava in un ricettore passivo dei media. Superstudio aveva creato una piccola installazione cubica che si innalzava dal pavimento e composta di specchi polarizzati da un solo lato con il pavimento reticolato a simbolizzare la continua infrastruttura dei sistemi di comunicazione. All’interno, lo spazio veniva riflesso all’infinito e un piccolo televisore mostrava il film “Supersuperficie: un modello alternativo di vita sulla Terra” dove delle famiglie vivevano in quel nuovo tipo di continua struttura mediatica. Archizoom aveva presentato una stanza vuota con una voce che meditava sulla necessità di un arcipelago di utopie, ognuna adatta ai propri scopi. Quegli ultimi due ambienti rappresentavano il ragionamento più radicale sul pensiero utopistico, poiché proponevano utopie negative che non ambivano a costruire città ideali. Al contrario, puntavano a eradicare totalmente l’architettura e la pianificazione urbana per far si che ogni famiglia costruisse la propria dimensione.
LA FAMIGLIA È MORTA. LUNGA VITA ALLE FAMIGLIE!
Nel suo articolo “Six Steps To Abolish The Family” (Sei mosse per abolire la famiglia) la pensatrice queer M.E. O’Brien proponeva di ripensare la genitorialità, l’amore e l’intimità al di fuori della definizione borghese di famiglia nucleare. Aveva attraversato i movimenti liberazionisti degli anni ’70, incontrando rivoluzionari omosessuali come Mario Mieli in Italia, Guy Hocquenghem in Francia e David Fernbach in Gran Bretagna. Tra le espressioni più radicali di “Italy: the New Domestic Landscape” riecheggiava il grido contro la famiglia, ritenuta una entità politica reazionaria. Alcuni artisti in mostra proclamavano il ritiro totale dal mondo del design, sostenendo che ogni oggetto prima di una rivoluzione ideologica serviva al sistema reazionario. Come sosteneva Adolfo Natalini di Superstudio nel 1971: «Se il design è una mera induzione al consumo, allora dobbiamo rifiutarlo; se l’architettura è soltanto la codificazione del modello borghese di possesso e della società, allora dobbiamo rifiutarla... Fino ad allora, il design deve scomparire. Possiamo vivere senza architettura». La famiglia come primo modello di socializzazione era in prima linea in quella battaglia. Comprendere il passaggio dall’essere considerata uno spazio di sedimentazione delle relazioni di potere a una dimensione di esperimenti micropolitici da cui far nascere dei modi alternativi, di vivere, di stare insieme e di amarsi. In definitiva, nuove forme di soggettività sarebbero sorte libere dalle regole formali e sociali legate al sistema patriarcale.
Cinque decadi dopo quella mostra, qual è l’eredità del Radical Design? Sarebbe facile liquidarlo dicendo che il design comportamentale di quel gruppo e le ricadute sui media hanno nutrito l’ethos techno-liberarista della Silicon Valley. La presenza della Poltrona Sacco nelle sedi di tutte le start-up è ormai quasi diventata totemica della superficialità dei loro slogan di rottura. Tuttavia la comprensione dell’utopia da parte degli artisti come un set di rituali micropolitici, al posto della reificazione di una singola ideologia è forse la loro impronta più duratura sulle politiche queer contemporanee. Come l’amicizia tra diverse specie del bambino e della volpe nel Piccolo Principe, rivelata nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale, anche la domesticità può essere una pratica rivoluzionaria.