Game Of Shoes
Sono i designers che firmano le scarpe più viste sui red carpet e ai piedi delle donne “in the knowˮ nella vita reale. E non poteva mancare lʼAD di una delle realtà produttive più importanti del mondo e la designer emergente, e determinata.
Pierre Hardy, Hermès
Pierre Hardy è direttore creativo delle calzature Hermès dal ’90, ha lanciato la sua linea signature nel ’99, e dal 2001 disegna anche la gioielleria della Maison. Nel ’98 ha introdotto in collezione la sneaker, subito portata in passerella da Martin Margiela, novità assoluta per un brand del lusso. Dal 2001 al 2012, continuando a lavorare per Hermès, ha disegnato il footwear Balenciaga nell’era di Nicolas Ghesquière.
L’Officiel Italia: Cosa rende una scarpa Hermès immediatamente riconoscibile? Il colore? La geometria?
Pierre Hardy: Intanto l’altissima qualità dei materiali e poi un’emozione, una sottile dialettica, una ricorrente tensione tra il già visto e il nuovo, tra il far riconoscere e il sorprendere, un dettaglio sottile che faccia Hermès, uno stitch, un particolare in metallo. Colore e geometria sono tratti distintivi che utilizzo nel mio lavoro, ma vorrei ricordare che quando ho iniziato il range dei colori era molto ridotto. Comunque è sempre questione di twist and play, di stravolgere e giocare con i codici della Maison che sto continuando a scoprire negli archivi.
LOI: Cosa non deve mai esserci in un modello Hermès?
PH: Non ci sono limiti, oggi tutto è possibile. Dieci, 15 anni fa avrei potuto rispondere, perché il pubblico era più stiff, più conservativo. Sicuramente deve essere un oggetto che duri nel tempo e senza compromessi nella qualità.
LOI: Qual è il modello più significativo della stagione?
PH: Dal punto di vista della spettacolarità sicuramente la pump con il tacco Chaîne d’Ancre, dove i know how dei due settori in cui lavoro si fondono in modo organico, con la stessa naturalezza e immediatezza di rapporto che c’è tra la mia mano destra e la sinistra, in uno scambio continuo dʼidee e dettagli tra scarpa e gioiello. Ma da un punto di vista personale è molto difficile da dire, perché metto la stessa energia e creatività in tutto quello che faccio.
LOI: E i modelli più significativi negli anni?
PH: Dal punto di vista del successo il sandalo Oran, un best seller da 25 anni, cosa che non avrei mai potuto prevedere quando l’ho disegnato. E naturalmente gli stivali da cavallerizza con il lucchetto della Kelly, reinterpretati ogni stagione introducendo sempre nuovi dettagli. Credo sia questo l’idea di qualcosa che puoi trovare solo da Hermès, uno stile organico, che si evolve sempre. E parlo di evoluzione ovviamente, non di progresso.
LOI: I tuoi disegni sono la base su cui viene realizzato il prodotto in fabbrica...
PH: Sì, la scarpa viene continuamente rapportata al disegno finché non è identica. I disegni per la fabbrica non sono illustrazioni impressionistiche o belle immagini, ma un dettaglio architettonico per far capire come impostare il lavoro. Lo sketch finale lo faccio in scala 1:1, per controllare proporzioni e bilanciamento.
LOI: Sul tuo Instagram ci sono opere di Frank Stella, Ettore Sottsass, Ólafur Elíasson... Sono citazioni per affinità estetica? O si può parlare di ispirazione?
PH: Cerco sempre di non essere troppo letterale con l’arte, ma è impossibile prescindere da quella contemporanea che è un esperimento su nuove forme di bellezza e nuove combinazioni di forme. Non posso spiegare perché amo certa arte, ma cerco di trovarne l’equivalenza nella moda.
LOI: Da Margiela a Nadège Vanhée-Cybulski, come ha influito sul tuo approccio alla collezione il lavorare con designers così diversi?
PH: La maggior parte della collezione footwear è realizzata molto prima che si cominci a pensare alla sfilata, poi c’è una parte realizzata ad hoc per lo show. Martin Margiela voleva una scarpa sola, Jean-Paul Gaultier ne voleva mille, ognuna fatta di cinque modelli e colori mixati fra loro.
LOI: Chi ti piace fra i designers di scarpe contemporanei o del passato?
PH: Mi piace molto André Perugia (scoperto da Paul Poiret e collaboratore di Elsa Schiaparelli, Christian Dior, Pierre Cardin, Givenchy, nda), così poetico. E trovo geniali le Walter Steiger anni ʼ80.
LOI: Perché hai lanciato la tua linea?
PH: Quando ho lanciato la mia linea lavoravo anche da Balenciaga, facevo tantissima ricerca e dovevo lasciar cadere molte idee interessanti perché non “fittavanoˮ con il mondo degli stilisti di riferimento. E ho pensato di fare un marchio che mi permettesse di sviluppare queste idee invece di abbandonarle.
