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Alice in Doomedland: la nuova mostra di Fondation Valmont

Per la terza mostra a tema a Palazzo Bonvicini, Fondation Valmont ha chiesto agli artisti di interpretare una versione contemporanea di "Alice nel Paese delle Meraviglie", non solo fiaba, ma percorso tra il gioco e la riflessione introspettiva. Parla Didier Guillon: mecenate, esteta, collezionista e soprattutto artista.

The Room of Tears di Didier Guillon
The Room of Tears di Didier Guillon

Continuano le attività artistico-filantropiche di Fondation Valmont, che in occasione della Biennale di Venezia, presenta  Alice in Doomedland, la sua terza mostra tematica allestita a Palazzo Bonvicini, un palazzo storico di Venezia, in Italia, anche sede della Fondation Valmont. La muova mostra curata da Luca Berta e Francesca Giubilei, è il risultato di una collaborazione su larga scala tra il Direttore Creativo di Valmont e artista, Didier Guillon, e gli artisti Isao, Stephanie Blake, Silvano Rubino, gli studenti d'arte di Publicolor, un'organizzazione no-profit con sede a New York che aiuta i giovani emarginati a re-inserirsi nella società con l'uso dell'arte come terapia espressiva.

Ispirato da "Alice nel paese delle meraviglie", il romanzo vittoriano scritto da Lewis Carroll e pubblicato per la prima volta nel 1865, l'"Alice nella valle della sorte avversa" affronta uno dei temi più attuali della società contemporanea: la ridefinizione dell'identità, il nostro posto nel mondo a seguito della pandemia. La mostra instaura un potente dialogo visivo ed esperienziale, portando a galla interrogativi sulla condizione umana, promuovendo temi di vitale importanza come la sostenibilità, grazie alla realizzazione di opere d'arte a basso impatto, sfide personali tra cui vanità, mobilità, comunicazione e sfide universali, tra cui il riscaldamento globale e le crisi pandemiche. Seguendo il fil rouge del tema 2021 della Biennale di Architettura, ovvero "come vivremo insieme" come ridefinermo spazi e codici di comportamento collettivi dell'abitare, la mostra di Fondation Valmont ci chiede di guardare prima dentro noi stessi, per capire chi siamo e di conseguenza come agire nei confronti dell'altro, della società, dell'ambiente. Perché in fondo Alice siamo tutti noi. "Il linguaggio degli artisti, lontano dai sentieri battuti e dalla logica prestabilita, può essere in grado di riconnetterci a dimensioni che avevamo represso. L’arte diventa così motore di una riflessione sul ruolo decisivo di ognuno di noi nella trasformazione attualmente in corso nel mondo, quello vero stavolta”, spiegano i due curatori, Luca Berta e Francesca Giubilei ponendo l'accento sulla valenza espressiva e il dialogo che le opere, e di conseguenza gli artisti, hanno con il pubblico.

'Crossing-ad occhi chiusi' di Silvano Rubino
Drink Me - di Isao e Stephanie Blake
The Mad Tea Party a cura di Publicolor
The Room of Tears - Didier Guillon
The Garden Dreamers di Silvano Rubino, Isao & Stephanie Blake, Didier Guillon

E si parte con il "The Garden Dreamers" opera a cura di Silvano Rubino, Isao & Stephanie Blake e Didier Guillon, dove tutto inizia e tutto finisce, esattamente come nella fiaba di Carroll. Il visitatore entra in un giardino 3.0 con proiezioni video -a cura di Silvano Rubino- in cui ricorrono gli interrogativi che lo Stregatto, il Brucaliffo e il Cappellaio Matto rivolgono ad Alice nel corso del suo sogno-avventura. Camminando su tappeti che evocano proprio il giardino di Alice - a cura di Isao- e ci si siede su sgabelli di design ricoperti di maglia, tessuto intriso delle essenze che ricordano i manti erbosi delle montagne svizzere, scelte appositamente da Didier Guillon per appagare e risvegliare il piacere olfattivo. "Sicuramente mettere insieme tutti gli artisti non è stato semplice, è complicato unire tutte le sensibilità e sintetizzarle in un'opera comune, ma siamo contenti di esserci riusciti. In questa stanza inizia un viaggio di riscoperta, al termine della visita si esce, speriamo, con una consapevolezza diversa, frutto di un percorso di trasformazione. Alice in Doomedland è infatti il risultato di un esigente lavoro di squadra, nato dall’incontro a monte degli artisti, che, in occasione di un apposito workshop, hanno dialogato dell’eco in loro suscitata dal fervido mondo di Alice" spiegano i curatori.

