Le visioni profetiche dell'artista contemporaneo Paul McCarthy
Un anno prima che la pandemia mandasse in frantumi tutte le illusioni di una realtà coesa e collettiva, Paul McCarthy aveva iniziato a lavorare alla sceneggiatura di un film su un virus. La storia aveva un protagonista ricorrente nella sua opera, Babbo Natale, dipinto non come la figura cartoonesca e volgare di un patriarca dell’arte o una statua di bronzo che brandisce un buttplug (sexy toy anale), ma come un patogeno. Nell’ipotetico film, Santa Claus scendeva da un camino infettando una famiglia con una malattia che portava il suo stesso nome. Una volta contagiata, la casa diventava preda di una psicosi assassina e gli abitanti passavano la notte a uccidersi gli uni con gli altri, morendo, resuscitando, ammazzando e morendo ancora e ancora in un loop senza fine di frenetica rabbia e violenza, per arrivare alla fine, il giorno di Natale, con solo la macchina da presa che lentamente arretrava, lasciando con cautela la scena del crimine. Il film avrebbe dovuto essere girato nel 2019 e uscire all’inizio dell’anno successivo, ma McCarthy aveva altri impegni, perciò erastato accantonato. Poco dopo l'entrata della California nel primo lockdown, l’artista riprendeva in mano lo script, realizzando con inquieta incredulità i riferimenti all’epidemia incalzante. Lo incontro su Zoom e gli chiedo se teme che, la mancata produzione del film, involontariamente abbia lasciato marcire qualcosa che avrebbe dovuto essere distrutto, sprigionando così la sua visione di contagio violento nel mondo reale. Non batte ciglio e nemmeno ride: «No», dice sicuro di sé, «Non credo di avere inconsciamente creato qualcosa», sebbene aggiunga poi di avere una lunga lista di nicchie temporali, soggetti ossessivi del suo lavoro che coincidono con eventi sincronici alla cultura mainstream. Ad esempio, negli anni trascorsi a lavorare e montare la sua mastodontica perversione, “Snow White”, alla Park Avenue Armory, erano usciti tre film a tema Biancaneve, “Maleficent”, “Biancaneve e il cacciatore” e “Mirror, Mirror”. McCarthy preferisce non speculare su questi parallelismi che si potrebbero considerare come una profezia o una cospirazione storica. Delusa dal fatto che il mite e affabile artista non voglia assumere il ruolo di megalomane profeta dell’arte, suggerisco che ci vuole una certa dose di narcisismo paranoico per credere che il proprio lavoro possa cambiare alchemicamente il corso della storia. «Vero», risponde strizzando gli occhi, «Però… c’è una lista».
Di certo McCarthy non ha evocato il coronavirus, eppure c’è la tentazione di attribuirgli una narrazione di pensiero magico. Il suo lavoro è estremo e sensoriale e richiede iperbolici balzi linguistici: è un provocatore, un terrorista scatologico, un mago della merda. È un clown alla Rabelais che cerca di far ridere il re così forte da fargli prendere un colpo e morire, un corruttore pacchiano, un meat-fucker, un pazzo. È il bastone divinatorio della psicopatia di Hollywood, un mormone che ha perso la fede, un freak senza scadenza, il vessillo della perversione polimorfa e il patriarca desublimato al servizio della liberazione collettiva. È il precursore del disfacimento della mascolinità, è un uomo molto malato. Le parole si distorcono in modo irriconoscibile nel tentativo di trasmettere il lavoro di Paul McCarthy, deleghe imperfette delle immediate e viscerali reazioni comuni del suo pubblico: gemiti, risatine, sussulti, uscite precipitose, scomoda attrazione.
Nei termini più crudi, McCarthy è un famoso, se non controverso, artista le cui opere vengono normalmente vendute per milioni di dollari. Nato nel 1945 a Salt Lake City da genitori mormoni della classe medio bassa, è fuggito in California per frequentare l’istituto d’arte di San Francisco. Dopo la laurea in pittura nel 1969, ha passato 15 anni a produrre una gran quantità di lavori, tra sculture, film, performance radicalmente trasgressive, senza mai vendere nulla. A metà degli anni ‘80 ha avuto figli, stipato tutti i suoi props in tre bauli ricolmi e ha smesso con le performance, mettendosi a lavorare nell’edilizia e a insegnare al California Institute of Arts. Poi nel 1991, a 45 anni, partecipa a una mostra collettiva di artisti di Los Angeles curata da Paul Schimmel, dove la sua scultura oggi famosa “The Garden”, viene venduta a Jeffrey Deitch, lanciandolo a velocità supersonica nei piani alti del mondo dell’arte, dove ha goduto di una incredibilmente prolifica carriera.
