Hommes

I Duran Duran sono pronti a raccontare il loro Future Past

Nick Rhodes e John Taylor, i fondatori dei Duran Duran, raccontano il nuovo album, le dinamiche tra i membri della band, e il loro (fondamentale) rapporto con la moda
DA SINISTRA—Cappotto doppiopetto, camicia e pantaloni, DOLCE & GABBANA; foulard e scarpe, Nick's own. Completo con gilet, DOLCE & GABBANA; scarpe, Simon's own. Completo e pull di lana, DOLCE & GABBANA, scarpe, Roger's own. Giacca di pelle, t-shirt e jeans, DOLCE & GABBANA, sneakers, John's own. In tutto il servizio gioielli, THEO FENNEL.
DA SINISTRA—Cappotto doppiopetto, camicia e pantaloni, DOLCE & GABBANA; foulard e scarpe, Nick's own. Completo con gilet, DOLCE & GABBANA; scarpe, Simon's own. Completo e pull di lana, DOLCE & GABBANA, scarpe, Roger's own. Giacca di pelle, t-shirt e jeans, DOLCE & GABBANA, sneakers, John's own. In tutto il servizio gioielli, THEO FENNEL.

Sono stati una delle band simbolo degli anni 80. Al punto che non c’era praticamente adolescente che non avesse in camera il poster di John Taylor o di Simon Le Bon. All’inizio dell’era di MTV i loro video, “Girls on film”, “Save a prayer”, “Hungry like the wolf”, trasmessi in non stop, erano stati determinanti per lo scatenarsi della Duranmania. Folle di groupies (Lady Di inclusa) sembravano disposte a tutto, e la loro musica faceva ballare chiunque. La storia inizia con due adolescenti di Birmingham, amici fin da bambini, Nick Bates e Nigel Taylor, che si sarebbero poi reinventati come Nick Rhodes e John Taylor: nel 78 formano una band il cui nome, scovato da John, deriva da un personaggio del cult sci-fi anni 60 “Barbarella”. Il gruppo trova la sua formazione definitiva con l’arrivo prima del batterista Roger Taylor, poi di Andy Taylor alla chitarra (nessuno dei Taylor è imparentato con gli altri) e infine con la comparsa di Simon Le Bon. Tutto accade molto velocemente, il primo a scommettere su di loro è Dave Ambrose della EMI, lo stesso che aveva messo sotto contratto i Sex Pistols. Debuttano nell’81, con un album che porta il loro nome e il cui primo singolo, tra synth pop e new wave, “Planet Earth”, diventa una hit nella top chart inglese. Ma è il secondo album, “Rio, che li porta ai primi posti delle classifiche americane e li trasforma da club band in pop star. È l’inizio di un periodo di wild parties, fidanzate trofeo (leggi top models, Renée Simonsen per John, Yasmin Parvaneh, tuttora sua moglie, per Simon), di tensioni crescenti tra ego fuori controllo. Nell’84 si separano, John, con Andy e Robert Palmer, forma i Power Station, Nick e Simon diventano Arcadia, Roger suona con entrambi i gruppi. Tornano insieme per “Live Aid”, il più grande evento musicale della storia che terrà oltre due miliardi di spettatori incollati alle televisioni di tutto il mondo. Un’iniziativa di Bob Geldof per raccogliere fondi per la carestia in Etiopia che vedrà salire sui palchi di Wembley e Filadelfia tutti quelli che contano nel mondo della musica, da Bob Dylan a David Bowie, dai Queen agli U2. Quando incidono “Notorious”, che esce nell’86 ed è ancora un successo, Roger Taylor se ne è già andato per trasferirsi in una fattoria in campagna, più tardi se ne andrà Andy, convinto che la band fosse diventata troppo commerciale, mentre nel ’97 si defila anche John, per andare a disintossicarsi dalla cocaina. Tornerà nel 2001, come Roger, ma nel frattempo il fenomeno Duran Duran cede il center stage ad altre band, altri generi di musica, altre estetiche, anche se naturalmente realizzano altri album, ogni tanto una hit...

