Family Affairs: la fotografia e i fotografi degli anni '90
Abbiamo rivisitato l’immaginario di quattro fotografi iconici degli anni ’90 e la loro reinterpretazione del concetto di ritratto di famiglia.
Le foto di famiglia sono tra i nostri possedimenti più preziosi. Vengono fatte per essere mostrate o per restare private, sono importanti per chi è scattato come per chi ne viene toccato. Riesaminando le cellule di questa entità sociale, ci sono quattro fotografi degli anni ’90 che si sono interrogati sui riti, i ruoli e i meccanismi di quel format. Da Michael Clegg e Yair Martin Guttmann, che hanno immortalato con meticolosa distanza le famiglie di potere; al realismo spontaneo e sporco di Richard Billingham; allo stile tenebroso del Southern Gothic di Sally Mann fino all’immaginario sontuoso e classico di Carrie Mae Weems: le loro opere svelano al pubblico le dinamiche e le complessità dei ritratti di famiglia. All’apice del boom economico degli anni ’80, i banchieri di Wall Street si facevano fare i ritratti per i report annuali come nei dipinti olandesi del XVIII secolo, quando la nascente borghesia industriale chiedeva di essere immortalata. Influenzati da quel lignaggio storico in una decade ossessionata dall’onnipresenza dell’immagine e con un’ironia concettuale, emergevano Clegg e Guttman. Il duo di artisti dava vita a un incrocio formale tra i canoni di Anthony van Dick e il classicismo preso in prestito dalle campagne di orologi svizzeri, in ultima analisi mettendo in discussione le rappresentazioni del potere e gli stratagemmi che li costituiscono. I loro ritratti, esposti nel 1987 nell’ambito della mostra “Fake: A Meditation on Authenticity” al New Museum in New York City, a cura di William Olander, esaltavano la fotografia di famiglia come l’arma di un gioco sociale. Troneggiante sulla copertina del catalogo, il titolo “An American Family: A Rejected Commission” (Una famiglia americana: un incarico rifiutato) sembrava tanto arrogante quanto sinistro.
Nello scatto, una famiglia posa di fronte a uno sfondo voluttuosamente cupo, con figure marziali che emergono dall’oscurità della finanza globale. I genitori siedono alla base con una sicurezza terrena, mentre i figli sono in piedi, pronti ad afferrare la torcia. Il figlio sfodera un sorriso a denti stretti, mentre cerca di nascondere uno sguardo maligno, retaggio degli anni sprecati al Bennington College (un tempo e un luogo descritti in modo memorabile da Bret Easton Ellis in “Le regole dell’attrazione”). Al centro della scena, la madre sembra la Duchessa di Guermantes, teletrasportata nella serie Tv di HBO, “Succession”. Più che la famiglia, il fotografo rappresenta un’entità sociale; un’aggregazione di mutui interessi, un gruppo che marca il territorio attraverso l’artisticità. La psicologia dell’individuo diventa l’attitudine di una classe intera e come il titolo spiega, il ritratto era stato rifiutato dai committenti.
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A fare da contrasto alla visione inacidita della classe dominante da parte di Clegg e Guttman, Richard Billingham presentava delle istantanee intime della sua famiglia mentre era uno studente d’arte a Londra. Intitolato “Sensation”, lo show era stato organizzato da Charles Saatchi alla Royal Academy nel 1997, l’ambiente in cui si concentravano molti appartenenti al gruppo Young British Artists, come Tracey Emin o Damien Hirst. Alternando scene di vita e di battaglia, umani e animali domestici, la fotografia di Billingham principalmente raccontava dei suoi genitori, Ray e Liz, e del fratello Jason, in un appartamento decrepito nei sobborghi di Birmingham. Quasi tutte scattate senza che i soggetti se ne accorgessero, le immagini di Billingham catturano una realtà brutale e grezza, la cui grana ingiallita ne rafforza l’espressività. Sviluppate su stampe economiche, le foto restituiscono una forma che sposa il contenuto e contribuisce a diffondere la sensazione di un realismo sporco. Sua madre ha le braccia tatuate e fuma di continuo. Suo padre sembra essere costantemente sbronzo e patito. Il fratello disoccupato ammazza la noia con droghe pesanti e Brit pop. È il 1997 e l’Inghilterra paga il prezzo di otto anni di politiche economiche di Margaret Thatcher. Nel bel mezzo del soggiorno, un gatto e un cane si aggirano tra la mobilia, dove giacciono ninnoli, puzzle di destinazioni esotiche mai visitate, maschere da carnevale veneziano e bottiglie di birra vuote. I corpi sono sgradevolmente umani: urlano, ruttano, ridono, ingoiano, esalano, evacuano. Si potrebbe pensare a un bestiario: il piccolo appartamento dei Billingham è una tana o un covo dove la famiglia si rifugia dall’ostilità del mondo esterno. Lo spettatore si confronta con un’intimità che è a volte triste, burlesca, o imbarazzante, ma ancora catturata in un gioco di promiscuità e intensità emotiva.
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La tenerezza nello sguardo di Billinghham tuttavia non è assente. Più che un’ovvia affiliazione con l’estetica post-punk alla Nan Goldin, le foto sono invece ispirate dal realismo inglese. Certo, il fotografo condivide un certo gusto per la rappresentazione del tedio domestico e delle realtà proletarie con il pittore vittoriano Walter Sickert e il Camden Town Group. In maniera più contemporanea, viene in mente il realismo cinematografico inglese, come la trilogia autobiografica di Bill Douglas, “My Childhood, My Ain Folk, My Way Home” (o i drammi di Ken Loach “Kes” e “Riff-Raff”). Più di recente, Billingham ha adattato, nel 2018, la sua tumultuosa serie di fotografie nel film “Ray and Liz”, che ha ottenuto premi ai festival di Toronto e di Locarno. E come ha commentato lo scrittore Nick Hornby, parlando delle fotografie dell’artista: «Anche se non fanno niente, trattengono l’attenzione».