Se si rifiuta questa narrativa a tappe intermedie, si può anche comprendere McCarthy come un diverso tipo di leggenda americana, il prodotto dei mitici anni ’60, della controcultura a San Francisco, dove lavorava in un contesto collettivo ponendosi così agli antipodi del culto dell’individualismo tipico del mondo dell’arte. Questa versione della storia enfatizzerebbe la figura del giovane Paul che lascia lo Utah dopo avere scoperto Allen Ginsberg e la Beat Generation e va in cerca della loro filosofia umanista, pacifista e alternativa. Sottolineerebbe le sue influenze nell’architettura esistenziale del minimalismo, dell’espressionismo astratto che privilegia il processo di realizzazione al prodotto stesso, gli happening di Allan Kaprow, che richiedevano una totale immersione della vita e dell’arte e una fedeltà alle nuove idee radicali in contrasto al tradizionale barometro del successo commerciale. Il fatto che la storia di McCarthy possa essere costruita in diversi modi ha senso, se si considera che tutta la sua carriera è stata segnata dalla fascinazione per l’imitazione, l’eco, la parodia.
Dopo una visita di Bruce Nauman all’Università della Southern California dove McCarthy era un dottorando, quest’ultimo proiettò due suoi film durante l’annuale film festival dell’ateneo: uno riprendeva un uomo e una donna affaccendati nella loro routine quotidiana completamente nudi, l’altro era una replica precisa, fotogramma per fotogramma, di uno dei film di Nauman, con il finale cambiato, per attribuire il film invece a se stesso. Entrambi suscitarono trambusto, ma i compagni di McCarthy erano soprattutto furiosi per il supposto furto della proprietà artistica di Nauman, piuttosto che per la nudità esplicita. Lui descrive quell’esperienza come illuminante: prendere in giro Nauman aveva aperto uno spazio esaltante di parodia e omaggio allo stesso tempo. Nei “Black and White Tapes”, la serie di tredici video girati nello studio di McCarthy tra il 1970 e il 1975, si vede un giovane artista che sperimenta azioni ripetitive e ipnotiche come girare intorno o sputare, che usa poi lungo tutto il suo lavoro per indurre uno stato di delirio e di estrema concentrazione. Ma questi video contengono anche un tocco di omaggio parodistico: “Whipping a Wall and a Window with Paint” è una violenta satira della action painting tipica dell’espressionismo astratto; “Face Painting - Floor, White Line e Basement Tapes: Semen Drawing” giocano sul concetto di body painting di Carolee Schneemann.
Mi racconta che alcune delle sue influenze più cruciali sono frutto di sbagli e fraintendimenti. Si era “infiammato” nel leggere Herbert Marcuse sulla desublimazione, R.D. Laing sugli stati alterati e le psicosi, e soprattutto Wilhelm Reich e il suo “Psicologia di massa del fascismo”. Le idee di Reich – il fascismo come sintomo di una repressione sessuale di massa in cui gli ansiosi impulsi libidinosi delle masse sono manipolati in un meccanismo idealistico di controllo sociale e con la famiglia come prima cellula del regime autoritario – gli «avevano acceso qualcosa dentro», sebbene ora si domandi quanto avessi davvero capito. Per gli appassionati di McCarthy, alcuni dei lavori più amati del suo primo periodo precedente al successo, come “Class Fool” (per cui McCarthy era comparso tra gli studenti di una classe dell’Università di San Diego schizzando i muri di simulazioni odorose di fluidi organici e andando a sbattere ripetutamente contro le pareti per poi vomitare ripetutamente e sodomizzarsi con una Barbie) sono emblematici della crociata Reichiana di McCarthy contro un sistema repressivo di controllo, la trasformazione in arma di un tabù psicosessuale per testare i limiti della trasgressione e il potenziale liberatorio del delirio e dello squilibrio mentale. Fermamente collocato all’interno della cultura che attacca, si presenta lui stesso come un amalgama di esperienze vissute, di un internalizzato lavaggio del cervello consumistico e di traumi ereditati in una vita passata a ingerire violenza mediata e pornografia. Seguendo la logica freudiana di Reich, le performance scioccanti, rivoltanti e sconvolgenti di McCarthy sono un modo per tirare fuori quello che ha dentro, confondendo i confini tra il corpo e il mondo esterno per poter invertire i meccanismi della repressione e della sublimazione, rivelando i segreti più brutali della nostra società patriarcale
"Le parole si distorcono in modo irriconoscibile nel tentativo di trasmettere il lavoro di Paul McCarthy, deleghe imperfette delle immediate e viscerali reazioni del suo pubblico."