L'OFFICIEL HOMMES ITALIA: Lo scorso 22 ottobre è uscito il nuovo album, il quindicesimo della vostra carriera, “Future Past”, a sei anni di distanza dal precedente del 2015, “Paper Gods”. Come è nato questo progetto?

NICK RHODES: Avevamo iniziato a lavorare all’album prima del lockdown, e quando abbiamo ripreso la prospettiva di tutti era molto diversa. Di grande ispirazione è stato avere in studio Graham Coxon, il chitarrista dei Blur, e Mike Garson, il pianista di Bowie, per noi una leggenda in assoluto, ma anche Giorgio Moroder, lo ammiriamo da quaranta anni e questa è la prima volta che lavoriamo con lui, riuscendo a realizzare, credo, una canzone al 100% Duran Duran e al 100% Giorgio Moroder.

JOHN TAYLOR: È un album in cui traspare la personalità di ogni membro della band e di ognuno degli artisti cui abbiamo chiesto di collaborare. Mentre all’inizio abbiamo fatto dischi dominati da super producers, perché in un certo senso non sapevamo chi fossimo veramente.

LOHI: Quali sono i musicisti che vi hanno influenzato di più?

NR: David Bowie, Iggy Pop, Lou Reed, i Kraftwerk, gli Sparks, e poi i T. Rex, i Roxy Music. Io e John abbiamo scoperto insieme il punk rock, i Sex Pistols, i Clash, Siouxsie and the Banshees, più tardi la musica elettronica di Giorgio Moroder.

JT: Ovviamente i Beatles e non solo per la genialità dei loro testi e della loro musica, ma perché hanno sperimentato di tutto, aperto tutte le strade. E David Bowie, la referenza assoluta per ogni membro della band, i Clash, i Queen... mi piacciono i gruppi versatili che non cessano di reinventarsi, di uscire dalla comfort zone di un solo genere musicale. Per questo non ascolto abitualmente la musica che amo, e invece dedico molto tempo ad ascoltare la musica che non conosco.

DA SINISTRA Giacca, camicia e pantaloni, DOLCE & GABBANA. Pull di lana, STELLA MccARTNEY; t-shirt e jeans, DOLCE & GABBANA. Cappa, KAUSHIK VELENDRA; camicia e pantaloni, DOLCE & GABBANA; nastro, Nick's own. Pull e pantaloni, DOLCE & GABBANA.

LOHI: Vi siete lasciati, riconciliati, riallontanati, sono entrati a far parte della band musicisti diversi. Com’è la dinamica dei vostri rapporti?

JT: Con Nick il legame è fortissimo, siamo entrambi figli unici, entrambi Gemelli, con Simon c’è una profonda alchimia, in realtà siamo come una famiglia, legati da tante dinamiche differenti. Non siamo autori di canzoni, direi che piuttosto lavoriamo come architetti, siamo espressionisti astratti: possiamo lavorare sul sound di un brano sei mesi prima di scrivere il testo. Siamo in quattro e siamo una democrazia, e lavoriamo con tutta una serie di collaboratori, ascoltando tante opinioni quando ormai la maggior parte della musica contemporanea nasce con solo due figure, artista e producer. Credo che se siamo rimasti rilevanti è perchè abbiamo lottato per esserlo, non ci siamo adagiati su un groove riproposto all’infinito. La nostra è una forma di terapia di gruppo fondata sulla forza di stare insieme. Personalmente ho bisogno di una spinta, il successo e gli anni mi hanno fatto diventare pigro, ho fatto album dove ho suonato due note e che poi sono stati presi in mano da altri. In “Rio” abbiamo suonato qualsiasi cosa fosse possibile suonare per catturare l’attenzione, più tardi a New York, lavorando con musicisti pazzeschi, mi sono messo in discussione, mi sentivo piccolo, non troppo bravo. Avevo cominciato con la chitarra, ma poi sono passato al basso perché tutti volevano suonare la chitarra...

