Interviste

Gilbert & George e Jonathan Anderson in conversazione con Pamela Golbin

Appuntamento a Londra tra il leggendario duo Gilbert & George e il designer Jonathan Anderson
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Sono una magistrale coppia monocorde, Gilbert & George: dove uno comincia la frase, l’altro la completa. Il duo, così terribilmente inglese, si accorda non solo nei pensieri, ma anche negli abiti, delle uniformi prefissate e complementari nei colori, che sono diventate l’immagine del loro brand, fin dagli inizi, nel 1967, quando studiavano scultura alla Saint Martin’s School of Art a Londra. In perfetto contrasto, Jonathan Anderson, nordirlandese dall’aria sbarazzina e dal guizzo ribelle. Si divide tra l’impegno per il suo brand J.W.Anderson e la Maison del lusso spagnola, Loewe, con il suo stile a metà tra il sartoriale e il bizzarro, con una citazione del compatriota Oscar Wilde a ispirarlo: «Il segreto della vita sta nell’arte». Il designer non nasconde la sua ammirazione per Gilbert & George, con cui ha già collaborato nel 2018.

Ritratto di Jonathan Anderson.
Alcuni look creati da Jonathan Anderson nella Spring-Summer 2015, collezione di debutto per Loewe.
Alcuni look creati da Jonathan Anderson nella Spring-Summer 2015, collezione di debutto per Loewe.

C’è una qualche relazione tra arte e moda? 
GILBERT: No, nessuna. Noi non abbiamo mai considerato la moda un punto di riferimento. Quando abbiamo iniziato ad andare in giro per le strade di Londra nel 1968, volevamo esser noi, in modo eclatante. Ecco perché indossavamo gli abiti della... 
GEORGE: ... gli abiti della nostra responsabilità. Arriviamo da un contesto proletario, dove è molto importante mettere un completo per una occasione importante. Se devi andare a un colloquio di lavoro, a un matrimonio, a un funerale o a un battesimo, ti metti giacca e pantaloni e noi crediamo che ogni giorno delle nostre vite sia importante. Se prendi le immagini di un suit da ogni decade degli ultimi cento anni, le inserisci in un computer e fai una media, salta fuori qualcosa di simile agli abiti che indossiamo noi ogni giorno. Ci piace molto Oscar Wilde, che naturalmente diceva che la moda è orribile, motivo per cui deve cambiare così spesso.
JONATHAN ANDERSON: Gilbert & George, il vostro lavoro mi ha influenzato molto ai tempi dell’università e la nostra collaborazione (nel 2018 con JW Anderson, nda) mi sembrava un ottima piattaforma da cui parlare di voi alle generazioni più giovani. Nello humor inglese c’è una bellezza che ho sempre amato e quando guardo alle vostre serie dei primi anni Ottanta, le trovo incredibilmente seduttive.

Gilbert & George.

Se non mi ricordo male Jonathan, recentemente sei entrato nel board del Victoria & Albert Museum di Londra.
JA: Sì ed è interessante che Gilbert & George abbiano citato Oscar Wilde. Se penso all’abito formale, mi viene subito in mente il suo completo di velluto marrone che il V&A ha da poco acquisito. George, hai proprio ragione, tolto il bavero e la linea della vita, l’idea di suit è cambiata davvero poco nell’ultimo secolo.
GEORGE: Abbiamo sempre voluto distinguerci e uniformarci allo stesso tempo. In più gli abiti sono assolutamente pratici: quasi mai ti perquisiscono negli aeroporti e riesci ad avere un tavolo nei ristoranti di tutto il mondo.
JA: Ho sempre pensato che l’interno di un abito da uomo sia molto affascinante. Sono soprattutto attratto dalla tela che fodera il petto, la sua spugnosità e il crine di cavallo. C’è qualcosa nei materiali che, quando li metti insieme, crea una specie di strana membrana.

Il duo artistico performing “The Singing Sculpture” 1992.

Mentre Gilbert e George sono due persone e un artista, Jonathan tu sei un designer con un duplice ruolo. Crei sia per il tuo brand, J.W.Anderson e per la Maison spagnola del lusso, Loewe...
JA: Hai presente il film Willy Wonka e “La fabbrica del cioccolato” con Gene Wilder nei panni di Willy, a cui viene detto di non fare qualcosa per farglielo fare? Non credo che l’abbigliamento sia da uomo o da donna, è ciò che tu senti quando te lo metti addosso. Me ne sono reso conto da ragazzino, quando andavo a fare shopping con mia madre che mi diceva: “La chiusura da donna è in un senso, quella da uomo nell’altro”. A me sembrava ridicolo ed è ciò che mi ha spinto a scompigliare le carte con J.W.Anderson. Da Loewe, mi sento invece la versione più chic di me stesso, come se diventassi più calmo e rispettoso. Il bello è che mentre sono sull’Eurostar che mi porta al quartier generale parigino di Loewe ho il tempo per entrare nella parte.

