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"Inshallah a Boy", la protagonista Mouna Hawa racconta il film al cinema dal 14 marzo

Primo film giordano ad essere presentato a Cannes, è una testimonianza importante dei troppi diritti negati alle donne. Nelle sale dal 14 marzo.

Mouna Hawa in uno still del film
Mouna Hawa in uno still del film
Mouna Hawa in uno still del film

Opera prima di Amjad Al Rasheed, "Inshallah a Boy" racconta la storia di una giovane donna nella Giordania di oggi, interpretata magnificamente da Mouna Hawa, che, ritrovatasi improvvisamente vedova, rischia, in assenza di un figlio maschio, di dover condividere la casa dove vive e cedere la custodia della figlia bambina alla famiglia del marito, in ottemperanza alla concezione della proprietà ispirata alla Sharia. Un film particolarmente significativo in un contesto mondiale di troppi diritti negati alle donne, e della rivolta delle donne iraniane.  

Come racconta il regista: «Inshallah a Boy è una storia di sopravvivenza, di emancipazione e di speranza. Con questo film ho voluto denunciare l'oppressione imposta da una società patriarcale e invitare il pubblico a riflettere». Il film ha la stessa forza di denuncia dei costumi patriarcali e delle leggi che ne sono espressione di un film del 2014, sempre presentato a Cannes, di cui si era parlato moltissimo, "Viviane" diretto da Ronit Elkabetz e Shlomi Elkabetz, interpretato dalla stessa Ronit. Il calvario kafkiano di una donna che non riesce a divorziare perchè in Israele il tribunale rabbinico è la sola autorità giudiziaria competente in tema di divorzio, ma non può costringere un uomo a divorziare dalla moglie che ne fa richiesta. Affinché il divorzio possa definirsi completo, occorre infatti il consenso totale e assoluto del marito.

«Non credo che il film riguardi soltanto la società giordana. Affronta le disuguaglianze e le violenze imposte alle donne in tutto il mondo. In Giordania affronto questa disposizione della Sharia, ma potrei fare un film in Europa e parlare del divario salariale. Su scala globale, ci sono molte regole e leggi che fanno sì che le donne si sentano inferiori, ed è questa l’ ingiustizia che ho voluto denunciare» continua Amjad Al Rasheed. 

 

Mouna Hawa

Parliamo del film con la protagonista Mouna Hawa, attrice e cantante di origine palestinese nata a Haifa.

LOI: Nel film Nawal è povera, ma la ricchezza non è evidentemente una forma di protezione rispetto all'oppressione sistematica esercitata sulle donne, come mostra, sempre nel film,  il caso di Lauren. Pensi che nella realtà sia più facile per le donne ricche essere indipendenti? 
MH: Innanzitutto, vorrei dire che Nawal non è povera, è di classe medio-bassa, ha un lavoro rispettato e una casa rispettata, e se la cavava molto bene rispetto al fratello o al cognato. Ma se perdesse la casa, passerebbe a uno status inferiore. Sì, sicuramente una donna ricca può avere più possibilità di sopravvivere, ma con queste leggi, sia i poveri che i ricchi si trovano nella stessa situazione, e il personaggio di Lauren viene proprio a sottolineare che, in una società strutturata dalle tradizioni e dalle leggi, donne come Nawal e Lauren che cercano di trovare la propria strada indipendente, anche se provengono da ambienti, classe sociale e religione diversi, alla fine si ritrovano nella stessa posizione. Quindi il problema non è la mancanza di risorse, ma le leggi tradizionali che strutturano la società.

LOI: Perchè credi che questo film sia particolarmente rilevante? 
MH: Questo film è un modo per mostrare una storia di vita reale dal basso e presentarla alle persone privilegiate, in modo da poter guardare oltre i nostri privilegi e le cose che consideriamo e diamo per scontate, come i nostri diritti e la nostra libertà, per cercare di vedere il dolore e la sofferenza degli altri. È per questo che è così importante raccontare le nostre storie, per cercare di capire noi stessi e per cercare di indagare la nostra struttura sociale. Come donna che proviene da una società patriarcale, per di più occupata, e che partecipa alla realizzazione di un film, credo che abbiamo un grande lavoro civile, per l'emancipazione delle donne, per la libertà delle donne. C'è una frase che ripetiamo sempre, perché sappiamo cosa vuol dire essere occupate nel corpo e nella mente, come donne, dall'occupazione occidentale: non c'è paese libero senza la libertà delle donne, o non c'è libertà senza la libertà delle donne. Crediamo nella libertà di tutti, senza escludere la libertà di nessuno, questo è il movimento di emancipazione di cui abbiamo bisogno oggi. 

LOI: Nella tragedia collettiva di quello che sta succedendo in Palestina, pensi che le donne soffrano della situazione ancora più degli uomini?
MH: Qui le donne subiscono tanti strati di oppressione, e l'occupazione non fa che aggravare la situazione. Posso fare l'esempio di ciò che sta accadendo oggi a Gaza, dove le donne non possono avere accesso ai prodotti sanitari, devono inventarsi gli assorbenti da sole, e non credo nemmeno che abbiano gli strumenti per inventarli. Riceviamo notizie di donne che vanno in travaglio e partoriscono senza alcuna forma di assistenza medica. Oltre a tutta la documentazione nei video dei social media che vediamo di come i soldati trattino come oggetti sessuali le donne palestinesi, non solo uccidendole, ma anche prendendo la loro lingerie e pubblicandola sui social, tutta la sessualizzazione delle donne è un altro livello di oppressione che viene praticato sulle donne. Tutti questi diversi livelli di oppressione che le donne subiscono durante lo sterminio di Gaza ci portano al punto della necessità di una piena emancipazione delle donne anche dal colonialismo, dall'occupazione e dal patriarcato in tutte le sue forme.

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