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Cally Spooner al Castello di Rivoli

La vincitrice del Premio illy Present Future 2017 presenta "Everything Might Spill"
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Cally Spooner, già vincitrice del Premio illy Present Future 2017 con l’opera Soundtrack for a Troubled Time (Colonna sonora per tempi difficili), presenta al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea Everything Might Spill (Tutto potrebbe rovesciarsi), visibile fino al 6 gennaio 2019.

Un disegno a parete che reca l’immagine ingigantita di un organo umano dialoga con una fontana dalla quale fuoriesce un liquido dichiaratamente tossico. Cosa succede alla soggettività fisica degli individui quando pressoché tutto in una società tecno-capitalista sembra cospirare a favore dell’alienazione più totale? L'artista prova a rispondere.

Sin dagli esordi della sua carriera Spooner si è interessata ai processi di produzione di un linguaggio “tecnologico” all’interno di pratiche performative. Prendendo ispirazione dalle teorie del filosofo francese Bernard Stiegler, l’artista britannica si interroga sul significato ultimo della tecnica, da intendersi sia come protesi ed estensione potenzialmente distruttiva dei sensi umani che come cura, pharmakon.

Scrittrice, artista, curatrice e drammaturga, la sua idea di spazialità è un amalgama in continua evoluzione ed espansione, un fluido imprendibile che gioca a cadere e raccogliersi, abbattersi e coagulare, come nel caso della sua Murderous public drinking fountain (Fontanella pubblica assassina), 2018, in mostra al Castello di Rivoli. Il suo lavoro si configura come rehearsal, ovvero prova ininterrotta di diverse forme di linguaggio che si contaminano l’una con l’altra senza soluzione di continuità, innescando nello spettatore il desiderio di intervenire nel reale non per manipolarlo o curarlo, come vorrebbero certe pratiche politiche, ma per accoglierlo e sostenerlo, fin dentro i suoi aspetti più assurdi e inspiegabili.

Tra le sue mostre più recenti, si ricorda Drag Drag Solo (2018) al CAC – Centre d’Art Contemporaine di Ginevra, comprensiva di dieci lavori, tra installazioni sonore, videoinstallazioni, performance, reading e stampe 3D che orbitano intorno a quello che forse è, in estrema sintesi, lo snodo principale dell’opera della Spooner: un’ipotesi di violenza invisibile perpetrata sul linguaggio in un contesto neoliberale sempre più tecnocratico.

Due anni prima, al New Museum di New York, On False Tears and Outsourcing riuniva un gruppo di performers professionisti che avevano il compito di riprodurre una serie di movimenti specifici (tecnici, appunto) presi in prestito dal mondo del lavoro, dello sport e dell’industria cinematografica. Rituali ben codificati, introiettati a tal punto da passare sotto soglia, ricontestualizzati e caricati di un’enfasi “crudele”. “Le sue mostre e performance sono ancorate a processi filosofici femministi – scrive Marianna Vecellio, curatrice della mostra – e incorporano fisicamente, acusticamente e concettualmente i concetti di durata, erosione, manutenzione, distruzione e collasso come pratiche di resistenza in contrapposizione alle repentine fluttuazioni a livello globale dei mercati finanziari, al flusso inarrestabile dei dati digitali e all’imperativa richiesta di produttività che la società capitalista impone su ciascun individuo”. Le teorie femministe più recenti hanno infatti insistito non solo sulla personificazione e l’incarnazione del sé, ma anche sulla relazione sempre più complessa che il corpo e la tecnologia intrattengono nella cultura contemporanea. Le nuove tecnologie della visualizzazione hanno indubbiamente trasformato la nostra soggettività materiale in un medium visuale. Nel corso di questo processo il corpo ha subito fratture e frammentazioni così radicali che le parti isolate hanno cominciato ad essere considerate singolarmente, messe sotto la lente di ingrandimento, ingigantite come nel caso di quell’organo umano appena percettibile sulla parete della sala di Rivoli. Nel 1996 Anne Balsamo sosteneva che la realtà virtuale non rifiuta semplicemente il corpo, ma lo reprime. E per quanto questa repressione sia stata consolidata e tecnologicamente naturalizzata nel corso degli anni, ciò che viene represso minaccia sempre di riemergere sotto forma di sintomo o sublimazione, nevrosi o palliativo e, ancora una volta, protesi letale o pharmakon.

Everything Might Spill, tutto potrebbe rovesciarsi da un momento all’altro.

Spargendo in silenzio il suo singhiozzo assassino, La Fontanella pubblica di Cally Spooner fa pensare ai poteri della prosopopea – quella figura retorica per cui si introducono a parlare persone assenti o morte, o anche cose astratte, come se fossero vive e presenti. Nel tentativo di reintrodurre e riabilitare pratiche condivise di sensibilità e affettività, la sua opera mette a punto sistemi di resistenza in seno a un linguaggio paurosamente impoverito dal digitale. Impoverimento, questo, che ha indotto la Spooner a riflettere con spirito situazionista sulla falsa lacrima dell’amante adultero di Madame Bovary. Consapevole di dover dare alla donna una prova tangibile del suo dispiacere, Rodolphe immerge un dito in un bicchiere d’acqua e lascia cadere una larga goccia sulla sua lettera di addio, a testimonianza di un pianto mai avvenuto. Rodolphe siamo tutti noi, è il nostro modo di uccidere il linguaggio, l’emoticon che scegliamo per ottimizzare sentimenti e liquidare persone. Ma Rodolphe è anche la distanza incolmabile che si crea fra esistenze surrogate che hanno perso ogni contatto con la realtà.

E la Fontanella non smette di piangere e mentire.

 

 

 

 

 

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