Giuseppe Spata racconta L'Arte della Gioia: «Recitare? Un'emozione adrenalinica»
Siciliano, scopre il teatro da giovane, per poi passare al cinema e alla tv, dove ora interpreta la serie “L’Arte della Gioia” diretto da Valeria Golino.
Text by ALESSANDRO VIAPIANA
Photography PAOLO MUSA
Styling JANOU MONTEAGUD
Giuseppe Spata, 33 anni, ha iniziato a recitare a 11. Originario di Ragusa, scopre la recitazione in quello che definisce un percorso «adrenalinico», nato come antidoto alla noia scolastica e trasfor- mato presto in una vocazione artistica. Al cinema ha lavorato in “Soldato semplice” di Paolo Cevoli (2015), “Leonora addio” di Paolo Taviani (2022) e “Stranizza d’amuri” di Giuseppe Fiorello (2023). Sul piccolo schermo, invece, ha affiancato su Rai1 Elena Sofia Ricci ne “I casi di Teresa Battaglia” e, dal 28 febbraio 2025, è su Sky Atlantic ne “L’Arte della Gioia”.
Diretta da Valeria Golino e presentata in anteprima al Festival di Cannes lo scorso maggio, la miniserie porta in scena l’omonimo romanzo di Goliarda Sapienza, pubblicato postumo. Al centro della narrazione Modesta, una protagonista fuori dagli schemi: una donna priva di condizionamenti, libera nella sua sessualità e determinata a sovvertire le convenzioni e i ruoli imposti dalla società.
L'OFFICIEL HOMMES ITALIA: Cosa ti ha attratto de “L’Arte della Gioia” e del personaggio che interpreti?
GIUSEPPE SPATA: “L’Arte della Gioia” è, innanzitutto, un libro straordinario. La serie, così come il romanzo, non ha precedenti nel raccontare un personaggio femminile così autentico, scorretto e, se vogliamo, persino spietato. Il mio personaggio, appena accennato nel libro, è stato sviluppato nella sceneggiatura da Valia Santella, Valeria Golino, Francesca Marciano, Luca Infascelli e Stefano Sardo. Si chiama Rocco Schirò, un uomo figlio del suo tempo, i primi anni del Novecento, un’epoca in cui le barriere sociali erano rigide e invalicabili. All’epoca, la vita si riduceva a due regole fondamentali: riuscire a mangiare e non farsi ammazzare. Una logica brutale, ma di una semplicità disarmante.
«Giudicare spetta ai moralisti, e il moralismo è sempre, in un certo senso, limitante. Ti impedisce di osservare le cose da un'altra prospettiva»
Rocco si muove in un ambiente sospeso, un microcosmo straordinario che la serie riesce a restituire magnificamente: una tenuta nobiliare immersa nella campagna siciliana, dove riesce a trovare lavoro come autista guidando una delle prime automobili dell’isola. Lavorare per la proprietaria della tenuta (Valeria Bruni Tedeschi), per Rocco significa semplicemente garantirsi la sopravvivenza. Quando però incontra Modesta in lei vede qualcosa di diverso. Lei non accetta le regole imposte dalla società, non si piega alla logica delle classi sociali e avverte in lei la stessa fame che lo accompagna da sempre. Questa affinità crea tra loro un legame immediato.
LOHI: Parli con passione di questi personaggi.
GS: Sì, la cosa più bella del mio personaggio, ma in realtà di tutti i personaggi de “L’Arte della Gioia”, è la loro complessità. Nessuno è ridotto a un’idea semplificata di bene o male, non si rinuncia mai alle sfumature, ai contrasti, alle ambiguità che fanno parte dell’essere umano. Non c’è un giudizio morale sotteso alla narrazione, nessuna semplificazione che suggerisca al pubblico cosa sia giusto o sbagliato. E questa è una delle cose che amo di più nel cinema e nella letteratura: essere messo di fronte a condizioni di vita e scelte estreme senza imposizioni, senza moralismi. Giudicare spetta ai moralisti, e il moralismo è sempre, in un certo senso, limitante. Ti impedisce di osservare le cose da un’altra prospettiva.
LOHI: La serie è stata girata in Sicilia. Da siciliano c’è un’immagine che ti è rimasta particolarmente impressa?
GS: Per me la Sicilia è il mare. Anche se la serie parla molto di terra – Modesta nasce nell’entroterra siciliano, in una condizione di povertà estrema – il suo viaggio è, simbolicamente, un viaggio verso il mare. Nella serie questa metafora viene raccontata visivamente in modo splendido.
LOHI: Cosa ti lega così tanto al mare?
GS: Sono cresciuto in una casa a Donnalucata, un piccolo paese in provincia di Ragusa. La casa, costruita da mio nonno, si affaccia sul mare, proprio a pochi metri dagli scogli. Ho un ricordo molto chiaro, che ho sempre dato per scontato fino a quando non sono andato a vivere a Roma. La sera d’estate, quando faceva caldo, bastava aprire le finestre per sentire il rumore delle onde sugli scogli. Il mare può essere una prigione oppure un rifugio. Dipende da come lo vivi.