LOI: Come cambia il tuo modo di lavorare tra footwear e gioielleria?
PH: Fin da bambino adoravo disegnare, era l’unica cosa che volevo fare. Quindi la base di partenza è identica, il disegno. Ma in una scarpa molto è già stabilito, e io devo giocare con tutta una serie di restrizioni, mentre la gioielleria è una vertigine, puoi fare un oggetto minuscolo, leggerissimo, quasi invisibile e subito dopo un oggetto voluminoso che può ornare qualsiasi parte del corpo.
LOI: Sei stato un ballerino. Questo ha influito in qualche modo sulla tua maniera di concepire le scarpe?
PH: Forse in senso lato, per una maggior consapevolezza della postura. La scarpa è qualcosa che aggiungi al tuo corpo per cambiarlo e cambiare lʼattitude.
LOI: C’è un modello che sogni di realizzare?
PH: Intendi la scarpa impossibile? Io adoro camminare a piedi nudi, sono mediterraneo, amo il caldo, odio l’inverno e l’obbligo di portare le scarpe... Essere barefoot è il mio paradiso perduto: il sandalo greco antico è la cosa che vi si avvicina di più.
Paul Andrew, Ferragamo
Paul Andrew è direttore creativo di Ferragamo dal 2019. Il suo ingresso nel brand data da tre anni prima, come design director della calzatura. Vista l’entità dell’impegno, Andrew ha dovuto prendere “la difficile decisione” di “mettere in pausa” il marchio che porta il suo nome, fondato nel 2013, una linea di scarpe di un’eleganza essenziale in una palette di colori outstanding.
L’Officiel Italia: I processi di creazione della collezione di scarpe e di quella di ready to wear procedono in modo indipendente pur nell’ovvia interrelazione?
Paul Andrew: Sia per la mia formazione sia per la storia del marchio sono le scarpe a dettare e definire la silhouette, e le proporzioni di cappotti, gonne, pantaloni. Il mio è letteralmente un processo creativo from toe to head. L’obiettivo era ovviamente trovare un equilibrio tra accessori e ready to wear: ho scelto una costruzione sartoriale molto forte e definita, con silhouette sottili e allungate, adattandola ai diversi archetipi di donna. E ho mantenuto quella gioia del colore che ha sempre fatto parte della storia del brand.
LOI: Nella F/W 20-21 ci sono molti capi in pelle...
PA: Mi ha colpito che ci fosse così poca pelle nel loro ready to wear. Personalmente amo costruire capi in pelle estremamente portabili e confortevoli, tramandabili per generazioni.
LOI: Quali sono i modelli più significativi della stagione?
PA: Direi la Viva sling back e il Viva stretched boot, estremamente confortevole, agile, con un tacco forte.
LOI: Salvatore Ferragamo è stato un maestro assoluto della calzatura, di un’inventività e una creatività inesauribili, dal sandalo Rainbow di Judy Garland a quello invisibile in nylon, al tacco a piramide degli anni ʼ30... Come ci si confronta con un heritage così impressionante?
PA: In archivio ci sono circa 15mila scarpe, che sarebbe davvero stupido ignorare. Parto sempre da loro, ma in un senso più concettuale che letterale. Ad esempio, prendi il sandalo invisibile del ʼ47, in nylon, una platform così straordinariamente femminile. Non mi interessa imitarlo, ma pensare a come Salvatore ha sfidato la gravità nell’immaginarlo.
LOI: Oltre a Ferragamo ci sono altri shoemakers che giudichi particolarmente interessanti?
PA: Ferragamo è sempre stato il mio designer di riferimento in assoluto, di lui mi affascinano non solo il genio creativo, ma il suo superare tutti gli ostacoli, la povertà, la guerra, i problemi economici. Ma trovo particolarmente interessanti anche Charles Jourdan e Maud Frizon, che negli anni ʼ70 e ʼ80 hanno cambiato il modo di costruire le scarpe
LOI: È diverso il modo in cui lavoravi per la tua linea da come lavori per Ferragamo?
PA: Nella mia linea c’erano tutti i miei interessi, per l’arte, l’architettura, la natura, c’era la mia ossessione per il colore.
LOI: Hai cominciato a lavorare da McQueen. Cosa ti è rimasto di quell’apprendistato?
PA: Ricordo il mio tempo da McQueen come un momento di straordinaria apertura. Io venivo da una scuola molto strutturata, da McQueen c’era una libertà creativa folle, non c’era neanche un calendario. Lì ho capito che non puoi mettere limiti al design, alla creatività: lui non ha mai ceduto al merchandising.
LOI: Come definiresti lo stile Ferragamo?
PA: Ferragamo non è trendy, non è ostentatorio, non è volgare: è sofisticato e timeless. E si fonda su un attento equilibrio tra maschile e femminile: al punto che spesso disegno contemporaneamente le due collezioni. Non mi ha mai affascinato lo streetwear, non ho mai spinto sulla sneaker, la gente vuole essere casual e lo stile funzionale è la mia priorità, ma il mio casual non ha nulla a che fare con lo sportswear.
