Un weekend a Trieste: scoprila, e raddoppia
Limite, crocevia, margine, confine... paradosso e contraddizione: carioca e mitteleuropea. Trieste, una città che si specchia nel mare e rivela l’identità dei suoi visitatori. Scopri le nostre tips per non fermarsi soltanto un week-end.
È lo spettacolo dell’Adriatico quello a cui, come parrebbe indicare sulla stele l’indice proteso della statua di Carlo VI, si assiste seduti ai tavolini del Caffè degli Specchi, ordinato un Nero o un Capo in B, secondo codici da mandare presto a memoria anche per milanesi al mare che credevano, fino a oggi, d’avere inventato la complicanza chic del caffè al bar, pena fare la figura di sprovveduti étrangers, o è piuttosto il Piccolo Lago Salato - come lo chiamava Gillo Dorfles - che ogni seconda domenica di ottobre si riempie di vele per la Barcolana a essere non proscenio ma platea, per le quinte magnifiche e maestose di Piazza Unità d’Italia? O sarà invece Trieste stessa, narcisa per lo sfoggio monumentale, tra ascese ardite, ortogonali asburgiche e sprofondi decadenti, dei suoi palazzi zuccherosi e laici, intitolati alla gloria transeunte dei governi, delle banche e delle assicurazioni, e delle sue chiese cosmopolite - aspra e vorace come la voleva il Saba, ricca di contrasti, non-luogo abbarbicato a un confine mobile, ma anche non-tempo: un’istantanea progressista, per slancio e cultura spesso in anticipo, il cui negativo restituisce invece la fissità di belle epoche andate e rigurgiti mitteleuropei - a essere in posa per i versi di poeti tormentati in balia dei venti, mentre si protende quasi fosse lo stick per un selfie telefonico sulla direttrice del molo Audace, immortalando il sorriso beffardo e sdentato dei suoi fantasmi che dormono in cielo sulla collina di San Giusto?
Un gioco di specchi dove si finisce per vedere qualcosa di sé, magari il proprio destino che Lacan voleva essere scritto sulla nuca, e forse pure in una delle tante lingue che si parlano qui e non è la propria nativa, se ci si abbandona alla follia d’essere imperatori o pitocchi, filiformi principesse tristi che si credono gabbiani e toniche prostitute capaci di spegnere incendi, rigorosi moralisti austroungarici e californiani easy-going baciati dal sole, nei caffè letterari per le raffinate chiacchiere dei romanzieri residenti e nelle bettole rivisitate in chiave osterie global non più per marinai ma per picari dee-jay e crew di serie tv di passaggio, negli aristocratici bagni decaduti per oziose giornate senza fine, le donne di qua gli uomini di là, o per un cambio costume nei Topolini a Bàrcola prima di azzardare una clanfa in fugaci pause pranzo, perché Trieste guarda l’Italia delle canzonette dall’alto in giù ed è la città più meridionale dell’Europa del Nord, e a chi smarrisce la bussola tra tante apparenti contraddizioni e trova pace solo nei cliché non avendo risposta all’interrogativo “sarà nobile eclettismo o kitsch?” non resta che scegliere tra edonismo e calvinismo, piacere e dovere, e chiamarla – mancando comunque il bersaglio sulle facce di un bicchiere in ottavo - la Napoli del Nord.
Dalle ampie parigine vetrate del Savoia Excelsior Palace, in sale dal gusto imperiale - stucchi, affreschi e cilindrici lampadari in tessuto - che sarebbero piaciute a Luchino Visconti, e che hanno visto soggiornare arciduchi e Boss del rock, degustando a pranzo una Vitovska leggera anzi leggerissima, ci si prova a mettere ordine ai pensieri, dopo passeggiate che sono in lungo e in largo, tra il mandracchio e l’orizzonte vasto, e poi improvvisamente erte appena passato il quartiere un tempo bordello malfamato di Cavana e ora gentrificato a tinte pastello come i dorsi degli Adelphi di Bazlen e i lampioncini romantici alla maniera di certe aree che si danno arie in capoluoghi più vicini all’Europa che conta (l’Isola, a Milano, e NoLo), col sole che picchia mediterraneo in testa e poi diventa un acquazzone nordico e frenetico, col passare improvviso di rapide nuvole, e il vento che anche quando non è la rara Bora rimescola le suggestioni, il mare caldo e le masse d’aria fredda, e confonde le idee cartesiane con le visioni allucinate di grandi animali in plastica sgargiante, in un respiro possente.