LOHI: Che rapporto hai con Valeria Golino?
GS: Stupendo, un privilegio. Valeria è la regista che qualsiasi attore sognerebbe di avere sul set. Ma non solo gli attori: anche le persone di tutti gli altri reparti. Ha la capacità di farti sentire accolto, compreso, mai giudicato. È attenta a tutto, ma al tempo stesso leggera. Sempre con il sorriso, ma senza mai perdere il controllo di nulla. Quello che la rende speciale è la sua apertura alla sorpresa. È capace di cogliere il potenziale di un momento non scritto, di qualcosa che nasce sul set e che non era previsto dalla sceneggiatura. Questo è un dono raro. Ti permette di metterti in gioco, di essere davvero parte del processo creativo. Questo ha fatto sì che sul set si creasse un ambiente speciale, in cui tutti, dagli attori ai tecnici, lavorano con entusiasmo, rispetto e un senso di orgoglio condiviso. Lo ricordo con un senso di malinconia felice.
LOHI: E con il cast?
GS: Ho legato molto con Guido Caprino, anche se in realtà non avevamo scene insieme. Vederlo lavorare, osservare il modo in cui si è messo al servizio della storia, il suo approccio generoso al mestiere, è stato illuminante. Mi ha aiutato molto, anche solo attraverso le conversazioni, parlando di scene, di cinema, confrontandoci su punti di vista diversi. Ma in generale c’era tra tutti un’attenzione reciproca percettibile in ogni momento. Quando giri un film o una serie come questa, si crea una sorta di bolla. Sei isolato dal resto del mondo, e le persone con cui lavori diventano la tua famiglia. E questa è una delle cose che amo di più di questo mestiere.
«Quando giri un film, si crea una sorta di bolla. Sei isolato dal resto del mondo, e le persone con cui lavori diventano la tua famiglia»
LOHI: Qual è stato il tuo primo ruolo in assoluto?
GS: Un generale in una reinterpretazione della “Lisistrata” di Aristofane, a 11 anni. Fu l’inizio di tutto. Nel senso che prima di allora non avevo neanche contezza di cosa fosse il teatro. Mi dissero che se mi fossi iscritto a teatro mi avrebbero chiamato per le prove durante l’orario scolastico. Divenne semplicemente la possibilità, perché così mi era stata venduta, di saltare le lezioni. Io avevo molta poca voglia di stare a scuola, avevo un rendimento pessimo e in più non avevo quel timore, quella paura reverenziale, che tutti hanno della scuola. Non me ne fregava dichiaratamente nulla.
LOHI: Cosa successe?
GS: Appena finite le prove trovai di aver vissuto l’emozione più adrenalinica di sempre, senza contare il fatto che in teatro per la prima volta quello che ero io aveva un valore unico.
LOHI: Se dovessi scegliere un ruolo che ancora non hai interpretato?
GS: Mi piacerebbe interpretare un pittore.
LOHI: La pittura è l’altra tua grande passione. Com’è nata?
GS: Mi piaceva disegnare, mi impegnava le giornate. Mia madre mi regalò una tela e dei colori a olio. Ho imbrattato qualsiasi cosa, non è affatto facile. È stato davvero frustrante, è lo è ancora, rendermi conto che più dipingo meno so farlo. Però sarebbe anche molto presuntuoso pensare di dipingere e sapere già di produrre un capolavoro. Uno dipinge e fa dei tentativi, credo sia questo il giusto approccio.
LOHI: Che soggetti dipingi?
GS: I soggetti variano, perlopiù sono figurativi. Proprio ora stavo facendo uno studio ma l’ho ricominciato da capo, su una manifestazione, dopo aver visto una foto d’epoca a casa di nonna tutta strappata, che rappresentava una folla gigantesca di persone che, appunto, manifestava. Saranno stati gli anni ’40 o ’50, non lo so, a Scicli.
LOHI: Sei un lettore vorace, qual è l’ultimo libro che hai letto?
GS: Sto finendo “La montagna incantata” di Thomas Mann. L’ultimo libro che ho letto è stato “Antichi maestri” di Thomas Bernhard. Una scoperta meravigliosa, tanto che ho deciso di leggere tutti i suoi libri.
LOHI: C’è un passo de “L’Arte della gioia” che ti è rimasto impresso?
GS: Una citazione di Diderot presente all’interno del romanzo: «Abbi sempre presente alla mente che la natura non è Dio, che un uomo non è una macchina, che un’ipotesi non è un fatto».
CREATIVE DIRECTOR Beatrice Valessina
GROOMING Antonella Mininni
PHOTO ASSISTANT Carlo Carbonetti
STYLING ASSISTANT Veronica Marchetti
LOCATION Spazio Arquà