NR: John ed io siamo amicissimi, avevo 10 anni quando l’ho conosciuto, lui dodici. Eravamo figli unici e siamo cresciuti come fratelli. Ma anche con gli altri membri della band il rapporto è molto stretto. Mi sembra impossibile siano passati 40 anni, siamo stati tanto tempo insieme, siamo sempre stati molto ambiziosi, abbiamo sempre puntato a essere i migliori e abbiamo sempre cercato di essere contemporanei, di utilizzare la tecnologia più avanzata. Non ci siamo mai identificati con un genere musicale e non siamo rimasti attaccati a un singolo tipo di musica. Io e John siamo sempre stati ossessionati dalla grafica e ci siamo sempre considerati un collettivo di creativi.

LOHI: Il disco favorito tra tutti quelli dei Duran Duran?

NR: In realtà il nostro lavoro va considerato nella sua interezza, anche se ovviamente “Rio”, nell’82, è stato l’album chiave. Ma direi anche “Notorious”, che credo abbia influenzato molti altri artisti e “The Wedding Album”, del ’93, con quella che è forse la mia canzone preferita, “Come Undone”. E poi anche l’album della nostra riunione . Siamo sempre stati molto meticolosi, molto esigenti su tutti i dettagli, non è un caso se in 40 anni abbiamo fatto in tutto 15 album, avremmo potuto farne il doppio, ma forse è per questo che abbiamo retto il test del tempo.

JT: “ Rio” e “Seven and the Ragged Tiger” (83).

LOHI: Qual è la fase che preferite nella realizzazione di un disco?

NR: Quella iniziale, della creazione ancora priva di limiti, di confini, di direzione, quando parti da una pagina bianca la mattina e esci dallo studio la sera con la consapevolezza di aver creato qualcosa. Ma se facessi la stessa domanda a Simon lui ti direbbe che il suo momento preferito è la performance live.

JT: Mi piace la fase creativa iniziale, quella dove si determina il mood, il tono, quella dove siamo più prolifici; poi rallentiamo: Simon può stare mesi su un testo e io divento matto. Come bassista poi posso stare in studio a fare qualche suono di incoraggiamento, ma mi rendo perfettamente conto che loro vanno avanti senza di me. E poi c’è il momento live, è sempre stato il mio elemento, è quando temina il parlare e inizia il livello puro di connessione con la musica, una magia che mi ha attratto fin da ragazzo. Avevo 16 anni quando ho iniziato a esibirmi in pubblico, ma quella sensazione di pericolo prima di iniziare perché tutto può succedere, e poi l’ondata di adrenalina che ti trasmette la felicità della gente quando inizia a cantare e ballare la tua musica, sono sempre presenti. Abbiamo suonato davanti a audience piccole come in festival come quello di Whight in cui fino all’orizzonte vedevi solo pubblico. È stato incredibile ogni volta.

LOHI: I concerti cui siete più legati?

JT: Ovviamente “Live Aid”, perchè far parte di quel line up pazzesco di artisti è stato esaltante, ma anche il primo tour fatto in UK con solo due singles e le ragazze che urlavano. Stavano sotto il palco e non ci ascoltavano neppure veramente, l’unica cosa che volevano era catturare la nostra attenzione. Anche Coachella è stata un’esperienza incredibile, e poi ricordo certi concerti pazzeschi in Italia: a Milano per il tour di “Notorious” ci siamo esibiti per la prima volta in uno stadio (San Siro, nda).

LOHI: Cosa vi piace fare quando non lavorate?

NR: Iononsmettomaidilavorare,nellafaseinizialedellockdown ero orripilato all’idea di non poterlo fare. Ho risolto sistemando il mio archivio digitale di fotografie e producendo “Astronomia”, quattro album con Wendy Bevan, pubblicati separatamente nelle date dei solstizi e degli equinozi di quest’anno, con l’ultimo che uscirà a dicembre. Wendy è creativa, chic, umorale, abbiamo molte cose in comune, anche lei è fotografa. Avevo lavorato come produttore al suo disco, poi quando abbiamo capito che con il lockdown dovevamo bloccare tutto, perché non aveva senso realizzarlo senza promuoverlo in tour etc etc ci siamo decisi a lavorare su qualche canzone puramente strumentale, ed è stato così stimolante che i pezzi sono diventati 52.

JT: Penso che stare sdraiati bordo piscina sia uno dei grandi piaceri della vita, non per nulla ho scelto di vivere in California.

