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No filter: da Superblue Miami la mostra immersiva di Yayoi Kusama

Dagli show di Yayoi Kusama alla Tate Modern a Superblue, aperto di recente a Miami: travolgenti esperienze sensoriali hanno ridimensionato i social media. Ma qual è la differenza tra arte e attrattiva?

nella foto ”Flowers and People, Cannot be Controlled but Live Together–Transcending Boundaries, A Whole Year per Hour,” 2017, by teamLab. Installation view of Every Wall is a Door, Superblue Miami, 2021. © teamLab. Courtesy of Pace Gallery.
”Flowers and People, Cannot be Controlled but Live Together–Transcending Boundaries, A Whole Year per Hour,” 2017, by teamLab. Installation view of Every Wall is a Door, Superblue Miami, 2021. © teamLab. Courtesy of Pace Gallery.

Quando nel 2012 la Tate Modern ha inaugurato la retrospettiva di Yayoi Kusama, i curatori sapevano che era roba grossa. Dopo tutto si trattava della prima grande ricerca europea su di un’artista concettuale d’avanguardia. Ciò che non potevano prevedere era la frenesia globale che uno dei suoi lavori – “Infinity Room”, ovvero una stanza di specchi illuminata all’infinito da luci fiabesche – avrebbe suscitato. Quasi dieci anni dopo Katy Wan, la curatrice delle due “Infinity Rooms” che apriranno quest’estate al British Museum, ammette che questo revival ha un duplice scopo: fornire accesso ai visitatori che mordono il freno all’idea di sperimentare di persona le installazioni dell’artista ora ampiamente immortalate. E prendere un momento di pausa per: «Riconsiderare Kusama alla luce della sua accresciuta popolarità globale, supportata negli ultimi anni dall’espansione dei social media».

“Almost Earth,” 2021, by Jesse Wilson. Installation view inside Meow Wolf’s “Omega Mart” in Las Vegas, photographed by Kate Russell.

Era comunque stata l’ubiquità dei social media che nel 2013 aveva portato all’attenzione generale l’iterazione della “Rain Room” degli artisti Hannes Koch e Florian Ortkrass allestita al Museo d’Arte Moderna di NY. Chi si sarebbe mai perso la super modella Karlie Kloss pressappoco ventenne in gonna bianca strategicamente illuminata da dietro sotto un diluvio artificiale? La didascalia che aveva scelto recitava: “Non c’è bisogno di ombrello #RainRoom”.

Agli inizi degli anni 2010, è esplosa la popolarità di queste esperienze totalmente corporee, alimentata da hashtags e influencers ma anche da un certo disorientato mondo dell’arte, felice nel vedere un nuovo tipo di engagement che prendeva corpo nei propri spazi. I musei hanno iniziato a rimuovere i cartelli del “Vietato fotografare”. La scocciatura della foto – documentazione individuale, fermi in posa, click – è divenuta il ritmo degli spazi artistici ed è stata incoraggiata da nuove infatuazioni curatoriali. I QR code sono stati installati ai muri e la gente ha cominciato a fotografare anche loro.

È stato solo quando qualcuno si è preso la briga di chiedere se si trattava ancora d’arte con la A maiuscola che i criteri di contesto e pedigree sono emersi per analizzare gli intrusi. Le istituzioni d’arte esistenti e le gallerie come David Zwirner, Jeffrey Deitch, il MoMA e la Tate avrebbero potuto trasformare i propri spazi in sale giochi, teatri a grandezza naturale di burattini di AI (A.I. Artificial Intelligence), o gigantesche gabbie per criceti, chiamando il tutto arte. Il Museo del Gelato, punteggiato di zuccherini e inaugurato nel 2016 da Maryellis Bunn e Manish Vora decisamente non lo era, sebbene il parco dei divertimenti multisensoriale ispirato ai dessert abbia avuto bisogno delle idee e del lavoro di artisti per essere realizzato. Se solo i suoi proprietari si fossero concentrati sul garantirsi una galleria che facesse da partner, anziché cercare sponsor come Dove o Tinder, forse avrebbe ricevuto migliore accoglienza. Per fortuna di Bunn e Vora, alla loro fanbase la cosa non interessava e la sua popolarità spontanea non è stata stroncata dalle rivelazioni su certi atteggiamenti abusivi e nemmeno dalla pandemia. Lo scorso aprile l’Ufficio del Turismo di Singapore ha annunciato che la nazione ospiterà la prima iterazione del MoIC - Museum of Ice Cream, dopo la sua espansione dal quartier generale newyorkese al pop-up allestito a Miami. E anzi, considerato come case study, il MoIC dimostra quanto sia fragile in sé la parola “Museo”.

