Innovazioni in 3D: il progetto A-POC ABLE raccontato da Yoshiyuki Miyamae
Con A-POC ABLE Yoshiyuki Miyamae fa un passo avanti rispetto al progetto A-POC, A piece of Cloth: un tessuto piatto che indossato diventa una forma solida. Una tecnologia per indumenti, ma anche per pezzi di design.
Yoshiyuki Miyamae è entrato giovanissimo in Issey Myake nel 2001 ed è cresciuto al fianco del maestro scomparso nell’agosto scorso. Location per l’intervista, lo store milanese del marchio dove, unico punto vendita al di fuori del Giappone, è arrivata a febbraio A-POC ABLE. È la linea lanciata nel 2021 solo sul mercato interno come evoluzione di A-POC, ovvero A piece of Cloth, un tessuto piatto che diventa una forma solida se indossato, grazie a un minimo apporto di tagli e cuciture. Miyamae guida questo progetto, felice di aver ceduto ad altri la direzione creativa della linea donna, cui si è dedicato dal 2012 al 2019, per potersi concentrare su un mondo dalle potenzialità molteplici e soprattutto non limitate all’ambito della moda. Nella sua to do list c’è anche la ricerca di partner con cui sconfinare tra design, arte, scienza, tecnologie, tradizione, medicina.
L’OFFICIEL ITALIA: Che cos’è A-POC ABLE e in cosa si differenzia da A-POC?
YOSHIYUKI MIYAMAE: Il nuovo brand ha debuttato in Giappone nel 2021, ma in verità è un’idea che coltivavo da anni, prendendo spunto anche dal metodo alla base di Pleats Please. A-POC ABLE è un’evoluzione di A-POC e si basa sull’idea di sviuppare oggetti, non per forza di abbigliamento, partendo da una stoffa la cui lavorazione viene progettata con un programma messo a punto da un team di ingegneri. il suffisso -ABLE sta a indicare che può essere declinato in molteplici modi, grazie all’interazione con settori e professioni differenti: ha una potenzialità illimitata.
LOI: Ma come funziona all’atto pratico?
YM: Si parte dall’input di una forma a cui si vuole arrivare, dopo di che vengono studiati gli algoritmi grazie ai quali si può trasformare un oggetto tridimensionale in uno bidimensionale. In sostanza, io creo la forma, gli ingegneri con calcoli complicatissimi di cui non capisco nulla, rendono la forma piatta sul tessuto che successivamente prende corpo e diventa l’oggetto che io avevo inizialmente pensato. Questo significa avere la possibilità di realizzare indumenti dalle forme più disparate, ma anche una tenda, sedie, magari una lampada da abbinare a dei led, perché, non sviluppando calore, possono essere a contatto con un tessuto che lasci passare la luce.
LOI: Perché avete scelto Milano come unico store internazionale dove proporre A-POC ABLE?
YM: Prima della sua scomparsa mi ero confrontato spesso con Issey Miyake su quale avrebbe potuto essere il posto giusto per questo progetto, oltre ai due store di Tokyo e Kyoto. E avevamo scelto Milano, perché è anche una culla del design e il Salone del Mobile è il contesto perfetto per presentare A-POC ABLE e creare partership con produttori italiani non legati al fashion. Durante questa edizione presentiamo una giacca, ma l’intento non è quello di stupire il mondo con un prodotto finale. L’installazione è un punto di partenza per incontrare altri designer.
LOI: È facile immaginare i possibili sviluppi nei mondi del furniture e affini, ma cosa intendi quando parli di medicina?
YM: Siamo ancora in fase di studio, partendo dal presupposto che nell’essere sani rientri anche la componente mentale. Farmaci e interventi possono curare alcune malattie, senza che questo implichi un benessere interiore. Con A-POC ABLE potremmo far sentire meglio i pazienti di un ospedale intervenendo sull’ambiente che li circonda. Finché mi sono occupato del womenswear di Issey Miyake non potevo confrontarmi su questi aspetti più concettuali. Ora però non ho più le scadenze fisse dei ritmi della moda, e posso quindi avviare una ricerca destinata a durare nel tempo.
LOI: Come concili questo approccio al business?
YM: Naturalmente devo tenere in considerazione i numeri. Quando abbiamo iniziato avevamo puntato a un break-even in cinque anni, ma forse già dall’anno prossimo con le vendite in Giappone arriveranno i primi ricavi. C’è poi un altro aspetto da tenere in considerazione, ossia la quantità di prodotto da immettere sul mercato. Non vogliamo andare oltre il necessario, perciò A-POC ABLE uscirà ogni mese con un nuovo design ma in quantità ridotte. I modelli non saranno sempre tutti disponibili e va bene così.
LOI: Cosa direbbe del progetto Issey Miyake se fosse qui oggi?
YM: Era una persona molto severa con se stessa. Non mi ha mai detto una volta “Ah questo è fantastico, è perfetto”. Era sempre un: “puoi ancora lavorarci” e con questo atteggiamento mi ha spronato ad andare sempre oltre nel cercare qualcosa di nuovo. Sono sicuro che farebbe lo stesso ora.
LOI: Qual è il tuo primo ricordo di Miyake?
YM: Ero ancora alle superiori quando ho visto la sua sfilata con le modelle che muovendosi facevano ballare gli abiti. Senza averlo nemmeno incontrato l’impatto su di me era stato fortissimo, avevo pianto per l’emozione. Poi andai a una sua sfilata indossando un abito che avevo creato io tutto striminzito, stropicciato, bruciacchiato con un accendino e lì trovai il coraggio di andarlo a salutare. Una settimana dopo, avevo preso il biglietto per uno spettacolo di danza contemporanea a teatro. Nell’intervallo andai in bagno e lo ritrovai. Mi riconobbe e da quel momento prese a chiamarmi quando c’era qualcosa di interessante da andare a vedere. All’epoca non avevo nemmeno iniziato a studiare moda seriamente, ma l’impatto del suo lavoro su di me è stato indelebile.