“Fashioning Masculinities: the art of menswear” al Victoria & Albert Museum di Londra
Il Victoria & Albert di Londra ospita la sua prima mostra dedicata alla moda maschile: “Fashioning Masculinities: the art of menswear”.
Provoca un certo shock pensare che si sia dovuto arrivare al 2022 perché un museo generalmente audace nelle sue proposte espositive come il V&A - Victoria & Albert Museum dedichi una prima mostra al menswear (dal 19 Marzo al 6 Novembre 2022). Tanto più nella città da sempre punto di riferimento della moda maschile, sia nei suoi aspetti istituzionali che nelle sue sottoculture, da Beau Brummell (in realtà da ancora prima, basti pensare all’Anglomania pre-Rivoluzione francese) ai Mods, da Savile Row al punk, dal Glam Rock alla decostruzione dell’abito maschile di Craig Green, il designer che apre la mostra con un modello della S/S 21. Pochi i precedenti anche nel resto del mondo: “Bravehearts” al Met nel 2003, incentrata sull’appropriazione della gonna come simbolo del rifiuto di venire incontro alle aspettative convenzionali, un percorso iniziato con gli hippie e Rudi Gernreich fino a Walter Van Beirendonck, passando per Jean Paul Gaultier, Vivienne Westwood e Dries Van Noten. E una mostra del 2016 al LACMA di Los Angeles, “Reigning Men: fashion in menswear, 1715-2015”, che esplorava gli estremi della sobrietà e della flamboyance.
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“Fashioning Masculinities” occupa tre gallerie espositive, a tema Undressed, Overdressed, Redressed. Nella prima una copia dell’Apollo di Belvedere e una scultura di Rodin affiancano opere di David Hockney, dello Srilankese Lionel Wendt, della sudafricana Zanele Muholi, campagne pubblicitarie di Calvin Klein e scene di “Spitfire”, film dell’88 di Matthew Bourne ambientato nel mondo dell’advertising dell’intimo maschile. Lo spazio Overdressed allinea corazze, smoking, cappe preziose (una di Dolce & Gabbana), una cravatta settecentesca di pizzo di Burano scolpita nel legno da Grinling Gibbons già proprietà di Horace Walpole, e il ritratto di Alessandro Farnese di Sofonisba Anguissola. In un trionfo di tessuti preziosi e patterns floreali proposti per l’uomo contemporaneo da Kim Jones con Dior, Alessandro Michele per Gucci, Rahemur Rahman, Ahluwalia e il brand nigeriano Orange Culture. Una sezione sul rosa sottolinea la rinnovata popolarità di un colore che dall’800 in poi era diventato sinonimo di femminilità, con il ritratto del conte di Bellamont di Joshua Reynolds affiancato a una foto di Harris Reed, in un abito di tessuto metallizzato rosa pallido che non sfigurerebbe in un quadro di Van Dyck. Il ritratto, intitolato “Fluid Romanticism”, riprende alla lettera il credo “Fighting for the beauty of fluidity” del venticinquenne designer di LA, laureato alla Saint Martins, che veste Emma Louise Corrin e Iman per il Met Gala, adora glam rock e crinoline e il cui stile personale è tanto flamboyant quanto elegante. E rosa è un outfit di Grace Wales Bonner, come il mantello ricamato creato su misura per Billy Porter da Randi Rahm in occasione dei Golden Globes del 2019. La sezione Redressed va da Beau Brummell, l’arbitro indiscusso dell’eleganza maschile primo ’800, al kilt di Nicholas Daley, altro laureato della Saint Martins con un’estetica che include Savile Row come l’esplorazione delle proprie radici scozzesi e giamaicane.
Questo è anche lo spazio delle sottoculture, degli abiti come mezzo di resistenza politica e politica di costruzione d’identità e dissoluzione delle convenzioni, ma anche degli outfit in pelle, da Tom Ford dell’epoca Gucci a Donatella Versace. E dei frock coats, dall’800 alle passerelle di Prada, Alexander McQueen e Raf Simons, e nelle foto di Oscar Wilde, della fotografa e scrittrice surrealista Claude Cahun, di Cecil Beaton, o indossati dai Beatles e Sam Smith. Mentre la dissoluzione del suit è raccontata attraverso creazioni di JW Anderson, Comme des Garçons, e dell’artista sudafricano Lesiba Mabitsela. Un centinaio di outfit e un centinaio di opere d'arte, selezionate a partire da una riflessione sul presente della moda maschile dalla gender fluidity alle sfilate coed. Anche se, come dimostrano le foto d'archivio de L'Officiel, una costante rilettura dei confini di genere era al centro della moda già a partire dagli anni ’60-’70. Parliamo di “Fashioning Masculinities” con Rosalind McKever, che ne è co-curatrice insieme a Claire Wilcox, e Marta Franceschini, assistente ricercatrice.