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Attraversando il giardino incantato, si giunge alla sala dedicata a Silvano Rubino, che anche in questo caso invita a compiere un viaggio, ma stavolta interamente rivolto verso l’interno. Per l’artista sono le domande che vengono poste ad Alice, sono le domande che lei stessa si pone. "A volte per scoprire chi siamo ci specchiamo nelle domande e le risposte degli altri" dice l'artista multimediale veneziano. La sua imponente installazione è costituita da grandi tele colorate modulari che delimitano un’architettura composta da tre spazi. La facciata è un grande quadrato, il visitatore entra letteralmente nell'opera pronto a lasciarsi alle spalle la propria razionalità e mettere in moto anche il corpo, oltre che la mente. Per accedere alla seconda stanza all'interno di questo grande cubo colorato di giallo (simbolo della coscienza) e viola (simbolo dell'incoscio), deve lasciarsi scivolare su un piano inclinato, dimenticandosi per un attimo la serietà del mondo degli adulti. Cadendo in un buco che ricorda quello in cui Alice cade per seguire il Bianconiglio.

Da lì si accede a un cubo viola di grandezza ridotta, e sui muri campeggia la scritta in neon “Who are you” in un eco ripetuto di suoni che sussurrano la domanda che il Brucaliffo rivolge insistentemente ad Alice. Da lì si accede a una terza sala giallo violacea, in cui compaiono teste mozzate di sculture, e dall'altra una video installazione in cui volti e suoni si alternano, mentre si riflette la seconda scritta al neon di una delle domande più enigmatiche del romanzo " Why is a raven like a writing desk" "Perché un corvo sembra una scrivania?" un indovinello al quale nemmeno nel libro si trova risposta. E allora si alzano gli occhi per scorgere una scrivania in legno sovradimensionata su cui è appollaiato proprio un corvo e sotto la quale i visitatori devono passare per uscire dalla sala. Che sia il caso di lasciar perdere la logica per capire certi cambiamenti e significati nella vita di tutti i giorni? "Non credo che la pandemia ci cambierà così tanto, quello che credo è che il mio compito come artista sia quello per lo meno di far evadere il visitatore, e nel portarlo nel mio mondo oltre le mie stesse intenzioni, di farlo pensare" racconta Silvano Rubino. 

Drink Me - di Isao e Stephanie Blake

La capacità di cambiare la dimensione del corpo nello snodo della storia, blocca Alice nel proseguire la sua esperienza, quando bevendo diventa gigante e si trova incastrata all'interno della casa in cui si trova, quasi a dire la nostra presenza diventa ingombrante. Evolviamo e cresciamo, ma questo aiuta la nostra crescita interiore? L'opera di Isao e Stephanie Blake si chiama “Drink me!”  e ha la capacità di interpellare con forza i visitatori. Gli artisti invitano ad immergersi carnalmente nel libro, trasponendolo in una visione monumentale l'indagine sul rapporto spazio-corpo-mente.

La loro installazione presenta un’Alice gigante, manifestamente troppo grande per la stanza in cui si trova, cha assume così un aspetto imponente, quasi teatrale, il cui corpo è ancorato grazie a elementi “rigidi”: la mano e la scarpa sono infatti in ceramica, il materiale d'elezione per Isao, che rappresentano inoltre un omaggio al materiale con cui erano realizzate le bambole vittoriane. Il risultato ottenuto è il collegamento, attraverso l’opera, dello spazio-tempo del romanzo con quello odierno. Completa l'opera la striscia comics fumetto di Stephanie, che rimette in evidenza le vicende della fiabe in chiave contemporanea.