È lui a tracciare l’inizio del mercato dell’arte come lo conosciamo noi oggi intorno al 1980, in concomitanza con l’avvento dell’effetto a cascata dell’economia reaganiana. Il rapido ampliamento del divario di reddito, l’eviscerazione dei fondi destinati all’arte pubblica, l’emergenza del sistema delle gallerie contemporanee aveva creato la tempesta perfetta per la nascita di un mercato dell’arte al servizio dei super ricchi, un mercato che niente aveva da guadagnare dalle performance idealistiche e transitorie di McCarthy e dei suoi compagni. Possiamo non leggere il sinistro significato della sorpresa all’ingresso di McCarthy nel mondo dell’arte nel 1991 con “The Garden”, dopo decadi di oscurità? Il trionfo di quell'opera era la trasposizione di McCarthy del potere effimero della performance in una forma scultorea e fissa. “The Garden” all’inizio viene recepito come una scena edenica (con dei pezzi presi dalla sitcom “Bonanza”), ma avvicinandosi scopriamo due manichini precedentemente nascosti, un padre e un figlio, che si scopano meccanicamente gli alberi e la terra, una rivelazione scioccante che trasforma lo spettatore in un voyeur. Se accettiamo la performance di McCarthy come un Reichiano agente del caos, possiamo anche leggere il suo benvenuto nel mondo dell’arte come la liquidazione della sua critica attraverso l’inclusione, vedendo così McCarthy come un sacrificio con sangue finto al mercato che tutto consuma, un simbolo della morte della controcultura.
La sua narrativa è certamente assurda, crudelmente letterale e forse pericolosa nel suo romanticizzare le possibilità rivoluzionarie della performance art. Ma se ci soffermiamo abbastanza a lungo in questa cinica e sospetta posizione per esaminare una delle mie opere preferite di McCarthy, “Painter” del 1995, emerge un tetro significato. “Painter” è una parodia di Willem de Kooning, dove McCarthy nei panni di quella che sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica, con finto naso cartoon e scarpe da clown, prende in giro i suoi stessi metodi, girando intorno e auto-mutilandosi, lavorando lui stesso in una condizione di concentrazione sfrenata. Il video termina con una scena in cui il pittore tormentato si cala i pantaloni così che un collezionista d’arte possa annusargli l’ano. Il collezionista, avendo trovato l’odore accettabile, chiude quindi l’affare con il gallerista. È una satira estrema e cartoonesca del sistema galleristico e dei ricchi collezionisti a cui si rivolge, ma non c’è forse qualcosa di eroicamente tragico nella figura del pittore? Non si ravvisa una somiglianza con McCarthy che ha passato anni a combattere nelle trincee degli spazi per le performance alternative? La sua arte, le sue offerte – la sua merda, per dirla come il film – dovrebbero essere repellenti, putrescenti, minacciare il collezionista, ma invece è accettato, valutato e integrato nel mercato. Senza uscita.
McCarthy ha avuto maggiore accesso a soldi e beni materiali negli ultimi 30 anni, influenzando la scala del suo lavoro, non i suoi valori. In “White Snow show at the Armory”, per esempio, McCarthy ha creato una replica in scala a tre quarti della casa della sua infanzia, posizionata in una foresta da fiaba e mostrata in chiave horror come una fantasia Disneyana e un trauma ancestrale. Accanto alle installazioni di White Snow facevano bella mostra di sé delle massicce sculture in noce scuro di scene pornografiche di Biancaneve, una riproduzione del famigerato bungalow di Nick Ray allo Chateau Marmont, ore infinite di film, centinaia di fotografie, infinite strutture. Quando gli chiedo delle sue installazioni, la critica del materialismo a un tale incredibile livello, ne parla candidamente. «All’epoca stavo vivendo una specie di delusione», mi dice, «Pensavo ci fosse un posto per quello ed era stupido. Stupido su diversi piani. Era stupido credere che ci fosse un posto e stupido perché mai avrebbe dovuto esserci un posto? «È un inquinante senza motivo», mi dice McCarthy brutalmente. «Il mondo è il posto più fottuto e non ha bisogno di questo oggetto. Davvero serve una affermazione? C’è bisogno di un linguaggio, di una voce in un’altra forma? Puoi farlo tu. Questa è una trappola diversa dalle altre trappole che mi vengono in mente. La trappola di creare oggetti o collezionarli».
