Paternity Leave: l'arte che riflette sul ruolo di padre
Nella vita degli artisti maschi la genitorialità è sempre stata una nota a piè di pagina. In questo portfolio, gli artisti contemporanei riflettono sul ruolo di padre e sulle sue implicazioni creative.
L’Arte concettuale difficilmente controlla un pubblico di 200 milioni di persone. È un’immagine commovente, anche al di là della famosa performance del guardarsi negli occhi di Marina Abramović al Museo d’Arte Moderna di New York. Eppure nel 1987, il duo d’arte femminista Polvo de Gallina Negra (Polvere di Gallina Nera) aveva preso il controllo di un programma Tv in diretta per una performance sulle deprivazioni e le vuote lusinghe della maternità nel patriarcato. Le artiste del collettivo, Maris Bustamante e Mónica Mayer, utilizzarono la loro ospitata a “Nuestro Mundo”, un talk show popolare all’epoca, per espropriare il solito chiacchierio da salotto e trasformarlo in una performance live, un atto di sfrontatezza molto complessa. Sulla capigliatura laccata del presentatore Guillermo Ochoa avevano fatto scivolare un grembiule a fiori gialli, reso sporgente da una finta pancia di polistirolo, incoronandolo Madre por un día (Madre per un giorno), con una corona fatta di scovolini. Ochoa si era prestato a fingersi incinto, mentre le artiste gli offrivano diverse pillole per indurre empatia e simulare i travagli della gestazione. Quando il pubblico in studio aveva iniziato a lanciare sguardi maliziosi e a fare apprezzamenti, le artiste avevano suggerito a Ochoa di ignorare la lacerante invidia dell’occhio malefico del patriarcato. Madre per un giorno, comprendeva solo un intervento all’interno di “¡MADRES!”, un’opera estensiva (per usare un eufemismo) in cui le artiste investigavano la maternità da un punto di vista in prima persona – una performance iniziata con un aiuto cruciale: «Un giorno abbiamo deciso di lavorare sul tema della maternità e, naturalmente, il primo step è stato quello di restare incinte. Il progetto è iniziato con la nascita delle nostre figlie, grazie al supporto e alla solidarietà dei nostri mariti, gli artisti Victor Lerma e Rubén Valencia, che gentilmente ci hanno aiutate ad avviarlo».
Il contributo di questi mariti non è stato che una nota a piè di pagina nella ricerca di Bustamante e Mayer riguardo alla maternità, ma la riflessione porta oggi a una più ampia domanda: dove sono tutte le opere d’arte legate all’essere papà? Lo scenario sembra disperatamente sbilanciato. Polvo de Gallina Negra è solo una delle entità in un pantheon di arte legata alla maternità che affonda indietro nei secoli, trovando un nuovo sapore tra gli anni compresi i ’70 e gli ’80 del Novecento, quando il diagramma di Venn della seconda ondata di femminismo e la liberazione delle donne dava inizio a una valanga di lavori concettuali sulla cancellazione e assoggettamento della fatica materna. Rientrano in questo canone Mary Kelly, i cui giornali scientifici catalogavano gli effluvi del suo neonato; Lorna Simpson con le sue giustapposizioni di foto e testo focalizzate su donne nere per erodere la presunta neutralità dello status quo bianco e patriarcale; e Mierle Ukeles che nel suo “Maintenance Manifesto” (Manifesto di Manutenzione) articolava il duro lavoro di pulizia richiesto per far girare tutto nel verso giusto, sia che quel tutto fosse una casa nei sobborghi su due livelli o un alloggio popolare (in ogni caso è tutta fatica e niente onori). C’è una semplice spiegazione dell’assenza dei padri da questo contesto. Chi non deve sostenere la propria condizione umana – sia che la lotta riguardi il diritto a salari equiparati o di non essere ucciso dalla polizia – ha una certa libertà di parlare letteralmente di qualunque altra cosa. Forze complesse si attivano nella casuale non esistenza dell’ambito domestico nel modo in cui pensiamo e parliamo di artisti maschi (in particolar modo etero, bianchi, cisgeneri). E in questo vuoto, qualcosa va perso.