LOI: È più semplice disegnare l’uomo o la donna?
PA: Il menswear è più immediato perché uso me stesso come punto di riferimento, con la donna è una fantasia, anche se lavoro con molte donne.
LOI: Uno degli obiettivi che ti eri dato agli inizi era dare coesione al brand. Ritieni di esserci arrivato?
PA: Ritengo che sia coesivo per quanto riguarda sfilata e campagna, ma per esserlo veramente devi poter entrare in un negozio e avere la sintesi del brand in un colpo dʼocchio. Ferragamo è però una realtà fatta di 650 stores in tutto il mondo, e di un pubblico tra i 16 e i 90 anni per cui a volte è difficile essere troppo coerenti, o forse non è neanche il caso di esserlo.
LOI: Hai un forte commitment nei confronti della sostenibilità.
PA: Io penso sia fondamentale ridurre l’impatto sull’ambiente. Abbiamo implementato l’upcycling degli avanzi di pellame che usiamo per patchwork e decorazioni. Siamo stati tra i primi a usare la fibra d’arancia, che dà un filato molto simile alla seta. Produciamo nylon con bottiglie di plastica riciclata, tutta la pelle proviene da animali che sono stati uccisi per l’alimentazione, usiamo raramente pellami esotici. Il vero problema è la colorazione delle pelli: c’è un programma di riduzione del consumo d’acqua e stiamo usando più tinture vegetali. Sono consapevole che siamo solo all’inizio, ma siamo estremamente motivati a proseguire in questa direzione.
Julia Toledano, Nodaleto
Americano, mediterraneo, minimalista. Lo stile di Nodaleto incarna un’identità ibrida tra sex appeal e rigore. Made in Venice, ma basato tra Parigi e Los Angeles, Nodaleto è un brand portatore sano di glamour e linee scultoree, guidato dal design di Julia Toledano e dall’immaginazione di Olivier Leone. Olivier si abbina perfettamente a Julia, riflettendo e plasmando lʼidentità visiva di Nodaleto, navigando attraverso lʼarchitettura e la cultura pop, il cui motto è «la leggerezza dellʼessere». Già ai piedi di celeb come Dua Lipa e Bella Hadid, Nodaleto è diventato in soli due anni un marchio cult.
LʼOfficiel Italia: Cosa significa Nodaleto? E sta per?
Julia Toledano: Nodaleto è l’anagramma del mio cognome e già dalla prima collezione il brand è unʼode alla mia eredità. Ricorda i Toledano originari della Spagna e poi trasferitisi in Marocco negli anni ʼ50. Il nostro colore simbolo fin dal debutto una tonalità mandarino, è stato preso in prestito dai tramonti di Malaga e Casablanca, la città dove è nato mio padre Sidney (CEO di LVMH), lʼatmosfera del sogno americano negli anni Settanta, l’estetica parigina anni ’90 (dove sono cresciuta e ho studiato moda).
LOI: Ti piacciono i tacchi massicci squadrati, perché? Qual è la scarpa icona della stagione invernale?
JT: Tutto è stato pensato in bilico tra punta quadrata, plateau e due listini sottili che si allacciano alla caviglia. Le Bulla Babies sono la scarpa iconica e best-seller fin dalla prima collezione: un inno all'infanzia e all'adolescenza. Pura ma maliziosa, questa scarpa incarna una giovane donna che esce di nascosto per andare a ballare; cambia il look ma tiene addosso le sue “babies”. Verranno lanciate ora in una nuova versione con tacco mini trapezio e uno maxi!
LOI: I tuoi pensieri sulla sostenibilità.
JT: È molto importante per noi avere la tracciabilità della manifattura delle scarpe. Infatti lavoriamo a livello locale unicamente con una fabbrica italiana a conduzione familiare. Ci teniamo a mantenere questo vecchio modo, perché fare una scarpa è unʼarte e sostenibilità è far durare il più possibile un oggetto speciale.
LOI: Quali sono gli shoe designer che ammiri di più? Quale modello di calzature avresti voluto inventare?
JT: Manolo Blahnik, Sergio Rossi, Vivier e molti altri! Avrei voluto inventare i Go-go boots di André Courrèges verso la fine degli anni ʼ60, stivali a metà polpaccio, bianchi e con tacco squadrato flat. Nel 1966, la canzone di Nancy Sinatra “These Boots Are Made for Walkinˮ si riferiva proprio a quel modello di stivali che è tornato di moda a metà degli anni ʼ90 e che ha ispirato la mia versione con plateau.
