MACE l'intervista: crazy, marvellous MAYA
Il produttore MACE è uno dei più prestigiosi nomi italiani. Torna con un album, MAYA, uscito il 5 aprile, ricco di suoni selvaggi e brillanti. Nell'intervista su L'OFFICIEL Italia ne racconta la genesi e l'identità progettuale.
Il 5 aprile è uscito MAYA, l'ultimo album di MACE. Un incontro artistico tra musica, psichedelia e una commistione sonora selvaggia. Un viaggio nella musica sognante del produttore, MAYA è una sorta di portale multidimensionale per condurci altrove. Il titolo dell'album, un richiamo alla filosofia induista, è traducibile con “inganno” per esprimere la grande illusione che avvolge ciò che definiamo comunemente come “reale”. Un racconto labile tra realtà e finzione, concreto e immateriale che si traspone ben oltre la musica. 28 voci della scena italiana -Altea, Bresh, centomilacarie, Chiello, Coez, Cosmo, Digital Astro, Ele A, Ernia, Fabri Fibra, Frah Quintale, Franco 126, Fulminacci, Gemitaiz, Guè, Iako, Izi, Kid Yugi, Joan Thiele, Marco Castello, Marco Mengoni, Noyz Narcos, Rareş, Rkomi, Salmo, Tony Boy, Venerus, Vins-, emergente e non, per un progetto condiviso, un casale in Toscana e tanti strumenti strani provenienti da posti impensati. Ma MAYA è anche molto altro. Leggi l'intervista a MACE.
L’OFFICIEL ITALIA: Il titolo dell’album richiama la filosofia induista, come mai la scelta?
MACE: Sono stato già da bambino in India, con la mia famiglia, mio padre mi ha cresciuto leggendomi favole indiane, ho sempre avuto un forte richiamo per questo lato del mondo. Non posso definirmi induista ma mi sento molto più legato alla loro visione rispetto a quella occidentale. Ha sempre risuonato molto di più con me. Nell’ultimo anno sono tornato un paio di volte in India, sono stato in un Ashram per ricollegarmi a discorsi che avevo aperto tanti anni fa.
LOI: Possiamo definirlo un album "spirituale"?
M: É sicuramente l’album di una persona che è in grande ricerca spirituale, ma non so se lo definirei tale. Tutti i viaggi mi toccano in maniera particolare e contribuiscono ad aumentare la mia consapevolezza e la mia apertura mentale. Essere tornato in India sicuramente ha riacceso alcuni punti di contatto già aperti da tempo a cui mi ero approcciato attraverso la psichedelia.
LOI: La tua musica lavora sullo sperimentalismo sonoro. Come ti sei approcciato a questo album e che scelte hai fatto?
M: MAYA nasce da una lunga sessione in un casolare nelle campagne toscane dove ho voluto radunare tutti i migliori musicisti che conosco e altri artisti a me affini. Volevo che la musica fosse generata da un’esperienza collettiva e non individuale, che in qualche si materializzasse spontaneamente. Abbiamo condiviso tutto, oltre alla musica, e le stanze della casa erano piene di strumenti provenienti da ogni parte del mondo. Volevo creare un’opera corale, dove la musica fosse frutto di una comunione. Avere tante persone, tante sensibilità che convergono verso una visione unica, anche se a volte e in antitesi, aiuta a creare un’opera più “complessa”.
LOI: C’è stata qualche collaborazione che ti ha lasciato un segno particolare?
M: Tutte a loro modo mi hanno lasciato molto. Però lavorare con gli artisti emergenti a volte riesce ad essere più stimolante: rivedere quello che fai tutti i giorni dagli occhi di qualcuno che sta vivendo quelle esperienze per le prime volte, con quella meraviglia, ti aiuta a ricordare perché lo stai facendo, a riaccendere quel fuoco.
LOI: L’industria musicale in questi ultimi anni ha finalmente capito il ruolo dei producer, anche se le scelte che si stanno facendo sono piuttosto banali e poco eclatanti. La FOMO delle hit. Che cosa manca secondo te?
M: Per me il ruolo del producer è sempre stato fondamentale, basta citare Quincy Jones o Rick Rubin: sono personalità che hanno dato sempre uno stampo molto importante a tutto ciò che lavoravano. C’è sempre chi sceglie di fare questo lavoro con personalità e chi invece con meno ricerca, ma è anche giusto che esistano approcci differenti.
LOI: I tuoi riferimenti musicali? E le tue icone?
M: Le mie icone sono Brian Eno, Quincy Jones, Norman Whitfield, produttori incredibili. I miei riferimenti sono talmente tanti che avrebbe poco senso elencarli tutti. Sicuramente il mio periodo di riferimento è quello che va dalla fine degli anni ’60 ai primi ’70, in cui riesco ad apprezzare qualsiasi genere musicale generato in questa parentesi temporale, dal rock al jazz, dal soul alla musica più leggera. La musica, la sperimentazione ma anche i grandi temi sociali, sono tutti confluiti in un periodo storico inarrestabile, dove l’arte non solo documentava i grandi cambiamenti ma spesso li traghettava.
LOI: MAYA significa inganno, illusione…quale il più grande in cui sei incappato?
M: Quello di credere che una volta esauditi i tuoi desideri sarai felice. Invece avrai sempre desideri nuovi, resterà quella costante rincorsa. L’altra grande illusione è quella di pensare di essere entità separate, quando credo fermamente che siamo tutti collegati ad una radice, a qualcosa di molto più grande di noi, anche se non si può vedere.
LOI: La “dimensione” in cui vorresti vivere? (Come sarebbe?)
M: E’ questa. Se sono qui, in questa dimensione, significa che è quella che devo vivere adesso. Chissà quale sarà quella che dovrò vivere domani, credo però sia giusto fare esperienza di ciò che si vive ora, in questo momento, altrimenti rischi di essere sempre altrove.