Romeo Gigli racconta la sua carriera e il Riad Romeo a Marrakech
I viaggi sono stati influenze fondamentali per la moda dello stilista italiano. Oggi, nel suo nuovo riad aperto a pochi passi della Medina a Marrakech, continua a esplorare l’arte e il design, riflettendo sul cambiamento della moda contemporanea.
Text by SIMONE VERTUA
«Se avessi seguito le orme dei miei genitori, sarei dovuto diventare un libraio antiquario» invece, nel 1976, Romeo Gigli si iscrive alla facoltà di architettura a Firenze. «Ad essere sincero, le esperienze più formative per la mia carriera sono stati i viaggi. Ho trascorso lunghissimi periodi in ogni angolo del mondo, dove ho acquistato arte, artigianato e costumi» racconta. Al momento dell’intervista si trova nel suo Riad Romeo, nel quartiere Zitoun Jdid, a pochi passi dalla Medina di Marrakech. Alle prese con gli ultimi lavori per la struttura, confida: «Non è facile portare avanti i lavori qui, si lavora solo al mattino utilizzando carretti trainati dagli asini, il martello e il piccone. Solo per portare fuori le macerie dalla Medina ci sono voluti sei mesi. Durante il lockdown ci siamo trasferiti in Marocco e abbiamo deciso di stabilirci. Io mi sono occupato del design del riad, mia moglie dell’accoglienza e mia figlia Diletta cura la comunicazione».
L’OFFICIEL HOMMES ITALIA: Qual è stato il suo primo approccio alla moda?
ROMEO GIGLI: Mia madre vestiva solo maison francesi, mio padre indossava completi sartoriali di Savile Row e anche io indossavo vestiti su misura, perciò ho sempre saputo cogliere il potenziale di un capo. A 14 anni ho vissuto nella swinging London e il mio modo di vestire è cambiato: collezionavo tessuti in giro per il mondo e mischiavo i miei riferimenti stilistici. Ho iniziato a lavorare nel 1979 da Piero Dimitri a New York, ai tempi vestiva la famiglia Kennedy e i Newhouse, frequentavo lo Studio 54, Andy Warhol e Mick e Bianca Jagger. Poi mi hanno chiesto di provare a disegnare una collezione donna - fino ad allora mi limitavo a vestire le mie fidanzate - per cui prendevo i tessuti asiatici e quelli della cravatteria e avvolgevo la modella dei fitting. Sopra a questi sari accostavo giacche da uomo, scarponcini ibizenchi in camoscio e una valanga di gioielli etnici. Il risultato è stato uno shock per la stampa e al mio ritorno in Italia un sacco di aziende mi chiesero consulenze. Mi sono messo a studiare moda da autodidatta, ho portato avanti delle consulenze e quando mi sono sentito pronto ho presentato la prima collezione con il mio nome.
LOHI: Parallelamente si occupava anche di design?
RG: Certo, ho progettato e aperto gli spazi di 10 Corso Como. Ho curato anche i miei store a New York e Parigi, mi piaceva disegnare gli interni e amavo collezionare il design nordico. Ero molto vicino a Enzo Cucchi e Ettore Sottsass, ma anche a Zaha Hadid che amava il mio lavoro.
LOHI: Chi ha influenzato il suo gusto?
RG: Cristóbal Balenciaga e Christian Dior, due designer che indossava mia mamma, ma anche Paul Poiret. E Mies van der Rohe e Alvar Aalto.
LOHI: Cosa manca oggi secondo lei a livello creativo alla moda?
RG: Quando ho iniziato a lavorare tutto si concentrava sullo storytelling e la visione personale. Eravamo circondati da stilisti come Claude Montana, Thierry Mugler, Vivienne Westwood e i giapponesi Rei Kawakubo, Yohji Yamamoto e Issey Miyake con cui ho legato molto. Oggi tutto ciò non esiste più. Se dovessimo chiuderci in una stanza con i vestiti che troviamo sulle passerelle di adesso senza le rispettive etichette di appartenenza, sfido chiunque a riconoscere i marchi. Per me ogni capo deve possedere un’entità specifica e un’anima.
LOHI: Come è nato il progetto di Riad Romeo?
RG: Io e mia moglie venivamo spesso in Marocco, è un Paese speciale anche dal punto di vista geologico, affittavamo spesso un riad per trascorrere del tempo con amici e famiglia. Così abbiamo deciso di comprare questo riad più di 20 anni fa, e mia figlia Diletta un giorno mi chiese: “Ti ricordi il riad abbandonato? Perchè non lo facciamo diventare una maison d’hôtes?”, così ho deciso di tenere solamente le fondamenta e l’ho completamente ridisegnato, dai pavimenti, agli arredi, fino alle lampade, i tavoli e le sedute.
