Stefano Pilati. L’importanza di essere estremo
«Mi sono sentito dire mille volte che lo chic non vende. Io direi piuttosto che lo chic non può essere venduto, ma di sicuro suggerito». Stefano Pilati presenta a Firenze durante la 97esima edizione di Pitti Uomo le novità di collezione di Random Identities, come ha chiamato la sua label indipendente fondata nel 2017. Al secondo tentativo, si concretizza la presenza dell’ex direttore creativo di Ermenegildo Zegna Couture e Yves Saint Laurent, dopo che era saltata la mostra che avrebbe dovuto curare durante una precedente edizione della kermesse toscana. E la gente della moda si divide, in attesa di vedere cosa racconterà attraverso i suoi capi gender fluid non per marketing, ma perché frutto di una autentica ricerca sul campo ruvido e disinibito della scena clubbing berlinese.
C’è chi lo attende con la curiosità eccitata di scoprire cosa accade quando uno stilista che ha davvero lasciato un segno nella storia dell’eleganza contemporanea si immerge senza gabbie protettive in una cultura selvatica, sebbene cittadina, come quella della capitale tedesca dove ormai vive. E chi ne prende le distanze, quasi teme di confrontarsi con la versione no limits di chi a lungo ha navigato nel lusso per antonomasia, per poi sbarcare in un una Tortuga piratesca da cui va all’arrembaggio di una estetica prestabilita.
Pilati è quello che ha inventato la Muse Bag o la gonna a tulipano di Yves Saint Laurent (quando la griffe portava ancora il nome del suo fondatore), nei suoi otto anni come direttore artistico dal 2004 al 2012. E che sempre per la maison francese aveva ideato il Manifesto, una free press curatissima da distribuire nelle piazze o all’uscita del metrò, in diverse città nel mondo, per parlare alla gente in modo più diretto. Prima di approdare a Parigi aveva esplorato la creatività nell’ufficio stile di Giorgio Armani, dov’era arrivato nel 1993 dopo un’esperienza in Cerruti, per poi fare il suo ingresso in Prada nel 1995. Tre anni dopo diventa assistant designer per Miu Miu, finché nel 2000 si sposta in YSL in epoca Tom Ford, di cui prende il posto quando il designer americano lascia dopo una tormentatissima esperienza.
Nel 2012 entra in Zegna con il compito di dare vita a un universo simile per concezione all’alta moda femminile, oltre che a ridefinire l’allure di Agnona con la collezione donna. Gli addetti ai lavori si spellano le mani alle sfilate del marchio, che con lui entra definitivamente nell’olimpo del menswear che traccia le tendenze. I manager del gruppo biellese, gioiscono un po’ meno visto che le vendite del suo segmento di prodotto non decollano come loro si erano immaginati. Nel febbraio 2016 Pilati chiude la sua esperienza dopo aver mandato in passerella a Milano un mese prima uno show-capolavoro, con i modelli che entrano in sala senza musica e senza preavviso, cogliendo il pubblico di sorpresa. Lì inizia il distacco dalle dinamiche del fashion business internazionale e matura la scelta di non volerne più fare parte in modo convenzionale. «La mia vita all'interno di grandi realtà aziendali è stata formativa e distruttiva allo stesso tempo. L'isolamento dalla moda che Berlino mi ha dato, crea più obiettività in quello che faccio. Oggi non ho paura. Ho dovuto lavare molti strati della mia personalità da quando ho deciso di andare da solo», racconta il designer che oggi vende le sue creazioni sul sito di e-commerce canadese Ssense.com e attraverso Dover Street Market, la catena di concept store creata da Comme des Garçons con la selezione dei marchi di ricerca apprezzati dalla maison giapponese e dalla sua visionaria fondatrice Rei Kawakubo. Lo Stefano Pilati del 2020 ha scelto di essere estremo, di vivere senza più farsi condizionare dai ritmi di una realtà, la moda, di cui continua ad amare profondamente l’essenza, sebbene provi fastidio per la forma. «Sono arrabbiato con il sistema perché le competenze della moda vengono ridotte a dei format precostituiti, a idee applicate senza metodo», dice e quella rabbia la trasforma in abiti e accessori che sono la sua risposta alla perdita di valori, al decadimento del senso civico, al dilagare del cattivo gusto.
Oltre a rappresentare il suo coraggio nel condurre una vita che oltrepassa i limiti di ciò che la società si aspetterebbe da una figura come la sua. Pilati infastidisce i benpensanti della moda perché sperimenta sulla sua pelle. Non si circonda di trasgressione, è lui stesso in trincea nella battaglia di chi non si conforma e diffida delle consuetudini. Pilati è diventato alfiere di una Do It Yourself culture non addomesticata da strategie di comunicazione, prende dei rischi in prima persona, senza tradire la sua innata predisposizione all’eleganza. Like it or hate it, Pilati c’è.