Ritratto di Didier Guillon

Infine si arriva alla stanza di Didier Guillon  dove una costellazione di "cage" blu (gabbie à la francese) appese a livelli diversi nello spazio. Nella “The Room of Tears” l'artista, sempre attento ai problemi sociali, etici e estetici della nostra epoca, con questa opera collega la fiaba alla realtà contemporanea. L'opera si trasforma in performance perché richiede l'intervento del visitatore. Per Didier Guillon si tratta di vere e proprie gabbie né aperte, né chiuse… La possibilità di (inter)agire sta tutta nell'attesa della mano che le aprirà… o meno… Mentre il colore blu ci porta dritti dritti nel mare di lacrime della bambina, sopraffatta dalle sfide cui deve far fronte. All'interno di queste gabbie che il visitatore potrà aprire si trovano "i pezzi del puzzle" ovvero le sfide del nostro contemporaneo: da quelle più personali legate all'estetica, a quelle sociale come la discriminazione, fino a quelle mondiali della salute post-pandemia e del riscaldamento globale, in un gioco di allusioni, immagini, oggetti fisici, piccoli diorami visuali. Seguendo la prospettiva dell’artista, se lo desidera, il visitatore troverà in se stesso delle risposte talvolta inattese alle grandi questioni del nostro tempo.

Come è nata l'idea della mostra? Perché si tratta ancora di una fiaba, dopo Hansel & Gretel?

Vogliamo raccontare delle storie diverse. Le mostre di Fondation Valmont sono diverse e meno tradizionali. Il pubblico le ha premiate e abbiamo deciso di cavalcare l'onda. Il progetto è stato un vero e proprio lavoro corale tra di me, gli altri artisti e i curatori. Ci siamo trovati a Hydra per un workshop di una settimana, abbiamo riletto il romanzo, analizzato i concetti e li abbiamo adattati al messaggio che volevamo dare proprio ora. L'idea del tema è arrivata anche ben prima della pandemia, ma ci sembrava giusto esplorare un classico e rivederlo in chiave 3.0 con un mix di multidisciplinarità artistica.

Quanto crescere a contatto con l'arte ha influenzato la sua vita personale e d'artista?

Sicuramente è di famiglia. L'arte è il filo conduttore all'interno della famiglia Guillon. Una storia che affonda le sue radici a Parigi, dove Charles Sedelmeyer, nato a Vienna nel 1837, padre della mia bisnonna, aprì la sua galleria d'arte, in rue de La Rochefoucauld n. 4. Un gusto per il raro, il bello, il prezioso, tramandato di generazione in generazione. Io sono cresciuto circondato dall’arte contemporanea, mio padre mi ha portato nei musei fin da piccolo, al Prado di Madrid, alla Tate Gallery di Londra, o ancora, il MOMA di New York. Fin da subito è stata l'arte contemporanea ad affascinarmi, in particolare l'espressione del colore in Rothko o Pollock. È qualcosa che ti segna per sempre e inevitabilmente marca il tuo gusto e la tua percezione dell’arte. Poi con il tempo chiaramente si aggiungono anche altri elementi.

Ad esempio le figure iconiche che identificano l'artista?

Sì, nel mio caso sono tre elementi: la maschera, che trovate anche sulle boccette delle mie fragranze serie "Storie Veneziane", il gorilla cubista (che rende omaggio alla mascotte Ivo dello zoo di Berlino) e in ultimo la cage.

Cosa ci racconta The Room of Tears, perché le gabbie sono blu?

Sono il colore delle lacrime di Alice quando si trova sopraffatta da tutto quello che deve affrontare. Esattamente come lei, siamo tutti alla ricerca di risposte. Ho provato a identificare quelli che sono i principi, concetti, situazioni socio-politche e ambientali in cui ci troviamo, dando la mia visione. Vi ho invitato a "indovinare" cosa volevo dire con ogni cage, e ognuno di voi ha dato un'intepretazione diversa. Vi ho spinto però a riflettere e per il tempo in cui avete impiegato a "decifrare" l'opera siete rimasti dove vi ho voluto portare. La gabbia in questo caso è aperta, perché non è una costrizione, è solo un modo per cristallizzare tutte le domande che mi sono posto in questo momento così strano.