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Nella prima foto: ”Massless Clouds Between Sculpture and Life,” 2020, by teamLab. Installation view of Every Wall is a Door, Superblue Miami, 2021. © teamLab. Courtesy of Pace Gallery. Nella seconda foto: “Universe of Water Particles, Transcending Boundaries,” 2017, by teamLab. Installation view of Every Wall is a Door, Superblue Miami, 2021. © teamLab. Courtesy of Pace Gallery.

Anche se il legame sul momento non era stato riconosciuto, è impossibile negare che l'interattività sia sempre stata fondamentale per il successo degli spazi dedicati all'arte.

“Infinity Mirrored Room–Filled with the Brilliance of Life,” 2011/2017, di Yayoi Kusama. Courtesy dell'artista e della Tate Modern

Il MoIC è un capofila amato dalla stampa in uno scenario allargato di nuove istituzioni focalizzate sulle esperienze che ti fanno pagare il biglietto per il privilegio di camminare dentro a set simili a studios hollywoodiani. Il New York Times e altri organi di stampa hanno etichettato queste startup come avamposti della “experience economy”. Eppure questi spazi spesso cercano di respingere questo tipo di classificazione, includendo richiami alle arti nobili come L’Atelier des Lumières a Parigi e Artech House a New York. C’è un innegabile rapporto di amore-odio tra l’idea di fondo che permea il marketing e il dialogo intorno a questi spazi. Si auto-definiscono: «Immersivi, cutting-edge, anarchici», eppure sembrano ancora cercare l’approvazione dell’élite artistica.

Meow Wolf è l’eccezione, almeno nel nome. Creato da un gruppo di artisti a Santa Fe, nel New Mexico, negli ultimi dieci anni il collettivo è passato dall’avere un approccio di arte psichedelica in guerrilla-style e di producer di musica in chiave pop-up a essere una conglomerata multimilionaria dedita al real-estate. Il suo obiettivo fin dall’inizio era di aprire la strada verso un nuovo pubblico ad artisti stanchi degli atteggiamenti conservatori e della competitività che sembrava integrata nelle esistenti tassonomie creative. Il suo progetto più recente è Omega Mart, un’ambientazione che riproduce un negozio di alimentari spettrale in cui i visitatori sono invitati ad aggirarsi e a meditare sulle trappole del consumismo. «Se c’è una cosa che il mondo dell’arte ha continuamente fatto nel corso dei secoli, è quella di rigettare qualcosa inizialmente considerato non abbastanza buono per essere arte», dice Caity Kennedy, tra i fondatori di Meow Wolf e suo Senior Creative Director. «Perciò quando ci criticano perché creiamo cose che sono troppo d’intrattenimento o popolari, o peggio ancora, divertenti, mi dispiace perché è un giudizio che dimostra una mancanza di curiosità». In effetti è semplice fare un elenco di “case stregate” che siano state certificate dall’establishment del settore come “vera arte” – la Park Avenue Armory nel 2013 ha trasformato la sua sala per le esercitazioni in un inferno di Biancaneve per l’exhibition WS di Paul McCarthy; tre anni più tardi Pedro Reyes ha prodotto per Creative Time una casa stregata a sfondo politico. E in un progetto supportato da Art Production nel 2019 Lucy Sparrow ha creato un negozio di alimentari interattivo fatto di prodotti di feltro. Quello stesso anno Meow Wolf annunciava di voler aprire un art hotel a Phoenix, mentre Hauser e Wirth debuttavano con il loro Fife Arms in Scozia, e Maja Hoffmann annunciava il completamento di una serie di hotel nei pressi dei suo art compound privato Luma Arles. «Tutto ciò che è sensoriale e non ha altra funzione è una forma di intrattenimento, anche se sfidante o di nicchia», prosegue Kennedy. «Per qualunque mondo dell’arte stabilire un’eccezione svela di più dell’elevato entry point della propria audience di riferimento, piuttosto che di ciò che l’arte è».