Giorgia Cantarini
Gherardo Felloni, Roger Vivier
Direttore creativo di Roger Vivier dal marzo 2018, Gherardo Felloni ha iniziato a lavorare giovanissimo con Fabrizio Viti da Helmut Lang, poi è diventato assistente di Fabio Zambernardi da Miu Miu, dove è stato 10 anni; nel 2009 è andato da Dior, per tornare dopo cinque anni da Miu Miu. Aveva pensato di diventare architetto, ha studiato da tenore, si è comprato un faro all’isola del Giglio. Per lui la Maison fondata nel ʼ37, acquistata da Della Valle nel 2001, è sempre stata un punto di riferimento, non solo per l’iconica décolleté con fibbia oversize placcata cromo creata nel ʼ65 per la collezione Mondrian di Yves Saint Laurent, ma per l’inesauribile inventiva del fondatore, creatore del tacco Boule di strass come del tacco a spillo, e i cui modelli avevano sedotto Marlene Dietrich, Elizabeth Taylor, Jackie Kennedy come la regina Elisabetta, che gli aveva commissionato i sandali dai tacchi coperti di rubini indossati il giorno dell’incoronazione.
L’Officiel Italia: I tuoi possedevano una fabbrica di scarpe... La passione per la calzatura è nata lì?
Gherardo Felloni: È vero che a quattro anni andavo a giocare in fabbrica, ma è stato da Prada che ho capito che mi piacevano le scarpe, perché hanno un potere enorme sulla silhouette: non esiste un abito senza la scarpa, cambiando la scarpa cambia il personaggio, la proporzione dell’abito e l’attitudine della donna. Il portamento dell’attrice dipende dalla scarpa. Io vedo l’enorme differenza in tutto l’atteggiamento di un’attrice che si toglie il tacco alto per girare un primo piano.
LOI: Cosa significa per te lavorare per Vivier?
GF: Vivier è sempre stato un’ispirazione assoluta, entrare nel suo archivio era il mio sogno nel cassetto. Non ci sarebbe stato il New Look senza la scarpa di Vivier, con la punta e il tacco a spillo che prima non si riusciva a fare. È lui che ha inventato il tacco Virgule, il tacco Banane. Quando Catherine Deneuve mette le scarpe con la fibbia cromata in “Belle de jour”, Vivier cambia la silhouette degli anni ʼ60, con una scarpa comoda, tondeggiante, disegnata per camminare. Noi oggi la consideriamo elegante, allora era disinvolta. Mi piace dire che sono fortunato, il marchio mi corrisponde, c’è una specie di alchimia tra il mio immaginario e quello di Roger Vivier. Come me lui adorava il cinema, il teatro, ammirava Joséphine Baker anche se lei non è mai stata una sua cliente. Per raccontare le mie scarpe io uso attrici, non modelle, mʼinteressa la personalità di chi le indossa. Vivier manca di abbigliamento, quindi di silhouette: dovevo metterci persone vere.
LOI: Infatti per comunicare il marchio hai realizzato degli shorts con la stessa Deneuve, con Susan Sarandon, con Christina Ricci.
GF: Ho sempre adorato Christina. L’unico abito che ho immaginato in vita mia è stato per lei, per la cena degli Oscar. L’ho fatto realizzare in un atelier a Parigi, con il collo a camicia abbottonato, come lo porto io per permettermi di indossare i miei collier, verde smeraldo e vagamente vittoriano perché lei è così intrinsecamente Goth, (vedi i suoi ruoli più celebri, “La famiglia Addams” a “Sleepy Hollow”, nda), ricamato di cristalli neri e con lo strascico.
LOI: Hai cominciato con le scarpe ma da anni ormai disegni borse e gioielli. Hai pensato a una capsule di abbigliamento?
GF: Mi piacerebbe. Ho cominciato a creare borse e gioielli da Miu Miu, anche se il passaggio dalle scarpe alle borse non è naturale né scontato, nelle scarpe ci entri dentro, ti cambiano la silhouette, nelle borse ci metti dentro le cose. Per quanto riguarda i gioielli mi sono sempre divertito a farli. Anzi, è il mio maggior divertimento in assoluto.
LOI: È vero che la passione per i gioielli ti è venuta osservando Manuela Pavesi? (Fashion editor di Vogue Italia nell’epoca pre-Sozzani, consulente di Miuccia Prada, fotografa di moda, nda). Dopo che l’hai vista, cito testualmente, “in collana di smeraldi su giacchina di nylon verde Nikeˮ?
GF: Manuela era semplicemente ipnotica, aveva la capacità di portare qualsiasi cosa e farla diventare totalmente contemporanea, prendeva una collana dell’800, l’abbinava a una giacchina di nylon di Nike e alle zeppe. È stata lei a mandarmi alla storica gioielleria Pennisi dove ho iniziato a comprare i miei primi gioielli.
LOI: Tu hai lavorato con creativi d’eccezione. Cosa ti è rimasto di ognuno di loro?