Gilbert & George, voi avete lavorato a una serie intitolata “The New Normal”, com’è andata?
GILBERT: L’idea è nata camminando per le strade di Spitalfields. Stavamo cercando un nome che potesse spiegare l’idea di “esistenzialismo” in inglese. Non era “normal”, sarebbe stato normale, in più noi chiamiamo sempre le nuove immagini “new”, perciò siamo arrivati al concetto “New Normal” delle immagini realizzate.

La pandemia ha scatenato un incredibile effetto disruptive nei mondi dell’arte e della moda. Le fiere d’arte ora sono delle viewing rooms e la moda si sta confrontando con soluzioni phygital. Quanto sono cambiati i vostri processi creativi?
GILBERT: Per noi non è cambiato niente, le nostre mostre sono tutte in corso e stiamo lavorando giorno e notte.
JA: La moda è cambiata molto, anche se credo che si stesse comunque avvicinando alla fine di un ciclo e il dilagare del coronavirus lo abbia solo sancito. Ha guardato in faccia la moda e ha detto: “È ora di cambiare”. Da una parte è una situazione che mette paura, dall’altra la trovo molto liberatoria: ho più tempo per ragionare sui vestiti e anche per leggere di più. L’aspetto che trovo più importante al momento, soprattutto per chi vive a Londra, è l’ampliarsi delle disparità economiche tra le persone.
GEORGE: Il nostro messaggio principale ha sempre evidenziato come la gente non abbia mai goduto di così tanti privilegi come noi oggi. Siamo tutti dei ragazzini viziati! 

 

Trapped,” 1980, by Gilbert & George.
“Union Dance,” 2008, by Gilbert & George.

E che cosa possiamo fare?
GEORGE: Non è compito dell’artista congratularsi o dare alle persone pacche sulla spalla perché sono ciò che sono. L’artista è qui per mostrare che ci sono altre vie possibili.
GILBERT: Ci piace l’idea di portare chi guarda a confrontarsi con argomenti difficili. Questa per noi è arte.
GEORGE: Spesso ci chiedono perché vogliamo essere provocatori, ma noi non lo siamo affatto e mai vorremmo esserlo. Semplicemente, vogliamo provocare un pensiero.

“L’arte per tutti” da tempo è il vostro motto.
GILBERT: Era il 1969 e l’intento era quello di fare arte che tutti fossero in grado di cogliere e da cui tirarci fuori qualcosa.

Può esistere qualcosa di simile, un “La moda per tutti”?
JA: Credo di si, a volte la moda viene etichettata come un tipo di arte per le élite ma, che ci piaccia o no, riguarda tutti e tutti interagiamo con essa ogni giorno. Penso che siamo tutti indirettamente coinvolti in questo bizzarro esperimento pubblico dell’agghindarsi.
GILBERT: La moda è un qualcosa di enorme, molto più grande dell’arte perché tutti vogliono vestirsi come una vera regina e andare in giro per le vie di Londra, è un fatto. L’arte è solo una specie di arbitro. Tutti vogliamo distinguerci, nessuno vuole essere come un altro, a parte noi.

 

Look dalla collezione uomo di Loewe Fall-Winter 2020.
Look dalla collezione uomo di Loewe Fall-Winter 2020.

Gilbert & George, voi avete lavorato a una serie intitolata “The New Normal”, com’è andata?
GILBERT: L’idea è nata camminando per le strade di Spitalfields. Stavamo cercando un nome che potesse spiegare l’idea di “esistenzialismo” in inglese. Non era “normal”, sarebbe stato normale, in più noi chiamiamo sempre le nuove immagini “new”, perciò siamo arrivati al concetto “New Normal” delle immagini realizzate.