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Nella prima foto: “Cosmic Cave,” by Pip and Pop. Installation view inside Meow Wolf’s “House of Eternal Return” in Santa Fe, photographed by Kate Russell. Nella seconda foto: “Fractalife,” 2021, by Claudia Bueno. Installation view inside Meow Wolf’s “Omega Mart” in Las Vegas, photographed by Kate Russell.

Superblue, una nuova istituzione ibrida spalleggiata dalla Pace Gallery e dal tech-disruptor Emerson collective e minaccia di confondere ulteriormente le acque. La sua prima iterazione è visibile a Miami, a fianco della leggendaria collezione privata del Rubell Museum, con installazioni di artisti conosciuti a livello internazionale come James Turrell e teamLab. Il progetto, a differenza di Meow Wolf, non utilizza un linguaggio di “attrazione” per descrivere il proprio programma, sebbene, in alternativa, pianifichi di forgiare la sua estetica e un vocabolario architettonico. A tal scopo, la co-fondatrice e ceo Mollie Dent-Brocklehurst vede nel lancio di Superblue il primo esperimento di un dialogo in divenire guidato quasi esclusivamente da artisti che in precedenza erano bloccati dai limiti dell’avvicendarsi di mostre e dai finanziamenti. Spiega che l’abilità di creare delle residenze annuali e di generare la vendita di biglietti permette alla nuova istituzione di sostenere la realizzazione di opere d’arte immersive da sogno che musei e gallerie non potrebbero permettersi. Avendo appena tastato il terreno a Miami, il prossimo step sarà invece quello di annunciare le prossime collaborazioni con altre istituzioni, alcune delle quali in veste di producing partner. «In definitiva, siamo qui per servire gli artisti e aiutarli a mettere in scena i loro progetti più ambiziosi senza limitazioni», spiega Dent-Brocklehurst. Come Kennedy di Meow Wolf, Dent-Brocklehurst dubita che “l’arte esperienziale” sia un nuovo genere, preferendo invece considerare Superblue come un’evoluzione del lavoro iniziato dai Land Artists, professionisti dalla mentalità architettonica come Colette e Gordon Matta-Clark, e istituzioni come Mass MoCA, The Kitchen e The Armory, che hanno sempre prestato i loro saloni per ambizioni su larga scala.

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Installation view of Leo Villareal: Harmony of the Spheres, 2020. Courtesy of Pace Gallery

È vero. Scavando nella storia degli spazi d’arte è impossibile stabilire quando sono diventati esperienziali. Il Louvre, per esempio, prima lasciava che il pubblico vagasse per le sue sale mentre gli artisti stavano lavorando sulle tele sistemate dal pavimento al soffitto. Su suggerimento di Louise Nevelson, nel 1942 Alfred H.Barr, il founding director del MoMA, ospitò nella lobby dell’edificio il famoso Joe Milone’s Shoe Shine Stand, offrendo ai visitatori la possibilità di farsi lucidare le scarpe sul trono incrostato di gioielli dell’immigrato siciliano Joe Milone (poi Barr fu cacciato dal board perché accusato di essere troppo all’avanguardia). Anche se il legame sul momento non era stato riconosciuto, è impossibile negare che l’interattività sia sempre stata fondamentale per il successo degli spazi dedicati all’arte. Forse ciò significa che l’attuale dominio dei social media nelle conversazioni sia soltanto una fase - una sofferenza crescente che presto collasserà nella nostra comprensione di queste istituzioni. Se il passato è di qualche indicazione, gli artisti tracceranno la via.

Quando a Leo Villareal, un artista rappresentato da Pace Gallery con dei progetti già in cantiere con Superblue e una carriera focalizzata su interventi pubblici, è stato chiesto di affrontare il dominio dei social media in quegli spazi e il senso di marchingegno che generano. «Una parte di me pensa che forse, con le giuste condizioni, il mio lavoro potrebbe essere uno spazio in cui ti viene di mettere via il telefono e semplicemente esserci. Poi potresti fare tutto quello che vuoi senza sentire la pressione di dover creare una interazione – che sia per lavoro o per i like sui social media. Quello per cui sono ottimista, se penso a Superblue, è che si stanno seriamente interrogando su questi temi. L’accessibilità è una riflessione a posteriori, ma un ingrediente essenziale in ogni passo della strada che porta dalla filosofia al design ai finanziamenti».

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Nella prima foto: ”Madame Curie,” 2011, by Jennifer Steinkamp. Nella seconda foto: “Retinal 3,” 2020, by Jennifer Steinkamp. Courtesy of the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seoul, and London.

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