GF: Con Viti ho imparato la concettualità: da Helmut Lang, che è un genio, ho capito che non aveva senso l’enfasi sul prodotto, il savoir faire. Che quello che contava veramente era la concettualità, tanto più come la sua, mai drammatica, pesante, ma meravigliosamente leggera come nei suoi jeans sporcati con la tinta dell’imbianchino. Da Miu Miu ho imparato la bellezza degli opposti e abbandonato qualsiasi approccio snob alla bellezza, del resto Miuccia Prada è stata la prima a vedere la bellezza nel trash, lavorare per lei è stato un lungo esercizio di elasticità mentale. Da Galliano ho imparato la velocità e ho capito cosa fosse il glamour, parola che detesto, ma il suo era un glamour esagerato e sublime, da scenografo totalmente distante dalla realtà. All’opposto Raf Simons voleva rendere tutto reale, mi ricordo la sua prima sfilata di alta moda, meravigliosa: voleva le modelle con le mani in tasca e scarpe comode. Da lui ho imparato la leggerezza, direi che Raf trovava la potenza nella leggerezza. Con la mia seconda esperienza da Miu Miu ho imparato a gestire un brand e sono stato una delle poche persone cui sia stata data la possibilità di esprimersi all’interno del gruppo Prada. Cosa di cui sono estremamente grato.
LOI: Tornando a Vivier qual è il modello più significativo della F/W 20-21?
GF: I cuissards. Potrei dirti quelli con i ricami di piume e cristalli, ma in realtà i cuissards in generale. Li ha inventati Vivier, e Brigitte Bardot ne ha incarnato alla perfezione lo spirito. Era il ʼ67, il ʼ68, questi stivali alla coscia coglievano la voglia di cambiamento e di emancipazione del momento. Immagino che Vivier si fosse ispirato ai cortigiani del ʼ700, in ogni caso non esistevano prima di lui. Ogni stagione cerco di reinterpretare un tema caratteristico di Vivier, avevo la sensazione che questi stivali mancassero da troppo.
LOI: Prima accennavi all’archivio di Vivier. Com’è?
GF: Immenso. E anche Dior, per cui Vivier ha lavorato dal ʼ53 al ʼ63, ne possiede uno vastissimo. All’inizio mi ci sono immerso, ma definirei il mio un rapporto disinvolto: non ho mai lavorato con il vintage perché è vecchio. Il suo lavoro mi piace ricordarlo, lo guardo da 20 anni sui libri, non prendo mai i modelli di una volta in mano.
LOI: Per dirla con un eufemismo, non trovi che ci siano molte somiglianze tra le scarpe dei grandi marchi del lusso?
GF: La scarpa è un oggetto piccolo, fatto di piccoli dettagli, dove la differenza la fanno i millimetri. Una differenza infinitesimale nello scollo di una pump ti cambia tutto, è un gioco di precisione e di occhio. Spero che un modello Vivier sia sempre riconoscibile come tale.
LOI: E veniamo ai codici della Maison…
GF: Ho iniziato a lavorare a 18 anni, e capire come trasmettere agli altri le proprie idee è la cosa più complessa. Io ho una griglia nel mio cervello con tutto quello che Roger Vivier deve sempre avere e quello che non ci deve essere mai. Ci deve essere sempre una componente ironica, un modello non deve essere mai noioso, mai banalmente scuro, per me il nero è un colore! Non ci deve essere tristezza, o niente di trash, l’eventuale clin d’oeil al cattivo gusto deve essere stradigerito. E poi naturalmente c’è tutto il savoir faire di Della Valle, il comfort, la leggerezza…
LOI: E per quanto riguarda la sostenibilità?
GF: Rispetto a chi mi ha preceduto ho introdotto un modo di lavorare con molti meno prototipi. Ma direi che una Maison di nicchia è sostenibile per definizione, basti pensare che produciamo i cuissardes praticamente su ordinazione
Jean-Étienne Prach, Massaro
Entrata a far parte nel 2002 della galassia dei Métiers d’art di Chanel, la Maison di bottier sur mesure Massaro è stata fondata a Parigi nel 1894 da Sebastien Massaro, cui succede il figlio Lazare. La boutique di rue de la Paix è frequentata dagli aristocratici di tutta Europa e da Marlene Dietrich, e la Maison realizza le scarpe che accompagnano gli abiti di Vionnet e Schiaparelli come la ballerina con l’elastico creata originariamente per Madame Grès e resa celebre da Brigitte Bardot. Quando il timone passa al figlio di Lazare, Raymond, tra le clienti ci sono le donne più esigenti dell’epoca, da Barbara Hutton a Wallis Simpson a Mona Bismarck. Nel ʼ57 Gabrielle Chanel gli chiede una scarpa che allunghi la gamba e accorci il piede. E lui riesce nel piccolo miracolo, con una sling back dal tacco di sei centimetri in capretto beige e punta in satin nero che si affermerà come una delle icone del brand. Negli anni ʼ80 Massaro continua a inventare calzature che uniscono audacia, raffinatezza e virtuosismo tecnico per Karl Lagerfeld da Chanel, ma anche Lacroix, Mugler, Dior dell’era John Galliano, Alaïa. Una legacy straordinaria, testimoniata da un archivio di 6mila modelli di cui una cinquantina risalenti all’800. Ne parliamo con l’amministratore delegato Jean-Étienne Prach.