Per essere chiari, abbiamo un’infinità di opere sulla famiglia realizzate da artisti di ogni genere, ma questi ritratti spesso scavano in una ricerca freudiana per raffigurare la rabbia interna dell’artista. Il classico esempio in questo caso potrebbe essere il mondo bizzarro di Mike Kelley, pieno di stantie minacce sospese dentro a sgangherati animali di peluche. E quando la paternità si intreccia con le biografie degli artisti, è spesso appiattita in mitologia. Pensiamo solo a come lo stormo di prole di Picasso ha contribuito a rafforzare la sua reputazione di dongiovanni. (Una descrizione più adatta potrebbe essere “viscido” dato che a 45 anni aveva fatto la corte alla 17enne Marie-Thérèse Walter). In uno scenario alternativo, troviamo comunque delle omissioni biografiche. Non è molto risaputo che la figlia di Matisse sia stata imprigionata e torturata dalla Gestapo durante la Seconda Guerra Mondiale, per il suo impegno nella Resistenza francese. Un trauma indelebile per la famiglia, un dramma che riceve un’attenzione relativamente scarsa. A uomini come Picasso e Matisse si concede il lusso di una biografia a compartimenti: la loro arte si staglia sola, nei suoi termini e modi. È una latitudine che tutti gli artisti meritano, ma che pochi ottengono.
Tutto questo per dire che siamo molto in ritardo nel parlare di paternità con degli artisti. Facciamo scivolare un metaforico grembiule giallo sulla testa del mondo dell’arte e trangugiamo qualche pillola dell’empatia (dominator e figaccioni hanno anche loro diritto a una parte, ma per i nostri scopi, restringeremo l’indagine ai padri che si occupano dell’educazione dei figli). Gli artisti di questo portfolio hanno presentato dei lavori che riflettono la loro esperienza di genitori e l’umanità e la tenerezza suscitata dal compito Himalayano di guidare un altro essere umano nel mondo. Nel riflettere sulla genitorialità, Artur Lescher ha richiamato un modello amazzonico in cui avere un figlio richiede una diramazione dell’anima. Perciò gli abbiamo chiesto: come ci si sente? Per essere chiari, lo scopo di questo esercizio non è di ridurre gli artisti-padri in una singola dimensione che troppo spesso applichiamo alle artiste-madri. La paternità può esser o meno la chiave d’ingaggio per qualunque lavoro d’artista. In ogni caso, l’essere genitore è palesemente un’esperienza centrale nella vita di chiunque, e gli artisti sono in una posizione unica per riflettere su ciò che significa. Secondo l’art-dad Rashid Johnson, è proprio quell’attento processo decisionale – opposto per dire a una teatralità alla Pollock – che rende artista un artista. L’avvertimento è necessario perché un’attenzione smodata sulla biografia dell’artista rischia di inciampare sulla morte dell’interpretazione, un’infelice forma di estrazione di significato che Susan Sontag aveva definito con successo: «La vendetta dell’intelletto sul mondo». E le dà ragione la lamentela di Johnson sull’indottrinamento a questo modo di guardare all’arte a cui viene sottoposto suo figlio di nove anni: «Tutti gli insegnanti gli chiedono di continuo “Cosa pensi che significhi?” È l’unico modo che hanno per imparare a interpretare o esplorare un’opera, immaginando che quel lavoro abbia una qualche intenzione nascosta che si rifiuta di condividere e che tu devi in qualche modo dissezionare». Mettiamo allora da parte l’assunto che la paternità debba necessariamente trasformare la pratica dell’artista – e già che ci siamo, estendiamo la cortesia alle donne, agli artisti non-binari che di rado si possono permettere la stessa indipendenza dai propri piani di famiglia. Che sia dannata l’invenzione della sacralità artistica, prestiamo per una volta attenzione al profano.
Vale a dire, il figlio-artista. La più profana di tutte le espressioni estetiche, la kid-art è il più diffuso segno della genitorialità. Scarabocchi sul cartoncino, dita macchiate di pittura o matite, una sottomarca di Dubuffet attaccata su ogni frigo. Le aneddotiche osservazioni di chi scrive suggeriscono che il fascino della kid-art è ineludibile. È un’erba gatta a cui è impossibile resistere e, non ve l’immaginereste, i padri-artisti non ne sono immuni.