Palazzo Bonvicini ospita la Fondation Valmont, come è nato l'amore con Venezia?

Venezia è una sensazione di vibrazioni, di intime energie, di bellezza che ti invade, di calore umano. Ci sono venuto con mia moglie un Natale di diversi anni fa, era freddo, romantico, indimenticabile. L'arte, il cibo, l'archiettura. Venezia è anche una metafora dell’umanità: è una città fragile, come le persone. Quando mi chiedono “Perché vuoi venire a Venezia? Prima o poi scomparirà”, io rispondo: “Perché io scomparirò prima di lei”. Amo la Svizzera, che è bella per la sua natura incontaminata, le montagne i prati. Venezia, al contrario, è pura estasi. All’inizio pensavo di trasferirmi a Barcellona, dove apriremo una delle nostre Residenze e una Spa, ma non mi sono bene inserito, la trovo molto chiusa come città. Venezia è aperta, con uno spirito solo all'apparenza velato di tristezza, io qui mi sento a casa. Alla mia figlia più giovane Valentine piace venire a fare shopping, mentre Maxence, che un giorno diventerà presidente della fondazione, ne è rimasto rapito. Quando ho trovato Palazzo Bonvicini è stato amore a prima vista. Non puoi raccontare una storia senza il luogo ideale, e allo stesso tempo la location perfetta non si esprime se non ha il contenuto giusto al suo interno.

Parliamo delle fragranze Valmont , una linea è dedicata proprio a Venezia.

Con mia moglie Sophie abbiamo deciso di rendere omaggio a una dimensione olfattiva del fasto e dell'estetica veneziana. Attraverso "Storie Veneziane" raccontiamo tutte le sensazioni che la città suscita. L'effige della maschera, una delle mie cifre stilistiche, compare sulle boccette delle fragranze per opera del mastro vetraio Leonardo Cimolin ). A Venezia al Fondaco dei Tedeschi, il concept store vicino a Rialto, trovate al corner Valmont tutte le 3 linee delle fragranze. L'ultima fragranza in arrivo è invece Scarface.

Come mai Scarface?

Prima di tutto adoro il film! Scarface ha l'effige di una maschera veneziana, sempre realizzata in vetro di Murano, e rappresenta un profumo "legacy" che rimarrà nella storia di Valmont. Solo 100 pezzi in edizione limitata, ma ancora non posso rivelare la piramide olfattiva.

Quali sono i concetti chiave per raccontare l'universo Valmont e i progetti per il futuro?

Bellezza, arte, hospitality. Bellezza che si esprime nei nostri prodotti cosmetici e nelle fragranze, arte con la fondazione e piacere dell'ospitalità con il progetto delle residenze Valmont. Le Residences Valmont sono a Hydra in Grecia, a Verbier e nel 2023 apriremo a Barcellona. Anche Palazzo Bonvicini diventerà una residenza esclusiva. Vorrei diventasse un centro nevralgico del nostro universo perché racchiude tutte le nostre esperienze, dai profumi all'arte all'aggregazione. Desidero organizzare dei corsi di cucina per far riscoprire le tradizioni culinarie veneziane, wine tasting e workshop in cui tanti artisti possano dialogare, e perché no con un focus sui maestri vetrai. Con il fatto che mi trasferirò entro fine anno nella città più bella del mondo, sarò ancora più inserito nel tessuto della vivacità della vita veneziana e la mia opera di mecenate sarà sempre più attenta. Potrò curare personalmente la creazione di una location di eccezione dove artisti, clienti ed amici della maison potranno incontrarsi per discutere di arte e bellezza, godersi la convivialità e vivere, in mia compagnia, il mondo Valmont.

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Scarface - profumo Valmont in edizione limitata
Palazzo Bonvicini - sede Fondation Valmont a Venezia
Residence Valmont Villa Valentine Hydra
Residence Valmont Chalet Capucine a Verbier

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