L’Officiel Italia: Come vi organizzate tra la produzione per la couture e il su misura?
Jean-Etienne Prach: Lavoriamo per tre mesi all’anno sulla Couture, e il resto del tempo sul bespoke
LOI: Siete l’unico marchio a fare calzature bespoke?
JEP: Per quanto riguarda l’uomo ci siamo noi, Lobb e Berluti, per la donna non mi viene in mente nessun altro.
LOI: Qualche dettaglio sulla tipologia di clientela?
JEP: È fatta al 75% di donne, le europee hanno in media 45, 50 anni, ma tra le asiatiche abbiamo clienti di 20.
LOI: Come si svolge la creazione di una scarpa su misura?
JEP: C’è una grande attenzione all’anatomia, per la donna facciamo due fittings e due prototipi. Dal primo appuntamento al primo fitting passano circa due mesi, ne occorrono altri due per il secondo e ancora due per la consegna finale. Un tempo giustificato se si pensa che occorrono almeno 30 ore di lavoro su una scarpa da donna, e 50 su quella da uomo. Per ogni fase di lavorazione c’è un artigiano specializzato, il formier che realizza le forme in legno e il tacco, il coupeur che taglia i singoli pezzi che compongono la scarpa, il piqueur che li assembla, l’ouvrier de pied che mette insieme la suola con il resto e il finisseur che dà la cera o la patina.
LOI: Cosa fa la differenza tra una scarpa Massaro e un modello di un altro marchio?
JEP: Oltre al savoir faire, la qualità dei materiali e la presenza interna di un reparto di ortopedia per il massimo confort.
LOI: I modelli più outstanding realizzati per Chanel?
JEP: Tantissimi, vista l’inesauribile creatività di Karl. Quando nel 2014 portò la sneaker nella haute couture siamo stati subissati dalla domanda e ricordo dei modelli favolosi realizzati nel 2018 interamente ricamati da Lesage. Forse la richiesta più challenging fu quando Lagerfeld ci portò una foto del Guggenheim di Bilbao e pretese una scarpa simile al tetto in titanio del museo. Il risultato fu una platform estremamente complicata da realizzare, ma sublime
LOI: Parlando di sostenibilità...
JEP: Non usiamo più pelli esotiche dalla sfilata dei Métiers d’Art a New York. E stiamo lavorando per introdurre una suola completamente biodegradabile inventata da una compagnia italiana
Edgardo Osorio, Aquazzura
L’Instagram di Edgardo Osorio è una carrellata di suites di alberghi favolosi, piscine hollywoodiane, mete esotiche in uno spirito jet setter anni ʼ70, interni di un lusso stravagante, alla Tony Duquette; con lui spesso in tuxedo (portato benissimo), sempre circondato da donne bellissime, meglio se in abito da sera e con i suoi sandali alti di cristallo o le sue pump di raso. Solo ogni tanto appaiono i suoi modelli per Aquazzura, il sandalo Papillon, struttura minimal verde smeraldo su cui si posano farfalle ricamate, la Bow Tie in raso rosso fuoco… Nato in Colombia, cresciuto tra Miami e Londra, Osorio studia al London College of Fashion e alla Central Saint Martins, e inizia a lavorare giovanissimo da Ferragamo, poi da Caovilla e da Roberto Cavalli. «Sapevo che ero un creativo e che volevo lavorare nella moda su qualcosa di tutto mio fin da quando avevo 10 anni. E, una volta iniziato, ho capito in fretta che mi interessavano gli accessori e non i vestiti», racconta.
L’Officiel Italia: E hai scelto di stabilirti a Firenze, a Palazzo Corsini.
Edgardo Osorio: Sono arrivato in Italia a 19 anni, ho iniziato a lavorare da Ferragamo e ho provato immediatamente la strana sensazione di aver già vissuto qui in un’altra vita, e poi per chi fa accessori Firenze è la città per eccellenza. Ci sono altri distretti produttivi, il Veneto, Parabiago, le Marche, per certi versi Napoli, ma in Toscana hai la più grande concentrazione di artigiani e concerie del mondo. Considero Aquazzura un marchio italiano a tutti gli effetti e vivo qui perché per me la vicinanza al prodotto è fondamentale e adoro passare il mio tempo in fabbrica con gli artigiani.
LOI: Hai lanciato Aquazzura nel 2011 a 25 anni, e secondo la leggenda, la prima collezione, la P/E 12, è andata subito sold out da Barneys.
EO: Ho lanciato il brand contemporaneamente all’affermarsi dei social media, e il passaparola delle donne che amavano le mie scarpe ha acquisito una risonanza esponenziale.