A Trieste c’è un turismo da due giorni, ed è un peccato, che fai in tempo ad aprire e chiudere l’ombrello, ad assaporare la vita bella del mare sul Delfino Verde che fa avanti e indietro tra la baia amorosa di Sistiana e l’approdo di Muggia, a perderti dentro tunnel che sono parcheggi verticali per auto per trovare magici ascensori che conducono a spericolate cattedrali, indovinare pertugi tra muri di case e giardini, tra lo spetazzare di motorini che arrancano in salita, che danno su scorci blu di Prussia di onde che per un attimo puoi illuderti siano scoperte soltanto tue. E invece avresti bisogno ancora di altro tempo, almeno per assaporare la Trieste selvatica che sta sopra e attorno alla città. Una visita al castello di Miramare a picco sulla scogliera, così bianco da sembrare ritagliato nel cartoncino e poi assemblato seguendo linee tratteggiate, una pausa al belvedere del Formaggino come i triestini doc chiamano sprezzanti il sacromostro mariano in cemento armato dal quale si gode, in una pace solare, una vista stupenda su Trieste e sul golfo con la prospettiva di un drone, una corsetta rigenerante sui sentieri tra prati, muretti a secco e boschi di conifere, saltando fuori e dentro le doline a Basovizza, una romantica passeggiata mattutina sulle falesie della Riserva del Duino (o una serata ad ascoltare le liriche del Rilke mentre il mare luccica) tra erbe odorose, aghi di pino e scaglie di rocce che sono un invito a salire su di qualche decina di metri, guidando verso Opicina, sfrizionando sui tornanti di Conconello, e provare a scoprire l’altopiano agro del Carso, indovinando nelle frasche al ciglio della strada la via per le osmizze, dove gustare col vino i prodotti locali, o farsi accompagnare a fare foraging per recuperare un rapporto autentico con la terra o in visita nelle cantine di vigne che sono strappate coi denti alla roccia direttamente dal produttore - ma solo se siete fortunati o conoscete l’amico giusto, altrimenti è facile vi si risponda con un, questo sì davvero partenopeo, “Non so se ne ho voglia” che piacerebbe al Bellavista di De Crescenzo - e apprezzare il Terrano rosso e la profumata Vitovska e il dolce Malvasia e innamorartene per sempre. Lo stesso amico che potrebbe avere un amico sloveno con la barca a motore come Zeno Cosini alla Riviera di Sant’Andrea e ci metterebbe due secondi a convincerti ad andare a raccogliere vongole o qualche miglia più al largo a inseguire un tonno, raccontandoti di quella volta che ne prese uno da novanta chili.
Le nostre mosse vincenti
Per soggiornare: a Trieste, Starhotels Collezione Savoia Excelsior Palace: un Grand Hotel di fascino, con vista mare sugli infiniti panorami dell’Adriatico. Stile fine ‘800 e fasti mitteleuropei nella preziosa lobby o nella library con elementi di arredo Liberty e Belle Époque e moderne contaminazioni nelle suites con terrazzo.
Per assaporare: a Trieste, Antica Ghiacceretta (www.anticaghiacceretta.com): impronta slow food per una cucina di pesce genuina che rivisita la tradizione con nuove e originali intuizioni, nel cuore di Cavana; a Sgoico, Bajta Salez (bajta.it), immerso in un bosco un agriturismo dove fermarsi per un boccone e scoprire un vero paradiso del prosciutto e dei salumi a gestione familiare.
Per degustare: a Prepotto, Cantina Kante (www.kante.it): da un territorio duro e aspro, il maestro Edi Kante trasforma e invecchia in bottiglia in una cantina su più livelli scavata nella roccia, con un portone che lascia entrare la brezza salina del mare, a partire da uve bianche, tutti i vitigni tipici del territorio friulano.