The Now Icon: Maurizio Cattelan
"Un giorno gli ho chiesto se non avesse mai pensato di rimpiazzare la produzione di Charlie e altri “mini-me” con la riproduzione di un figlio in carne e ossa. «Ogni opera è comunque una maniera per sconfiggere la morte» fu la sua risposta. (…) Come ogni artista che si rispetti, Maurizio Cattelan è impegnato in una disperata e bellissima lotta contro il concetto stesso di morte. E così la evoca continuamente.” Questo è un estratto del testo critico più breve che sia mai stato scritto sull’artista Maurizio Cattelan. Me l’aveva commissionato lui nel 2011, poco dopo l’inaugurazione della sua retrospettiva al Guggenheim Museum di New York, quando aveva annunciato al mondo il ritiro dalla scena artistica. Le mie parole, tradotte in inglese, sarebbero state le uniche all’interno del volume, titolato “Maurizio has Left the Building”, contenente le foto scattate da Pierpaolo Ferrari alle 128 opere che Cattelan aveva appeso al soffitto della celeberrima rotonda progettata da F.L. Wright realizzando un’antologica tridimensionale e, allo stesso tempo, un nuovo, inedito artwork. “Seducente e facile come un giocattolo eppure luttuoso come un’impiccagione di massa. Più di vent’anni congelati in un eterno presente dove ogni gerarchia, cronologica e di valore, tra le opere viene annullata. Un’eterodossa installazione antologica che diventa un grandioso atto sincronico e infinito”, come scrissi all’epoca con una certa enfasi. Dopotutto, questo testo doveva essere l’epitaffio sulla gloriosa carriera che Cattelan aveva deciso di sopprimere. E invece non era vero. O forse lo è stato per un certo periodo: circa un lustro in cui si è rigenerato creativamente, ed esistenzialmente, nelle vesti di art director, in primis della rivista “Toilet Paperˮ. Poi la smania dell’arte lo ha ri-contagiato, le idee (quelle che si concretizzano in opere fatte per durare) gli sono tornate e così, quello che era stato uno degli artisti viventi più famosi al mondo, e che per un po’ ha creduto di non voler più esserlo, nel 2016 è rientrato in pista. Non con l’enfasi che ha caratterizzato la sua exit strategy (che per i complottisti è, e rimane, una strategia di comunicazione per promuovere al meglio l’antologica americana), ma in modo comunque inesorabile. Prima una nuova performance a Manifesta 11 e un water funzionante, in oro massiccio, che è una citazione Insta-friendly tanto dell’orinatoio di Duchamp del 1917 quanto della “Merda d’artistaˮ di Manzoni del 1961; poi la mostra senza inediti al Musée de la Monnaie di Parigi e, l’anno scorso, la Cappella Sistina in miniatura ideata per una collettiva in collaborazione con Gucci al Yuz Museum di Shanghai di cui era anche curatore. Adesso la mostra, visitabile fino al 27 ottobre, che segna il definitivo rientro dal pre-pensionamento, è allestita in una location imprevedibile, a Blenheim Palace, Oxfordshire. Unisce opere nuove a classici come le sculture iperrealiste di Papa Wojtyla, atterrato da un meteorite (“La nona oraˮ, 1999), e di Hitler dal corpo di bambino e la faccia adulta (“Himˮ, 2001), Cattelan crea una fitta trama di corrispondenze più o meno volute con un contesto zeppo di storia britannica ed europea (nel palazzo settecentesco, tra le varie cose, è nato Winston Churchill). Ho avuto l’opportunità di visitare la mostra il giorno prima dell’apertura, in pieno allestimento. Quando “Americaˮ, il famigerato water d’oro, era già perfettamente funzionante e non era ancora stato rubato (sic); e mentre, al centro della maestosa corte del palazzo, dove verosimilmente giocava il piccolo Churchill, che da adulto avrebbe vinto i Nazisti, una squadra di tecnici tedeschi stava cucendo insieme una serie di enormi bandiere britanniche, per formare una passerella a forma di croce su cui i visitatori avrebbero poi dovuto camminare per accedere alla mostra. Impossibile non cogliere l’ironia della storia in questo squarcio di backstage, tanto più che l’installazione è intitolata “Victory is Not an Optionˮ, come la mostra. «Ho pensato al colpo d’occhio, più che altro», risponde Cattelan. Il riferimento del titolo non è solo politico. «C’è ancora chi mi definisce un burlone, ma il mio lavoro parla fondamentalmente di morte» dice l’artista che, nonostante tutto, si sente ancora frainteso. È vero, Cattelan è stato troppo spesso etichettato come un burlone, o al massimo un abile stratega della comunicazione, tanto che molti hanno pensato che il furto del prezioso water fosse l’ennesima trovata pubblicitaria, quando invece tutto il suo lavoro è alimentato da un senso del tragico molto profondo, e l’umorismo non è che una doratura superficiale che serve ad accorciare le distanze col pubblico e a fargli digerire certi contenuti. Mentre l’artista può affrontare i suoi personalissimi fantasmi: «Il papa (l’opera che l’ha consacrato a livello planetario, ndr) rappresenta mio padre perciò l’ho intitolato "La nona ora", (L'ora in cui Cristo chiede al Padre perché l’ha abbandonato, ndr). Mentre stavo rovesciando palate di terra sul fachiro alla Biennale di Venezia del 1999 ho pensato al funerale di mia madre a cui non avevo partecipato e ho deciso di intitolare la performance "Mother"». Attraversando con Cattelan stanze affollate di turisti, di oggetti preziosi e di reperti storici, si parla di traumi, di storia, di politica e della (im) possibilità dell’arte di incidere su questi temi. «Però in qualche modo dobbiamo provarci, sempre» abbozza lui. Questa mostra è serissima e decisamente densa. Dai 200 piccioni imbalsamati ("Others", 2011) che hanno “profanato” la cappella dove giace John Churchill, il primo Duca di Marlborough, che ricevette il palazzo come ricompensa per avere vinto i Francesi, alla grande, inedita scultura all’ingresso: un braccio mozzato che resiste aggrappato al vessillo, un dettaglio ingigantito della statua parigina di Giovanna D’Arco, intitolato “We’ll Never Die" (2019) come a dire che gli individui, anche quelli eccezionali, muoiono «ma le idee restano». Talvolta anche le opere d’arte. È presto per dire se la sua fama sarà immortale ma, intanto, Maurizio Cattelan è resuscitato.
Foto Pierpaolo Ferrari
Testo Caroline Corbetta