L’Officiel Hommes: Come mai ci è voluto così tanto per dedicare una mostra alla moda maschile? Mentre sono anni che il menswear è esploso in termini di offerta, creatività, visibilità dei designers?
Rosalind McKever: In realtà sono oltre tre anni che ci lavoriamo, e l’idea è stata nell’aria per almeno dieci. La missione del V&A è sempre stata quella di supportare la creatività dell’industria, e questa mostra riflette il momento esplorando la prepotente attualità della gender fluidity, delle sfilate coed, di un’esplosione di creatività esemplificata da designer come Craig Green.
LOH: Domanda volutamente provocatoria: almeno a giudicare dal comunicato stampa, la mostra non rischia un eccesso di “politicamente corretto”? Con un’estetica queer e artisti di origini africane o asiatiche quasi a iper-compensare la loro assenza precedente dalla conversazione?
RMK: La mostra vuole essere un barometro delle domande che si pone oggi la società, della conversazione corrente sui media e sui social. Personalmente mi auguro che instilli negli spettatori un senso di confidenza creativa e di empowerment rispetto a un fenomeno come la moda maschile che non è più un meccanismo per incoraggiare la convenzionalità, ma un mezzo per esprimere la propria individualità.
LOHI Come mai avete deciso di strutturare la mostra secondo le tre direttive Undressed, Overdressed, Redressed?
Marta Franceschini: Ci interessava una riflessione sulla maschilità intesa nel senso di performance della maschilità oltre la definizione binaria di genere. Fin dall’inizio il modo di indossare le cose, l’attitude, per non dire la “sprezzatura” (il requisito fondamentale dell’atteggiamento del gentiluomo nel trattato di Baldessar Castiglione, “Il cortegiano” del 1528, nda) necessarie sono state al centro della nostra concezione della mostra almeno quanto gli abiti in sé. Per cui ci è sembrato molto naturale adottare questo filo conduttore
RMK: Non volevamo proporre un percorso cronologico e ci interessava come gli abiti venivano portati, è perciò emblematico il ritratto di Alessandro Farnese realizzato da Sofonisba Anguissola, il modo così moderno di indossare la cappa.
LOH: In che percentuale gli oggetti esposti provengono dal V&A stesso piuttosto che da altre istituzioni?
RMK: Non saprei con esattezza, ci sono prestiti importanti dalla National Gallery ad esempio, ma soprattutto opere del V&A mai esposte prima. Abbiamo fatto ricerche approfondite in tutti i dipartimenti del museo, non solo nella Textiles and Fashion Collection, e in particolare nella Theatre & Performance Collection. È lì che abbiamo scoperto un film come “Spitfire”, dove ballavano in mutande: il collegamento a quel particolare momento dell’advertisising di intimo maschile fine anni ’80 di Armani e Calvin Klein, tra kitsch e sexy, è scattato immediatamente.
LOH: Per certi versi uno dei precedenti a questa mostra è stata la spettacolare esibizione “David Bowie is” del 2013. C’è qualche outfit di Bowie in “Fashioning Masculinities”?
RMK: C’è un solo look, di Thierry Mugler, nero, sobrio, quasi monastico: perché anche un capo che non grida per attirare l’attenzione può essere straordinariamente teatrale. Del resto in tutta la mostra abbiamo cercato di sorprendere, mostrando cose inaspettate.
LOH: Negli ultimi anni sono aumentate le donazioni di moda maschile al V&A?
RMK: Un collezionista ci ha dato un buon numero di outfit Gucci e Versace, e Charlie Porter (giornalista di moda, ex menswear critic del Financial Times) i suoi vestiti.
LOH: La sponsorizzazione da parte di Gucci ha in qualche modo influito sul vostro editing, magari allargando certi campi di ricerca?
RMK: In realtà prima mettiamo insieme l’esposizione, poi cerchiamo sponsor. È ovvio che sul tema ci fosse un’affinità naturale con Gucci.
LOH: Come collochereste questa mostra nella dinamica del V&A?
RMK: Spero che sia un inizio, non un punto d’arrivo. Tanto più perché quella attuale è una generazione di designers che frequenta i musei per ispirarsi. E portare gli outfit di Harry Styles in un’istituzione museale è un modo per attrarre un’audience diversa dai nostri frequentatori abituali.
MF: La nostra chiave di lettura è stata dare visibilità alla molteplicità di definizioni della mascolinità: parliamo alla generazione creativa che verrà.