La pandemia ha scatenato un incredibile effetto disruptive nei mondi dell’arte e della moda. Le fiere d’arte ora sono delle viewing rooms e la moda si sta confrontando con soluzioni phygital. Quanto sono cambiati i vostri processi creativi?
GILBERT: Per noi non è cambiato niente, le nostre mostre sono tutte in corso e stiamo lavorando giorno e notte.
JA: La moda è cambiata molto, anche se credo che si stesse comunque avvicinando alla fine di un ciclo e il dilagare del coronavirus lo abbia solo sancito. Ha guardato in faccia la moda e ha detto: “È ora di cambiare”. Da una parte è una situazione che mette paura, dall’altra la trovo molto liberatoria: ho più tempo per ragionare sui vestiti e anche per leggere di più. L’aspetto che trovo più importante al momento, soprattutto per chi vive a Londra, è l’ampliarsi delle disparità economiche tra le persone.
GEORGE: Il nostro messaggio principale ha sempre evidenziato come la gente non abbia mai goduto di così tanti privilegi come noi oggi. Siamo tutti dei ragazzini viziati! 

 

Una borsa dalla capsule collection J.W.Anderson x Gilbert & George creata dallo stilista con il duo di artisti nel 2018.
Un maglione dalla capsule collection J.W.Anderson x Gilbert & George creata dallo stilista con il duo di artisti nel 2018.

“L’arte per tutti” da tempo è il vostro motto.
GILBERT: Era il 1969 e l’intento era quello di fare arte che tutti fossero in grado di cogliere e da cui tirarci fuori qualcosa.

Può esistere qualcosa di simile, un “La moda per tutti”?
JA: Credo di si, a volte la moda viene etichettata come un tipo di arte per le élite ma, che ci piaccia o no, riguarda tutti e tutti interagiamo con essa ogni giorno. Penso che siamo tutti indirettamente coinvolti in questo bizzarro esperimento pubblico dell’agghindarsi.
GILBERT: La moda è un qualcosa di enorme, molto più grande dell’arte perché tutti vogliono vestirsi come una vera regina e andare in giro per le vie di Londra, è un fatto. L’arte è solo una specie di arbitro. Tutti vogliamo distinguerci, nessuno vuole essere come un altro, a parte noi.

“Bloody Mooning,” 1996, by Gilbert & George.

Jonathan, come vedi il tuo ruolo creativo?
JA: Come quello di un curatore di idee, uno che porta persone diverse a collaborare su progetti differenti. Loewe ha una fondazione d’arte che promuove e sostiene talenti della poesia, danza, fotografia, delle arti e dei mestieri ed è un impegno importante. Uno dei miei miti è William Morris, con il suo impegno nel valorizzare l’artigianalità. Alle origini, Loewe era una cooperativa tedesca di artigiani. Ancora oggi i discendenti di quelle stirpi lavorano in azienda, sono dei veri mastri artigiani. Mi dicono che cosa fare perché sanno come si deve lavorare un materiale come il cuoio, in sé estremamente difficile, un qualcosa che era vivo e che è stato ri-progettato per essere qualcos’altro. La loro abilità è stata trasmessa di generazione in generazione.
GILBERT: Siamo stati molto affascinati dal movimento Arts and Crafts, siamo forse tra i suoi maggiori collezionisti.
GEORGE: La nostra arte è artigianale, ma nessuno se ne accorge perché non vogliamo che la gente se ne renda conto. Vogliamo che pensi che così come abbiamo scattato, l’immagine possa essere subito appesa a un muro.

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La campagna Loewe Spring/Summer 2018 fotografata da Steven Meisel; Immagini da "Disobedient Bodies".
La campagna Loewe Spring-Summer 2018 fotografata da Steven Meisel; Immagini da "Disobedient Bodies".
La campagna Loewe Spring-Summer 2018 fotografata da Steven Meisel; Immagini da "Disobedient Bodies".
La campagna Loewe Spring-Summer 2018 fotografata da Steven Meisel; Immagini da "Disobedient Bodies".

Jonathan, nel 2016 hai curato una mostra intitolata “Disobedient Bodies”, di cosa si trattava?
JA: L’Hepworth Museum di Wakefield mi aveva proposto una collaborazione e contemporaneamente un’altra istituzione a Londra mi aveva invitato a fare una retrospettiva, fatto decisamente strano per una persona della mia età. Era un momento molto delicato a livello politico in Inghilterra, ero stanco di Londra e delle grandi realtà, perciò ho optato per Wakefield, per non essere così Londra-centrico. Ho scelto di indagare l’interpretazione del corpo da parte di artisti, stilisti, architetti, ceramisti, ballerini, da Eileen Gray a Jean Arp, un processo inusuale che è durato tre anni prima di concretizzarsi nella mostra. E se devo essere sincero è stata davvero un’esperienza incredibile.

Cos’ hai esplorato in quel frangente?
JA: Mi sono interrogato su come la scultura classica si sia basata sulle nostre interpretazioni del corpo. Mi piaceva l’idea di ornamento, del corpo che diventa una sorta di vascello: decoriamo un oggetto prezioso che è la forma umana. La mostra parlava di regole da rompere, ho imparato l’importanza di contravvenire agli schemi, in qualunque arte, per trovare se stessi.