Come Billingham, anche l’artista americana Sally Mann è ambivalente circa l’intimità della sua famiglia. Altra stella della fotografia di quella decade, grazie alla serie “Immediate Family”, esposta per la prima volta all’Istituto d’Arte Contemporanea di Philadelphia nel 1992 e successivamente pubblicato da “Aperture”, invitava il mondo nella sua casa delle vacanze nella campagna di Lexington, Virginia, dove aveva fotografato i suoi figli che si godevano la vita rurale: ridevano, ballavano, saltavano, coglievano frutti di bosco, si facevano male. Sono gesti originali segnati dall’impermanenza. Sotto il temporale, i bambini diventano attori di allegorie; le azioni più piccole assumono una qualità antidiluviana, come se fossero esistiti per sempre. Percepiamo il passare del tempo: quelle minute vibrazioni ci muovono, ciò che accade attraverso i cambiamenti di luce o di temperatura tocca sia i soggetti sia gli spettatori. I momenti di gioia lasciano spazio a esperienze più dolorose, il gioco alla violenza, la scoperta alla paura, e noi comprendiamo la morte nonostante le nostre nature innocenti. La purezza dello strumento, la prossimità con i suoi bambini, è disarmante nella sua nudità e allo stesso tempo si confonde nobilmente con il respiro del suo simbolismo.
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Il bianco e nero è magnetico ed etereo, una reminiscenza delle classiche fotografie documentaristiche della Grande Depressione, come quelle di Dorothea Lange. La densità degli elementi naturali – il fiume nero, la foresta umida – danno alle fotografie un tocco romantico, o addirittura fantastico. In modo più diretto, l’intero universo del Southern Gothic viene evocato: il misto di violenza crudele e di benevolenza rassicurante messo in atto dai figli della fotografa si lega a uno scopo più simbolico. Siamo nella culla d’America, quella di un nuovo Eden, un territorio di mito e di racconti spettrali.
Un altra pietra miliare in fatto di ritratti di famiglia negli anni ’90 è la sontuosa serie di fotografie domestiche dell’artista americana Carrie Mae Weems. “The Kitchen Table Series” consiste di venti scatti in bianco e nero e di 14 testi scritti in terza persona di vari scenari in cui si descrive la giornata di una donna in cucina. Sobrie e rigorose, tutte le foto hanno una sola fonte di illuminazione dal soffitto e sono prese con la stessa angolatura, all’altro capo del tavolo. Allo stesso tempo santuario e confessionale, rifugio e campo di battaglia, la cucina è uno spazio assegnato e connotato nel genere, ma anche il luogo dove avvengono tutte le negoziazioni. In quel che resta un romanzo di formazione, seguiamo una donna impersonificata da Mae Weems intenta in attività collettive e individuali. Gioca a carte, intavola discussioni politiche, si trucca insieme alla figlia, cena con il marito e dà da mangiare a un uccellino in gabbia. C’è una specie di coreografia, in cui il tavolo diventa un palcoscenico domestico. La serie è enfaticamente cinematografica, come se stessimo osservando un’inquadratura – il posto del percettibile e del controllabile – soggetta ai turbinii provocati dalla vita che la circonda, il controcampo. Delle sue fotografie, Mike Kelley, amico di lunga data di Mae Weems ha detto: «Le sue immagini sono ovviamente costruite e non si rappresentano nell’essere fattuali, piuttosto hanno una dimensione mitica che ti costringe ad averci a che fare in modo più complesso»
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“The Kitchen Table Series” sono un’odissea intima che mette in discussione i giochi di potere nella famiglia e nelle relazioni. Nonostante gli elementi fattuali e identificabili, gli scatti di Mae Weems sono velati di mistero. Sono scenari enigmatici; non sappiamo mai se le situazioni porteranno a finale triste o felice. Tutto sta nel piacere e nel terrore di essere a casa. A volte ricordano il pittore danese Vilhelm Hammershøi, i suoi eleganti dipinti grigi di donne, sole, che aspettano nell’oscurità dei loro appartamenti, come Madame Bovary. O “Jeanne Dielman, 23 Commerce Quay, 1080 Brussels”, il cult movie di Chantal Akerman. Le fotografie di Mae Weems hanno la stessa tensione tra uno sguardo quasi antropologico e una intensità formale, rivelando il lirismo dell’esistenza quotidiana di una famiglia tra coraggio, modestia e rassegnazione.
Che si tratti di un oggetto di potere o una fonte di imbarazzo, un ricordo felice o il soggetto di un lutto, la porta d’accesso all’intimità o uno strumento di resistenza, il ritratto di famiglia è uno dei più classici format della fotografia. In una decade segnata da una forma di ritorno alla realtà, anche per l’esplosione dei limiti tra sfere pubblica e privata, ci lega a una forma di universalità, la cattura di ciò che è amato o odiato. Non è un caso che in “Camera Lucida”, il classico libro di teoria della fotografia di Roland Barthes, l’intera dimostrazione ruoti attorno a una fotografia mancante, la più preziosa, un ritratto di famiglia - quello di sua madre scomparsa.