"Pensavo ci fosse un posto per quello ed era stupido. Stupido su diversi piani. perché mai avrebbe dovuto esserci un posto?"
È scioccante e commovente sentire un artista parlare in modo così attento di questioni basiche legate alla creazione, ma mettere tutto in discussione è parte del modus operandi di McCarthy. Mi racconta che leggere Deleuze e vivere l’esplosione del mondo digitale: «Ha frantumato, inondato e allargato» la comprensione del suo stesso lavoro che si relaziona a strutture di repressione e desiderio. Dice a se stesso che deve: «Smettere con le spiegazioni ripetitive» del suo lavoro che lo portano a una qualche incarnazione del sé passato. Più che cercare di spiegare o razionalizzare le sue ragioni e influenze, è interessato a ciò che ha perso e a quali nuove possibilità di trasgressione la difficile situazione attuale gli potrebbe fornire. Paul ora appare sgranato sullo schermo del mio computer, una testa fluttuante dentro una scatola a fianco di una scatola che contiene la mia di testa fluttuante. «Qualcuno tirerà fuori qualcosa da tutto ciò», dice. Come molti di noi, McCarthy è restato in casa per quasi un anno, ormai. Descrive il suo ambiente come la navicella Solaris nel film di Tarkovskij; si trova in una capsula isolata da qualche parte nello spazio, parla con i suoi parenti morti, osserva come gli oggetti di casa si accatastino in modi misteriosi. Prima di chiudere il suo studio nel marzo del 2020, dice che era più impegnato che mai, preso da una collaborazione a lungo termine con l’attrice tedesca Lilith Stangenberg intitolata “A&E” e dove i due impersonavano Adolf Hitler ed Eva Braun (o Adamo ed Eva, oppure Art & Entertainment) basandosi sugli script di Paul come anticamera di una caotica improvvisazione e scivolando dentro e fuori dal vuoto man mano che Paul introduce il personaggio semi-Hitler. (Alcuni di questi bozzetti su larga scala sono esposti da Hauser & Wirth a New York fino al 10 aprile 2021). I due inoltre stavano anche pianificando di riprendere “Night Vater”, la loro rivisitazione di Night Porter di Lucrecia Martel, come una pièce teatrale ad Amburgo. Mentre lui stava meditando sul futuro delle sue incursioni in un nuovo tipo di film-making. Recentemente McCarthy ha completato due produzioni che concepisce come una serie di venti episodi pensati per spettatori nel futuro, tra molti anni, “Coach Stage Stage Coach” (CSSC) e “Donald and Daisy Duck Adventure” (DADDA), due pastiche cinematografici dei film da saloon di John Ford in cui McCarthy e un cast di attori interpretano ruoli di personaggi biblici e icone politiche, giocando con diversi gradi di violenza e mettendo in scena ebbri baccanali.
Inizialmente preso, ora non sa bene cos’ha da mostrare per quest’anno passato. «Lavoro ogni giorno», dice, «Ma cosa ho fatto in realtà? È una sensazione molto sgradevole». Ha ricominciato a pensare a domande molto basiche – come creare, come connettersi e come collaborare in una specie di sospensione da limbo. Come, per dirla con le sue parole: «Andare là» con altri, navigare nelle condizioni materiali che prevengono i contatti stretti a tempo indefinito. McCarthy ha speso la sua carriera tentando sia di accettare e sia di sovvertire l’assurdità dell’esistenza e – mettendo da parte le profezie di Santa Claus paranoico – tutto ciò lo rende l’artista vivente meglio equipaggiato per affrontare le problematiche della creazione e collaborazione in questi giorni strani e disorientanti. Anche isolato da solo nella sua casa, lavora ossessivamente sulla sceneggiatura di “A&E”, scrive e riscrive, coltivando la speranza di creare una struttura che un giorno loro insieme potranno penetrare, interpretare e distruggere. Gli chiedo come immagina il futuro del suo lavoro in questo bizzarro nuovo mondo. Resterà nel mondo dell’arte o smantellerà la macchina che ha creato per puntare a qualche nuovo mezzo al di là di film e teatro, in qualcosa di completamente diverso? Fa una pausa. «Sento che dovrei semplicemente andare oltre», dice seriamente. «Andiamo oltre».