L'intervista a Cecilia Alemani curatrice e direttrice della Biennale di Venezia 2022
Prima donna italiana a dirigere la Biennale di Venezia 2022, la curatrice dell'High Line Art newyorkese ha coinvolto oltre 200 artisti, l'80% dei quali donne e soggetti non binari. La mostra esplora le grandi inquietudini contemporanee e si propone come un ritorno a celebrare l'arte in comunità.
Text by Fabia Di Drusco
Foto Federico Ciamei
Styling Giulio Martinelli
Prima donna italiana a curare la Biennale di Venezia 2022 in 127 anni di storia, dopo essersi occupata nel 2017 del Padiglione Italia con la mostra “Il mondo magico”, Cecilia Alemani, milanese del ’77, direttrice dal 2011 della High Line Art di New York, ha coinvolto più di 200 artisti provenienti da 61 nazioni. Di questi, 180 non erano mai stati presenti prima in Biennale. Ma il dato più eclatante rispetto alle edizioni precedenti, considerato che nei primi 100 anni di storia della mostra le artiste donne non arrivavano neppure al 10% e che negli ultimi 20 anni si era giunti appena al 30, è che l’80% dei protagonisti di questa edizione sono donne e soggetti non binari.
L’OFFICIEL: Una Biennale di genere quindi?
CECILIA ALEMANI: Una Biennale coerente al mio modo di curare, sempre attento alle voci diverse. Mi sorprende sempre vedere come in Italia ci si stupisca ancora di un fenomeno che in America fa parte della quotidianità. Del resto nel 2007 nessuno si è sconvolto quando Robert Storr ha presentato una Biennale composta all’80% di artisti uomini. Ho scelto queste artiste non in quanto donne, ma perché mi interessavano le loro opere in sé. È stata invece più intenzionale la presenza femminile nelle cinque capsule storiche che ho voluto inserire nella mostra come ricostruzione di tasselli mancanti nella storia stessa della Biennale. L’idea deriva da “Muse inquiete”, la mostra sugli archivi della Biennale allestita al Padiglione Centrale nel 2020, curata da tutti i direttori dei sei settori artistici della manifestazione, cui ho partecipato come responsabile della sezione Arte. Cinque mostre da intendere come una costellazione in grado di esplorare a fondo dal punto di vista storico certe tematiche, per offrire connessioni anche dove l’influenza non è necessariamente evidente. Una storiografia costruita su rapporti simbiotici, simpatie e sorellanze.
LO: Perché affidare l’allestimento di queste mostre storiche a Formafantasma?
CA: Con loro avevo già lavorato a “Le muse inquiete”, siamo molto affiatati, queste mostre sono delle vere e proprie capsule del tempo che devono distinguersi anche per l’allestimento, sono spazi arredati, con carta da parati, moquette, che concentrano 30, 40 artisti invece dei due che avrebbero occupato lo stesso spazio se non fosse stato separato.
LO: Il titolo della mostra, “The Milk of Dreams”, è particolarmente evocativo. È una scelta basata sul concetto, o su una tua predilizione per Leonora Carrington (l’artista Surrealista autrice di un libro per bambini con questo titolo, nda)?
CA: Il Surrealismo mi ha sempre interessato, anche se mi ci sono avvicinata dalla parte maschile. Negli ultimi cinque anni le protagoniste del Surrealismo sono state oggetto di un interesse sempre crescente, culminato in “Fantastic women”, la mostra tenutasi al Louisiana Museum di Humlebaek, in Danimarca, nel 2020, un interesse che ha portato ad allargare i confini del surrealismo al Nord Africa oltre che al Centro America. Non conoscevo i libri della Carrington, anche se in generale mi piace scoprire il lato letterario degli artisti. Questo libro in particolare l’ho scoperto quasi alla fine dell’organizzazione della mostra, e mi è sembrato ideale per convogliare tanti contenuti nel titolo, è come se avesse messo le cose a posto a posteriori.