LOI: Hai fatto tante capsule, con Claudia Schiffer, Olivia Palermo, Poppy Delevingne.
EO: Sono state tutte collaborazioni organiche, nate dall’amicizia con donne che ammiro profondamente. Sono un uomo che disegna per le donne e ho un bisogno continuo di feedback, e di confrontarmi con altri punti di vista.
LOI: C’è un modello outstanding nella F/W?
EO: L’inverno è più che mai una stagione di forte contrasto tra il giorno, dove ho introdotto per la prima volta carrarmati e combat boots, inusuali per me, e la sera, dove forse la scarpa più glamorous è la Proust Pump, una decolleté di raso con stelle e luna di strass e tacco a clessidra.
LOI: E ripercorrendo la storia del brand?
EO: La nostra pump iconica è la Bow Tie, sensuale, leggera, ma in generale credo che il nome Aquazzura evochi istintivamente un sandalo sexy, una décolleté o una flat allacciata alla caviglia.
LOI: La passione del colore è una caratteristica di Aquazzura
EO: Amo il colore, mi affascina culturalmente, il blu Klein, il color Aqua sono parte costituente del mio immaginario. Del resto anche la donna che si veste rigorosamente di nero se vuole osare il colore lo farà con la scarpa.
LOI: Tu hai sempre puntato anche sulla scarpa bassa.
EO: Sì, perché ho sempre creduto nella possibilità di coniugare sensualità e confort, anche se quando ho iniziato a fare scarpe basse l’idea della sexy flat era un ossimoro.
LOI: La tua passione per il design d’interni, evidentissima nelle tue boutiques, ti ha portato a collaborare con De Gournay (marchio di carte da parati dipinte a mano, nda). Hai altre collaborazioni in vista?
EO: Sto lavorando su una collezione casa che sarà lanciata l’anno prossimo. Siamo in un momento storico in cui la gente ha di nuovo voglia di investire sulla casa, di ricevere chez soi, di curare la propria tavola come il proprio armadio guardaroba.
LOI: E il previsto lancio delle borse?
EO: L’estate prossima. Sarà molto speciale, fuori dalle regole, non intendo lanciare un qualsiasi modello “safe” in mille varianti di colore
Sandra Choi, Jimmy Choo
Sandali ipersexy, flat aggraziate, pump ultra femminili, stivali che infondono al passo sicurezza e determinazione, un uso magistrale di strass, frange, colore… Non c’è da stupirsi se da 25 anni le scarpe di Jimmy Choo sono oggetto del desiderio di molte, da un personaggio fictional come Carrie Bradshaw di “Sex and the City” a Kate Middleton. Dietro al successo del brand, prodotto in Italia, c’è Sandra Choi, che ha iniziato giovanissima a lavorare nel negozio londinese dell’East End dove lo zio Jimmy Choo creava modelli fatti a mano per un’elite esigente di cui faceva parte anche Lady Di. Nel ’96, quando nasce il brand ready to wear e apre il primo negozio in Motcomb street, Sandra diventa direttore creativo, ruolo che continuerà a mantenere dopo il ritiro dello zio nel 2001.
L’Officiel Italia: Qual è il modello più interessante della F/W 20?
Sandra Choi: La pump Marcela. Realizzata in pelle o serpente goffrato, questa scarpa dalla linea ipergrafica e dall’asimmetrica punta quadrata ricorda le sfaccettature del gioiello simbolo di Jimmy Choo, e si appoggia su un nuovo tacco, lo Scoop.
LOI: C’è un best seller assoluto del brand?
SC: La Minny è la nostra scarpa più iconica. Nessun’altra scarpa è stata indossata più spesso sui red carpet di tutto il mondo.
LOI: Quali sono le caratteristiche distintive di un modello Jimmy Choo, quelle che lo rendono immediatamente riconoscibile rispetto ad altri brand?
SC: Stile, glamour e una sicurezza di sé inimitabili.
LOI: Quali sono le innovazioni più significative introdotte nel corso degli anni?
SC: Abbiamo sempre cercato di essere innovativi nel design, introducendo nel tempo diverse tipologie di tacco, come il Kick Heel della stagione scorsa, un tacco di nuove proporzioni, che si assottiglia in prossimità della suola. E abbiamo introdotto anche vere innovazioni tecnologiche, come gli stivali riscaldati Voyager, controllabili via app per tenere i piedi sempre al caldo.
LOI: Quali sono i designer di scarpe che ammiri maggiormente?
SC: Roger Henri Vivier è sempre stato una fonte di ispirazione. E adoro Terry de Havilland, con il suo design esuberante e i suoi colori accesi. Ha lavorato per figure straordinarie come David Bowie e Bianca Jagger, sperimentando incessantemente, trasmettendo un senso di audacia e divertimento.