LOHI: Siete sempre stati molto sensibili alla moda, e il vostro look è stato indubbiamente una delle ragioni del vostro successo.

NR: Mi piacciono gli abiti ben disegnati, ben strutturati, odio lo sportswear, non mi vedrete mai in jeans o in tuta. Ho sempre seguito i nuovi designer, in particolare quelli usciti dalla Central Saint Martins, mi piace andare alle loro sfilate, sostenerli pubblicamente. Ho adorato Hedi Slimane da Saint Laurent, credo sia stato il momento d’oro del menswear. Non mi piace la moda ridicola, anche se apprezzo un tocco di sense of humour, voglio sentirmi elegante e chic. Tra i capi del mio guardaroba che amo di più alcuni outfit di McQueen di quando c’era Lee, alcuni incredibili pezzi di Gaultier degli anni ’80, ma anche di Comme des Garçons, Yohji Yamamoto, di un grandissimo sarto come Antony Price (figura fondamentale nella creazione dello stile di Bryan Ferry, nda), di Thierry Mugler, Montana, Galliano, Tristan Webber. Avere un aspetto favoloso è uno dei piaceri della vita. Dal punto di vista della moda il lockdown è stato una catastrofe.

JT: Sono sempre stato un fashion victim, forse per una questione genetica, mio padre creava (letteralmente, sceglieva le stoffe e poi li cuciva) alcuni abiti per mia madre, e poi la scena musicale era dominata da artisti come i Queen o David Bowie, c’era molta competitività sugli abiti. Senza dimenticare l’influenza del punk rock, dei Sex Pistols. Non abbiamo mai indossato i jeans. Mia moglie (Gela Nash, cofondatrice di Juicy Couture, nda) è una creatrice di moda, parliamo di moda tutto il tempo.

LOHI: All’epoca usavate il make up, come Bowie e Adam Ant...

NR: Sono assolutamente a mio agio col make up, ti fa sentire differente, aggiunge un tocco di teatralità alla giornata più grigia, ho iniziato a truccarmi a 16 anni e non ho mai smesso, mi guardo la mattina allo specchio e penso che la mia faccia non potrebbe che migliorare col trucco. Allora c’era molta chiusura, il fatto che fossimo truccati piaceva solo a una fan base gay, oggi la mentalità è più aperta, c’è molta più libertà di espressione.

JT: Se proprio voglio fare sensazione metto l’eyeliner, ma non mi interessa più. Lavoro invece molto sul mio corpo, lo prendo molto sul serio, sono molto healthy, e faccio un lavoro costante per mantenerlo all’altezza delle esigenze di un tour.

LOHI: Vi considerate in primis una British band?

NR: Indubbiamente, anche se io continuo a sentirmi europeo nonostante la Brexit. Non mi piace chi ragiona in piccolo, se collaborassimo tutti in armonia invece che assistere ai conflitti tra superpotenze sarebbe molto più semplice affrontare in modo più efficiente i grandi problemi del pianeta come il cambiamento climatico. Ma siamo una British band perché non saremmo concepibili senza la musica inglese venuta prima di noi, senza David Bowie ad esempio, o senza la moda inglese, senza Vivienne Westwood o senza il sarto dei Roxy Music...

LOHI: È possibile essere una star della musica senza essere narcisisti?

JT: A 22 anni non ero un narcisista, a 26 sì perché tutto lo stile di vita di una rockstar ti spinge ad esserlo, a concentrare tutta l’attenzione solo su te stesso. È ovvio che un atteggiamento del genere quando si lavora in team è disastroso, le tensioni esplodono. JT: Io narcisista non ho mai smesso di esserlo.

L'OFFICIEL Hommes Italia Centennial Issue sarà in edicola a partire dal 25 ottobre 2021. 

TEAM CREDITS:

HAIR: Cristiano Basciu @ RICHARD WARD HAIR;

MAKE UP: Carol Morley @ CAROL HAYES MANGEMENT using ARMANI BEAUTY;

DIGITAL OPERATOR: Vlady Vala;

PHOTO ASSISTANT: Stephen Young;

STYLING ASSISTANT: Natalie Richardson.

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