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LO: Nella tua introduzione al tema de La Biennale tracci uno scenario di un sentimento diffuso fra gli artisti e più in generale tipico del nostro tempo in cui “la sopravvivenza stessa dell’umanità è minacciata”, in cui ci si interroga su quali siano “le differenze che separano il vegetale, l’animale, l’umano e il non-umano”, su quali siano “le nostre responsabilità”, fino a ipotizzare una “condizione postumana”. Se il senso di fragilità e instabilità ingenerato dalla pandemia di Covid ha sicuramente influito sulle opere presentate, l’aggressione della Russia all’Ucraina carica questi contenuti di ulteriore risonanza?
CA: Ovviamente mostra e opere sono state concepite prima dello scoppio di questa guerra brutale e senza senso. Ma il fatto stesso che possa esistere uno come Putin che piglia su e invade uno stato sovrano confinante è un esempio eclatante della hybris dell’uomo che pensa di dominare l’universo e, purtroppo sì, attualizza le tematiche della mostra.
LO: Nella tua introduzione sottolinei che uno dei concetti guida della Biennale sia “mettere in discussione la presunta idea universale di un soggetto bianco e maschio come misura di tutte le cose”, evocando come possibile alternativa “il reincantesimo del mondo” operato da artisti che mescolano “saperi indigeni e mitologie individuali”... Qual è a tuo giudizio l’opera più impattante della mostra?
CA: L’installazione di Delcy Morelos, un’artista colombiana che sta coprendo la campata delle Corderie di terra, costruendo un grande labirinto che ci ricorda che veniamo tutti dalla terra, dove l’odore molto forte delle spezie, del tabacco e del cacao mischiati all’humus aggiunge una nuova dimensione... Ovviamente l’ispirazione è la Earth Room, l’installazione di Walter De Maria del 1977, un appartamento in Wooster Street a Soho riempito di terra. Ma Morelos si ispira anche alle cosmologie dei popoli delle Ande e dell’Amazzonia, dando vita a un’opera estremamente potente.
LO: Quali altri/e artisti/e presenti in Biennale ti sembrano particolarmente interessanti?
CA: Julia Phillips, che combina la freddezza di diversi materiali tecnologici, Chiara Enzo, perché nelle sue piccole tele racchiude le pieghe e le epidermidi dei corpi moderni. Precious Okoyomon, che sa trasformare l’indagine post-coloniale in un giardino entropico, Mire Lee, trasformatrice di macchine cinetiche in strani organismi.
LO: Quale pensi sia la funzione della Biennale oggi?
CA: La Biennale è al tempo stesso un’istituzione (quella di Venezia è la più vecchia della storia) e un’istantanea di quello che sta succedendo nel mondo culturale. Ci si va per vedere le ultime tendenze, i nuovi movimenti, ma la sua missione è anche assorbire gli urti della storia, pensiamo alle edizioni subito dopo le grandi guerre, alla riflessione sul clima che le ha generate. Sono una sostenitrice dei padiglioni nazionali, una caratteristica esclusivamente veneziana molto criticata, ma che per me rappresentano un fantastico punto di forza, un entry point in scene artistiche come quella delle Filippine o della Namibia, o di altre aree geografiche spesso escluse dai circuiti internazionali.
LO: C’è qualche rapporto tra “The Milk of Dreams” e “La grande Madre”, la mostra del 2015 al Palazzo Reale di Milano curata da tuo marito (Massimiliano Gioni, curatore del New Museum di New York e direttore della Biennale nel 2013 )?
CA: Me l’hanno chiesto anche alla conferenza stampa di presentazione della Biennale. Pensa che “La grande madre” io non l’ho neanche vista perché ho partorito subito prima dell’opening, certo posso aver assorbito parte della materia di riflessione di mio marito, ma lì la mostra era incentrata sulla rappresentazione della maternità, qui è il contrario, si tratta di sconfiggere il cliché, anche se ovviamente madri di qualcosa lo siamo tutte, vicendevolmente.
LO: Cosa aspettarsi dalla Biennale?
CA: Una mostra estremamente fisica e presente, lontanissima da qualsiasi forma di elucubrazione cerebrale. Sarà soprattutto una celebrazione, il ritorno al vivere l’arte di persona, con la comunità, dopo due anni di isolamento.