LOHI: Per alcuni pezzi avete collaborato con realtà locali e artisti.
RG: Sì, uno di questi è Jacopo Foggini, che ha realizzato per me le sedie della terrazza, un’installazione posizionata nel vano scala e infine una fontana. Quest’ultima, affiancata da due lampade, richiama il volto di una donna: per me, è la principessa del riad. Mi piacerebbe organizzare delle mostre, ora sono in contatto con i fondatori di 1-54 (la fiera dell’arte africana, nda) il nostro primo evento sarà a febbraio.
LOHI: Come descriveresti il riad?
RG: L’architettura è razionalista, i colori sono solari e luminosi, arancione, azzurro, giallo e oro. Le finiture sono in marmo egiziano con venature color sabbia e le tradizionali cementine marocchine che ho rielaborato con una goccia nera geometrica per la pavimentazione. Poi ho scomposto i decori berberi, come le incisioni su legno che ho reso in versione macroscopica. Ogni stanza ha il suo carattere e un pavimento diverso.
LOHI: Sorge spontaneo un parallelismo con Saint Laurent…
RG: Sì, lui ha vissuto tanto in Marocco e l’influenza del colore e dei tessuti marocchini è stata molto forte nelle sue collezioni. Io non riesco a confinarmi in un solo luogo, ho fatto solo una collezione nel 1995 a tema Africa, un tributo all’arte nera e al costume. Ricordo ancora che per comunicare l’attitudine avevo richiesto un casting di 50 modelle nere per la sfilata, la stampa inglese e francese mi aveva massacrato per questa scelta. Una sola recensione bella, quella di Susy Menkes.
LOHI: Se guardasse la sua carriera a ritroso, che consiglio darebbe a un Romeo Gigli giovane, per affrontare la vita?
RG: Di non occuparsi più di moda. Sono diventato una superstar nel settore e non me lo sarei mai aspettato perchè non ho mai avuto come obiettivo l’idea di dover portare avanti una rivoluzione a tutti i costi. Ho fatto quello che secondo me sarebbe stato bello su una mia amica, una donna che potevo incontrare e con la stessa spontaneità ho affrontato il design. Se mi fossi occupato di design, probabilmente non mi sarebbe successo ciò che mi è successo nella moda, dove mi hanno rubato il nome (nel 1991 l’azienda è diventata di esclusiva proprietà dei soci, nda).
«Sono diventato una superstar, ma non ho mai avuto come obiettivo l’idea di dover portare avanti una rivoluzione». Romeo Gigli
LOHI: Com’è stato l’incontro con Alexander McQueen?
RG: Bizzarro. Nel 1989 entrando in ufficio trovo un ragazzo magrissimo nel cortile, aveva un portfolio di disegni sotto il braccio e sembrava triste. Mi disse che era lì per incontrare Romeo Gigli e che una mia dipendente che aveva valutato il suo lavoro lo aveva scartato. Ai tempi nel mio ufficio c’erano ragazzi provenienti da tutto il mondo, un vero crogiolo di culture e divertimento. Gli dissi che ero Romeo e lo invitai a salire in ufficio per visionare il suo lavoro. I suoi disegni emulavano tanto il mio lavoro, tuttavia mi stava simpatico e mi disse che aveva lavorato da un sarto di Savile Row, per cui lo misi alla prova facendolo lavorare su una nuova giacca che non riuscivamo a concludere. Durante la revisione dei capi ero solito smontare la fodera a giacca confezionata per comprendere l’architettura del capo, e quando levai la fodera alla sua giacca notai la scritta “Fuck you Romeo” riportata sul tessuto interno. Scoppiammo tutti a ridere. Lui è sempre stato riconoscente nei miei confronti.
LOHI: L’aneddoto più esilarante della sua carriera?
RG: La moda mi ha fatto vivere grandi emozioni. Quando feci la prima sfilata a Parigi ci fu una standing ovation di più di 20 minuti ma ai tempi non uscivo mai per l’inchino finale. Non capivo perché sarei dovuto uscire, il mio lavoro mi rappresentava più di ogni altra cosa e non avevo bisogno dell’omaggio finale. Perciò ero fuori a fumare e mi vennero a chiamare le mie assistenti dicendo che gli invitati avevano invaso il backstage e continuavano ad applaudire. Appena entrato fui assalito da un meet & great feroce: la mia camicia fu ridotta a brandelli al punto che tornai in hotel senza.
LOHI: Che cosa consiglierebbe ai lettori de L’OFFICIEL?
RG: Che l’unica cosa fondamentale nella vita è vivere la propria libertà, quindi immaginare il proprio progetto di vita personale a prescindere da ciò che è di moda. Mi auguro una rivoluzione, nel fashion system perché non si può vivere di solo denaro. Qualcosa succederà per davvero.