Sam Durant ha paragonato l’arte di suo figlio, appesa sulle pareti del suo studio, a Rothko: «Meravigliosa, dipinti colorati – paesaggi rurali e marini – molto diluita e minimale». Anche Lescher ammette che la la vintage kid-art (i suoi due figli ormai sono adulti) fa bella mostra di sé nel suo soggiorno: «Vicino ad alcuni tra i dipinti che ammiro di più». Il contributo di Do Ho Suh a questo portfolio è infatti una collaborazione “cadavre exquis” con i suoi due figli Ami e Omi. Secondo l’artista, quei quasi mitologici regni di argilla modellata rappresentano: «Artland: un ecosistema selvaggio e fantastico, un’affascinante espressione del caos della mente dei bambini, oltre che il loro curioso, e apparentemente inerente, interesse nella costruzione di un mondo». Lescher s’illumina di fronte allo straordinario senso del colore di sua figlia e alla sensibilità astuta e critica di suo figlio. (Scultorea eminenza grigia dell’elegante consapevolezza spaziale, Lescher riflette sull’essere papà attraverso il riconoscimento letterale della proiezione inerente all’esercizio. L’opera che propone è una fotografia dell’ombra di due mani che si stringono, una metafora dell’equilibrio di trazione tra il supporto e la libertà che definisce il processo di accudimento dei figli). Gli artisti sono proprio come noi!
La cospicua assenza di paternalia nelle interviste d’arte è in qualche modo ironica, perché i bambini sono centrali nella mitologia artistica occidentale della produzione artistica e della creatività. Per un secolo, i giovani sono stati considerati come una specie di canale per un approccio inventivo, svincolati dalle repressioni e sublimazioni di noi adulti arrugginiti. Pensiamo alla giocosa fascinazione dell’avanguardia tra le due guerre, o all’estetica priva di destrezza dell’Art Brut. E che dire degli esuberanti scarabocchi di Cy Twombly, un artista di cui Sam Durant ammette di non avere mai compreso il senso, finché non ha avuto lui stesso un figlio? Anche quando il far crescere un figlio sembra impattare sull’opera dell’artista, l’argomento rimane sottotraccia. Johnson riferisce che raramente, se non mai, gli viene chiesto della sua vita di padre, nonostante ciò che lui definisce il «Dirottamento domestico» presente nei suoi media e nelle installazioni che ruotano intorno alle esplorazioni della materia, dei lasciti, della casa. E sebbene ammetta che la sua famiglia abbia resistito agli sconfinamenti di pezzi di lego vaganti e altre forme di caos su cui inciampare – il suo unico figlio, Julius, è in inferiorità numerica rispetto a Johnson e all’artista Sheree Hovsepian, madre di Julius e moglie di Johnson. La questione tuttavia resta: perché l’immagine di pannolini da cambiare è così nemica della nostra idea di artista vigoroso e visionario? (Se andiamo sul prosaico, Johnson valuta di aver cambiato centinaia di pannolini, mentre Druant semplicemente dice che è un dato: «incalcolabile»).
Ipotesi: la ragione per cui non parliamo della paternità è perché diminuisce le nostre supposizioni collettive circa il presunto genio degli artisti. Una delle consuetudini testarde e non trattabili è che gli artisti sono visionari selvaggi. Stereotipo? Certo, ma anche un’alchimia che trasforma la pittura a olio su tela in milioni di dollari a ogni vendita serale di Sotheby’s. In confronto a Pollock che lanciava pittura nel suo capanno, o a una notte sconcia di Hemingway a Parigi, l’idea dell’artista che dà il biberon sembra un peccato.
Cosa perdiamo quando ignoriamo l’umanità della paternità d’artista? Al netto della mascolinità tossica, rinunciamo a un approfondimento chiave su ciò che davvero significa essere un artista. Durant spiega che: «Sì, il cliché è che l’artista è selvaggio, irresponsabile, infantile. Salta fuori che molti di noi non sono affatto così; siamo adulti e in grado di allevare i nostri figli». Johnson sostiene: «Non mi riconosco come creativo», e ciò che differenzia un artista: «Non è tanto nella stravaganza della creazione, quanto nella consapevolezza decisionale». Ascoltiamo quanto le artiste femministe ci hanno detto per decenni: il rigore di una pratica artistica, la sua routine, la concentrazione e l’impegno, sono più vicini all’anti-glamour di rigurgiti e pannolini sporchi che una qualunque fantasia sull’eccezionalità del divino creativo.