Fabio Ducci, OLG
AD di OLG (Onward Luxury Group), Fabio Ducci è a capo della branca italiana del gruppo giapponese Onward Luxury Holdings nato nel 2012 dalla fusione di Gibò (azienda tessile che negli anni d’oro ha prodotto Armani, Montana, Moschino, Gaultier, Helmut Lang e Sybilla) e Iris (il calzaturificio di luxury shoes esploso negli anni ʼ90 con il successo della Mouse di Marc Jacobs). Oltre ad alcune linee di abbigliamento, OLG produce il footwear dei marchi di proprietà Jil Sander e Joseph London, e (su licenza) le scarpe di Proenza Schouler, See by Chloé, Rochas, Elie Saab e JW Anderson, e ha lanciato due proprie linee, F_WD e Carlotha Ray. La manifattura principale è sulla Riviera del Brenta e poi c’è il sito produttivo dedicato alla realizzazione delle luxury sneakers di Vuitton, Balenciaga, Yves Saint Laurent, Gucci e Chanel.
L’Officiel Italia: Facciamo il punto sui marchi?
Fabio Ducci: Proenza Schouler performa molto bene, in particolare dopo che i due designers Jack McCollough e Lazaro Hernandez hanno smesso di attorcigliarsi troppo attorno alla loro coolness. Va molto bene JW Anderson, perchè quando il direttore creativo di un brand è capace di conferirgli un’impronta ben definita il mercato reagisce favorevolmente. Rochas in questo momento è un po’ fermo, da quando Interparfums che ne è proprietario ha deciso di interrompere il rapporto con Alessandro Dell’Acqua, che ne è stato il direttore creativo negli ultimi cinque anni. È chiaro che si tratta di rilanciarlo; le scarpe hanno funzionato molto bene finché Alessandro non è stato troppo distratto da N°21. See by Chloé fa numeri importanti, e ci tengo a ricordare che noi produciamo anche le scarpe di Chloé, nate in Iris, ma la cui licenza è stata ripresa quattro anni fa dalla Maison, nell’ambito di un progetto complessivo volto a ri-marcare con forza l’identità del brand, e il tipo di donna emancipata che lo contraddistingueva alla nascita, quando era considerato la “sorella giovane” di Chanel.
LOI: Come riuscite a gestire le diverse identità dei marchi senza rischiare una sorta di cannibalizzazione?
FD: È fondamentale mantenere le linee ben separate, evitando sovrapposizioni di filiere e team. Ogni brand è seguito da un responsabile della ricerca, personale tecnico e modellista dedicati. Il nostro è un lavoro di co-creazione che è autentica espressione di brand partners. A un marchio con Elie Saab, che non ha una specifica competenza sulla calzatura, noi assicuriamo un supporto stilistico, con la proposta di designer freelancers che collaborano con noi, più una struttura interna di ricerca e stile. Per JW Anderson, che ci invia i propri disegni tecnici, partiamo invece direttamente dalla realizzazione dei prototipi. La nostra struttura progettuale e di sviluppo è assolutamente comparabile a quella dei grandi gruppi del lusso: realizziamo tutti i prototipi all’interno senza avvalerci di subfornitori, e abbiamo sempre investito sui macchinari più avanzati. Naturalmente ci occupiamo anche di ricerca e approvvigionamento delle materie prime, di produzione e distribuzione, e abbiamo appena inaugurato il nostro sito di e-commerce, Blancah.
LOI: Cosa vi ha spinto a fondare due marchi interni?
FD: La volontà di creare calzature riciclabili e sostenibili, dalla filiera trasparente. Per lanciare F_WD abbiamo scoperto un mondo di nuovi fornitori, in Spagna, Portogallo, Europa dell’Est e Usa. In ogni calzatura F_WD c’è un numero che sta a indicare la percentuale di materiali riciclati utilizzati rispetto alla totalità di quelli effettivamente presenti nel prodotto finito. È una rivoluzione complessa perché bisogna arrivare a sostituire praticamente tutto il materiale tradizionale, compresi rivetti e anellini. Lo definirei un laboratorio di sperimentazione che ci aiuta a mantenere un approccio critico verso noi stessi.
LOI: Producete anche le linee di Francesco Russo e Samuele Failli.
FD: Conosco Samuele da quando collaborava con Prada dove io ho lavorato per anni. La sua donna di riferimento è la stessa di Francesco Russo, ma ho voluto dare ad entrambi un’opportunità, non c’era motivo di optare all’origine per l’uno o per l’altro.
LOI: Ha ancora senso parlare di superiorità della calzatura italiana?
FD: In Spagna e in Brasile ci sono distretti interessanti e sarebbe ottuso non continuare a guardarsi intorno, ma in 32 anni di lavoro un livello qualitativo paragonabile a quello italiano non l’ho mai riscontrato da nessun’altra parte. Credo che l’Italia mantenga il primato soprattutto per la competenza tecnica del personale. E il Covid ha dimostrato che le filiere produttive lunghe scombinano drammaticamente la gestione delle aziende in caso di problemi seri.