Interviste

Women’s rights: l'intervista a Francesca Mannocchi

Reporter, ha documentato gli ultimi conflitti in Iraq, Libia, Yemen, Afghanistan, e, da inviata per LA7, in Ucraina e a Gaza. Nel 2018 ha presentato a Venezia un documentario sui figli dei miliziani dell’Isis.

Un ritratto di Francesca Mannocchi
Un ritratto di Francesca Mannocchi

L’OFFICIEL ITALIA: Sei stata su scenari di guerra molto diversi. In un contesto di tragedia collettiva, come hai vissuto, e documentato, la condizione specifica delle donne?
FRANCESCA MANNOCCHI: Le donne in guerra diventano depositarie della cura di chi resta e non va al fronte, di chi sopravvive e della memoria. E se la guerra è raccontata inevitabilmente in maniera muscolare, spetta a loro mantenere una quotidianità che deve rimodularsi sulla vita nuova. Mi ricordo l’inizio della guerra in Ucraina a marzo 22, i primi treni che portavano via, verso la Polonia, anziani, donne, bambini. Ricordo gli uomini sui binari, cui in quell’occasione era concesso piangere, mentre alle donne spettava il dovere di mentire, l’obbligo di non lasciarsi andare alle emozioni di fronte a una vita distrutta.

LOI: E nei paesi islamici? Dove la condizione delle donne già non è paritaria?
FM: Da Occidentali sottovalutiamo l’estrema importanza nei Paesi islamici della vita domestica. Una cosa è parlare delle donne in Afghanistan, completamente prive di diritti civili, per il Nordafrica dobbiamo raschiare via i nostri pregiudizi.

LOI: Le donne reporters di guerra la raccontano in un modo diverso rispetto ai colleghi maschi?
FM: Statisticamente il numero delle corrispondenti donne in area di conflitto è in crescita, su grandi catene come CNN e BBC le corrispondenti più note da Mosul, dall’Ucraina, dalla Palestina sono donne. Come donne reporters andiamo al fronte e partecipiamo della vita domestica, entriamo in una cucina e ci facciamo raccontare la vita, i desideri, i punti di vista. Una donna guarda dappertutto, nel fango di una trincea e dalla finestra rotta di una stanza, spazia dal tempo adrenalinico del fronte al tempo lento e sospeso di un parco innevato con i giochi distrutti dei bambini. Pensiamo che le guerre siano fatte dagli uomini, ma la fatica della sopravvivenza ricade soprattutto sulle donne.

LOI: Con tutto quello che hai visto, cosa ti fa ancora sperare nella possibilità della pace?
FM: Osservare la capacità di adattamento dell’umanità, che riesce a saper dividere il poco che c’è, a fare a meno di tutto e a continuare a sorridere ai propri figli. Dovremmo ascoltare di più i sopravvissuti e chiedere a loro cosa intendano per pace, che non è la semplice cessazione dell’attività militare. Una delle risposte che ho avuto è che c’è pace quando tre generazioni non ricordano la guerra, non hanno in memoria gli spari, le bombe. Ricordo un’anziana ucraina nel giardinetto di casa sua. Mi ha detto: “Abbiamo rimesso i vetri alle finestre: da dentro sembra tutto uguale, esci fuori ed è cambiato tutto! Ma dobbiamo smettere di sentirci dire che siamo vittime, perchè se no rischiamo di diventarlo”.

«Pensiamo che le guerre siano fatte dagli uomini, ma la fatica della sopravvivenza ricade soprattutto sulle donne».

LOI: Sei tornata a conflitto finito in un luogo dove eri stata a raccontare la guerra?
FM: Sono tornata a Mosul. C’ero stata negli otto, nove mesi di offensiva della coalizione internazionale per liberare la città dallo stato islamico e ci sono tornata in occasione del viaggio del Papa in Iraq. In una chiesa limitrofa alla città vecchia, la parte più distrutta della città, ho incontrato padre Olivier che mi ha detto: “Mosul è sempre stata il posto dove i campanili parlano con le moschee”.  

LOI:
Uno dei tuoi servizi più virali è quello del bambino di 7 anni di Jenin, che tra le rovine della casa distrutta dai razzi non può che considerare naturale un futuro in cui combatterà.  
FM: Ascoltare i bambini è lo strumento per provare a far capire che la pace è quella che resta nella memoria di chi sopravvive.  Nessuno nasce martire, spacciatore, assassino, ma è evidente che crescere in un campo profughi, senza elettricità, accesso alle scuole, sottoposto alla violenza di chi ti vuol far pagare le colpe dei padri non è zona di terreno fertile per la pianificazione della pace. Come potrà crescere questo bambino, cosa farà domani, sono i temi su cui occorre riflettere se vogliamo costruire la pace.

LOI: Sei stata in molti campi profughi.
FM: Imparare ad osservarli è un grande esercizio del limite del nostro occhio. Prima vedi la distesa delle tende di plastica, poi vedi quello che manca: giochi per bambini, ombra, elettricità; senza elettricità non si può mantenere il cibo, non si può dare il latte ai bambini. Trasformare una tenda in casa è il compito delle donne.

LOI: Su cosa stai lavorando adesso?
FM: Stiamo finendo un documentario sul primo anno e mezzo di guerra in Ucraina, vorremmo far fare allo spettatore l’esperienza immersiva di cosa la guerra fa all’animo umano, sottoposto ad abbruttimento, torture, abusi. Abbiamo l’abitudine a fermare la guerra nel suo farsi, a raccontarla come un susseguirsi di bombardamenti e sparatorie, mentre il punto interessante è dare spazio alle voci. Come racconta “Ragazzi di zinco”, il meraviglioso libro di Svetlana Aleksievic, la guerra è anche sopravvivere alla mancanza di tutto, alla profondità della solitudine.

Tags

Articoli consigliati