Il Met Gala 2025 e la mostra del Costume Institute "Superfine: Tailoring Black Style"
Al Met - The Metropolitan Museum of Art di New York il Costume Institute esplora l'importanza dello stile sartoriale nella formazione delle identità Black dal '700 ai giorni nostri con una grande mostra prevista a maggio.
Come ricorda Andrew Bolton, Curator in Charge del Costume Institute, la mostra della primavera 2025 (dal 10 maggio al 26 ottobre) è la prima dedicata interamente all’abbigliamento maschile in più di 20 anni. Più precisamente, per trovare un precedente, occorre tornare al 2003, e a “Braveheart. Men in Skirts”. A differenza dell’ultima grande riflessione espositiva sulla moda maschile, “Fashioning Masculinities: The Art of Menswear”, allestita nel 2022 al Victoria & Albert di Londra, la mostra del Met si concentra sul significato identitario che la moda ha assunto per la comunità Black, e in particolare sul potere dello stile come strumento per scardinare stereotipi e aprire nuove possibilità, tra esagerazione, libertà, trasgressione e spettacolarità, in un orizzonte temporale che va dall’Europa dei Lumi alle grandi capitali fashion di oggi.
L’esibizione è stata ispirata dal saggio del 2009 di Monica L. Miller, “Slaves to Fashion: Black Dandyism and the Styling of Black Diasporic Identity”. Chair of Africana Studies del Barnard College alla Columbia University, la Miller, che della mostra è Guest Curator, sottolinea: «Il dandismo può sembrare frivolo, ma spesso rappresenta una sfida o un superamento delle gerarchie sociali e culturali. Pone domande sull ’identità, la rappresentazione e la mobilità in relazione a razza, classe, genere, sessualità e potere. La mostra esplora questo concetto sia come pronunciamento che come provocazione. Il titolo della mostra fa riferimento a “superfine” non solo come qualità di un particolare tessuto - “lana superfine” - ma anche come attitudine a sentirsi particolarmente bene nel proprio corpo, con abiti che esprimono perfettamente chi si è. Le manifestazioni storiche del dandismo vanno dalla precisione assoluta nell’abbigliamento e nella sartoria all’ostentazione e alla favolosità. Che un dandy sia sottile o spettacolare, riconosciamo e rispettiamo la deliberatezza dell’abbigliamento, l’esibizione consapevole, il modo in cui questa ricerca della perfezione sembra frivola ma può rappresentare una sfida o un segnale di trascendenza delle gerarchie sociali e culturali. Nel diciottesimo secolo il dandismo può essere contemporaneamente un veicolo di schiavitù e liberazione».
«È stato imposto», continua Miller, «e poi rapidamente ripreso dai neri coinvolti nelle realtà politiche dell ’epoca: la tratta degli schiavi, la colonizzazione, l ’imperialismo, la rivoluzione e la liberazione. I servi dandificati, allora conosciuti come “schiavi di lusso”, furono utilizzati come figure di consumo vistoso; come tali, impararono immediatamente gli effetti del “vestire elegantemente e alla moda” e il suo rapporto con la razza e il potere. Questa mostra esplora la dialettica tra l’essere dandificato e l’assumere il dandismo come mezzo di rappresentare sé stessi. Nella mostra, il dandismo nero è uno stile sartoriale che pone domande sull ’identità, la rappresentazione, la mobilità, la razza, la classe, il genere, la sessualità e il potere».
La mostra è articolata in dodici sezioni, che esplorano le nozioni di assimilazione, distinzione e resistenza, spaziando da “Disguise” a “Respectability” a “Beauty”, che documenta come, dopo i movimenti che chiedevano giustizia sociale degli anni ’60, gli uomini di colore abbiano trasformato la loro invisibilità sociale precedente in una forma di ipervisibilità, illustrata da mises contemporanee di creatori come Marvin Desroc, Theophilio e LaQuan Smith. Mentre la sezione “Cool” affianca cardigan, denim, e il kariba suit che rimpiazza in Giamaica gli abiti occidentali nelle occasioni ufficiali, a outfits di Botter, Grace Wales Bonner e Bianca Saunders, e quella dedicata allo Zoot Suit celebra le silhouettes ipercostruite indossate da un giovane Malcolm X e dal jazzista Cab Calloway. Il design concettuale della mostra è stato affidato all’artista Torkwase Dyson, mentre le teste dei manichini bespoke sono di Tanda Francis, vincitrice del Laguna Art Prize l’anno scorso con la scultura “Rockit Black”, realizzata con materiali di scarto legati alle proteste del movimento Black Lives Matter, gli stessi che ha utilizzato per una scultura pubblica a Queensbridge Park.
Co-chair della mostra (oltre ad Anna Wintour) esponenti del dandismo contemporaneo, Colman Domingo, Lewis Hamilton, A$AP Rocky, LeBron James, affiancati da un comitato che coinvolge il Gotha della cultura Black contemporanea più impegnata anche sui diritti civili, dalla scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, l’autrice di “Americanah” e di quel pamphlet, “We Should All Be Feminists”, conosciuto dai fashionisti per essere stato ripreso su una T-shirt da Maria Grazia Chiuri alla sua prima sfilata per Dior, la primavera estate ’17, alla ginnasta Simone Biles, da Dapper Dan, il leggendario designer di moda maschile con atelier ad Harlem, a Doechii, da Ayo Edebiri, l’attrice di “The Bear” ambassador di Loewe, fino a Spike Lee, Janelle Monáe, la velocista Sha’Carri Richardson, oro a Parigi, Tyla e l’artista Kara Walker. Sponsor della mostra è Louis Vuitton, in un’operazione coerente con i temi del dandismo e della sartorialità, identitari per il brand, con il lavoro di Pharrell Williams, il direttore creativo del menswear, co-presidente del Met Gala, e con la legacy di Virgil Abloh, predecessore di Pharrell dal 2018 al 2022.