 

“Play- boy,” 2011, by Gilbert & George.

Come avete stabilito il vostro segno distintivo?
GEORGE: È una storia semplice e interessante. A differenza degli altri studenti, una volta lasciata l’università non avevamo una famiglia che ci potesse sostenere. Non avevamo soldi, ma sapevamo di essere artisti, giravamo per le strade di Londra in cerca della vita. Stavamo camminando dalle parti di Euston Station e ci siamo imbattuti in un negozio di roba usata, lampadari, un vecchio telefono, insomma detriti dell’umanità. Lì dentro abbiamo trovato un disco che si chiamava “Underneath the Arches” (sotto a un ponte, ndr), ci faceva strano perché praticamente noi vivevamo così, eravamo dei vagabondi che vivevano sotto a un ponte. L’abbiamo portato a un amico che aveva un grammofono e siamo rimasti a bocca aperta. Il testo raccontava la vita che stavamo sperimentando noi nella East London. “Il rischio per cui non abbiamo mai firmato, la cultura che si possono tenere, c’è solo un posto che conosco e...
GILBERT & GEORGE: (Cantando insieme) ... ed è dove dormiamo. Sotto un ponte, io sogno i miei sogni. Sotto un ponte, ci sdraiamo sul selciato, ogni notte mi troverai lì, stanco e logoro... 
GEORGE: In quel momento abbiamo trovato la vita.
GILBERT: E non siamo mai cambiati.
GEORGE: L’arte era vita e la vita era arte, tutto insieme.
JA: Dubito che potrei mai eguagliare un momento simile. Mi sento come se non avessi ancora trovato la mia cifra di stile, sono sempre in cerca di qualcosa.

La mostra curata da Jonathan Anderson al Hepworth Museum di Wakefield.
La mostra curata da Jonathan Anderson al Hepworth Museum di Wakefield.

Come definite la bellezza e qual è il suo ruolo nel vostro lavoro di artisti e di creativi? 
GEORGE: Le leggi cambiano in tutto il mondo di continuo. La cultura è la forza più grande: “al bando la religione” e “decriminalizzate il sesso”, sono i nostri due motti più significativi.
GILBERT: Vogliamo liberarci dalla religione.
GEORGE: Resto sempre stupefatto quando la gente mi chiede spiegazioni. Non sanno che proprio mentre parliamo in oltre un centinaio di nazioni al mondo, ci sono persone abbandonate in carcere, che soffrono la fame, che non sanno se saranno giustiziate o meno, solo per aver fatto sesso. Lo stesso vale per la religione. Sappiamo che è vero perché una volta un prete anziano ha bussato alla nostra porta dicendoci: “Al bando la religione, mi piace, è un’idea fantastica”. Gli ho risposto: “Grazie, ma lei che cosa ne pensa?” e lui mi ha ribattuto: “È molto semplice, la domenica mi trovo con la mia congregazione, sono tutti amici e sono tutti abbastanza religiosi, ma io non voglio che siano religiosi, voglio che siano buone persone”, che momento è stato quello.
JA: Voi due siete così generosi, è per questo che vi amo. Mi siedo di fronte a uno dei vostri lavori con grande piacere, lo stesso di quando me ne vado. C’è in voi un’umiltà straordinaria.

 

Dettagli della collezione uomo J.W.Anderson Fall-Winter 2020.
Dettagli della collezione uomo J.W.Anderson Fall-Winter 2020.

Che ruolo ha la seduzione nel vostro lavoro?
GEORGE: È molto importante, il nostro obiettivo è sedurre chi guarda, o che almeno arrivi a dire: “Ma che diavolo dovrei pensare?”. Vogliamo che il pubblico lasci una nostra mostra sentendosi diverso. Ci piace quando qualche signore anziano che cammina col bastone ci avvicina e ci dice: “Che mostra impressionante, mi ha spaventato a morte”, vogliamo arrivare alle persone.
GILBERT: E ci riusciamo.

Quanto conta la fortuna nella vostra vita e nel vostro lavoro?
GILBERT: Ah, il Fato, è tutta una questione di coincidenze. Tutto ciò che facciamo è legato al caso. Che ne dici, George? 
GEORGE: Quando andiamo in studio per creare qualcosa di nuovo, abbiamo la testa vuota. Le immagini sgorgano fuori senza che noi siamo consapevoli di ciò che stiamo facendo. Se avessimo un piano preciso, non produrremmo mai quello che in realtà facciamo.

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