Massimo Giorgetti festeggia i dieci anni di MSGM
Pochi designers possono dire di essersi portati a casa duecento ordini di top boutique da tutto il mondo alla seconda collezione, ma è esattamente quello che è successo a Massimo Giorgetti, il fondatore dieci anni fa di MSGM, per il lancio della linea donna, preceduta di pochi mesi dal debutto del menswear. Ma ancora più significativo è come Giorgetti sia riuscito a trasformare il successo iniziale in una realtà solida, con uno stile deciso, colorato e dalla forte carica positiva.
Facendo un bilancio di questi primi dieci anni del brand, hai capito qual è stato il segreto del tuo successo?
L’avere realizzato fin da subito che, non ce l’avrei mai fat- ta da solo e che per riuscire a esprimere ciò che immaginavo, era necessario un team. Se dovessi definire MSGM partirei dal concetto di talento. Ho una specie di ossessione nel cercare di individuare ciò per cui ciascuno di noi è predisposto. Mi piace tirare fuori il meglio dalle persone e fare in modo che lo esprimano. Non credo nella figura dello stilista egoriferito.
Di te dicono che sei uno coi piedi per terra, confermi?
Sì e ne vado fiero. Sono nato in Romagna e ho avuto una infanzia benedetta. La mia famiglia ha origini contadine, perciò mentre i miei lavoravano, io crescevo in campagna insieme ai nonni e a tantissimi cugini con cui vivevamo ogni giorno mille avventure. Ce ne andavamo in giro quasi sempre a piedi scalzi, non avevamo videogiochi e guardavamo ben poca televisione. Papà e mamma mi hanno trasmesso il piacere di vivere la vita appieno senza perdere di vista gli obiettivi concreti. È il concetto alla base dei miei abiti, su cui applico le regole fondamentali della moda, che ho appreso ai tempi in cui facevo il commesso a Rimini in una grande boutique.
Quali sarebbero queste regole?
Funziona il prodotto che il cliente può indossare facilmente perché all’origine è stato fatto un lavoro sulla vestibilità. Il gusto nella moda evolve, ma questi cri- teri di base non cambiano mai. MSGM è fatto di vestiti da portare nella quotidia- nità, capi che ti devono aiutare a sentirti bene e dai prezzi accessibili.
Il marchio è andato sempre in crescendo, ma ci sono stati momenti in cui hai dubitato delle tue intuizioni?
I primi anni sono stati durissimi perché, a differenza dei buyer, la scena fashion milanese non mi apprezzava. Questa è la prima volta che lo ammetto pubblicamente ma all’epoca mi è venuto il dubbio di avere preso la strada sbagliata. Faticavo ad ambientarmi in città: l’ho detestata a lungo, finché l’energia del luogo, e forse anche la mia, è cambiata. A quel punto è scoppiato l’amore, tant’è che le ho dedicato una collezione di cui sono orgoglioso perché ha venduto tantissimo in tutto il mondo.
Cosa apprezzi nelle persone?
L’ambizione. Sono sempre stato ambizioso e sprono tutti i miei collaboratori a fare altrettanto. È un tratto caratteriale a cui viene attribuita una connotazione negativa che non condivido. Ma dev’essere sana e abbinata a un buon cuore, altrimenti è terrorismo dell’anima.
Cosa invece mal sopporti?
Non sopporto quando si abusa del verbo copiare. Se uno stilista vede una cosa che lo stuzzica e la fa sua, rielaborandola in modo personale, non ha senso parlare di copie. La moda rispecchia con i propri abiti l’evoluzione della società; trovo normale che ci siano delle contaminazioni. MSGM detta i trend ma è anche pronto a seguirli: se a un certo punto il mondo va da una parte, io non posso ignorarlo e andare dall’altra.
E secondo te adesso il fashion dove sta andando?
Lo streetwear è ben lungi dall’essere finito, deve però diventare più sofisticato e scoprire una vena di poesia. Vedo in arrivo più pulizia ed eleganza, oltre alla voglia di ritrovare un contatto diretto con la cultura, intesa non come snobistica ostentazione di sapere, ma come desiderio di conoscere e capire il presente. Trovo molto interessante il lavoro di Daniel Lee da Bottega Veneta.
Come immagini il futuro del tuo brand?
Ho passato tutta l’estate a interrogarmi sul tema del next step. Credo che un marchio esprima ciò che vive chi lo disegna e oggi sento il bisogno di rallentare, di riflettere di più. Nutro sempre più dubbi sulle dinamiche scatenate da Instagram, sull’eccessiva rincorsa ai likes e sul troppo tempo che tutti quanti dedichiamo a questo media. Stiamo per entrare negli anni Venti del XXI secolo e ho la sensazione che si aprirà una decade dove sarà l'autenticità di un progetto a determinare il successo.