Interviste

Hervé Barmasse l'alpinista che non conosce limiti

Nato ai piedi del Cervino, alpinista, figlio e nipote di alpinisti, Hervé Barmasse è uno dei grandi eredi degli scalatori del passato. Ha aperto vie nuove e scalato le vette più difficili del mondo, continuando a guardare alla montagna come una maestra, «che ti dà limiti ma ti fa capire anche i tuoi pregi»
2019 cervin hervé barmasse mathis dumas photography matterhorn sony a7r iii the north face vibram alps www.mathisdumas.com ©mathisdumas cliff nature outdoors human person mountain

Ogni episodio, alla voce “alpinismo”, sul sito di Hervé Barmasse, lascia col fiato sospeso. Racconta le sue imprese, dall’ascesa alla “Gran Becca”, la montagna di casa, a luoghi lontani e altrettanto leggendari in Pakistan, Nepal, Tibet e Patagonia. Alpinista professionista, guida alpina, storyteller e conferenziere, è atleta del Global Team The North Face.

Sei nato sotto il Cervino, da una famiglia di alpinisti, cosa significa per te la montagna? 
La montagna è l’elemento che mi rappresenta. È stata una scuola, il mio mentore fin da ragazzino, quando mi lasciavano andare da solo per i boschi dovevo imparare a pensare a me stesso, arrangiarmi, diventare responsabile. Prima di diventare alpinista, e di sceglierla anche per la scalata, mi sono innamorato della montagna da vivere.

Ti cito: “In montagna non si può mentire, cercare scuse, rimandare decisioni... ”
La solitaria non è qualcosa che vivono tutti. Ti trovi di fronte alla montagna, non è come in altre situazioni che puoi cercare degli escamotage: non puoi barare, sei da solo, apri la via e se provi a non rispettare il tuo avversario ‒ che non è un altro uomo, ma è la parete, qualcosa di più grande di te, sei tu che ci rimetti. Impari a essere onesto, sai di essere un ospite, di dover passare in punta di piedi. La natura ti dà i limiti, ma ti fa anche capire i tuoi pregi.

Ti definiscono uno dei “grandi eredi degli alpinisti del passato”.
Potrebbe essere perché l’alpinismo di un tempo aveva una parte romantica, erano alpinisti attenti alla montagna. Ora c’è molta competizione, si vede la montagna come un “campo da gioco”, ma non può essere considerata tale: la natura è incontrollabile, selvaggia. Troppo spesso siamo concentrati sulle nostre gesta, siamo sportivi, amiamo le sfide; dovremmo invece impegnarci a far passare un messaggio, come hanno fatto Walter Bonatti (1930-2011), che ha fatto innamorare della montagna tanti altri alpinisti, e Reinhold Messner, che l’ha sempre messa al primo posto.

In generale, quali sono le caratteristiche che deve avere un alpinista, fisiche e psichiche?
Essere umile, allo stesso tempo caparbio, che non è il contrario; ed essere ambizioso ‒ ambire nella vita è importante, a qualunque livello, vuol dire migliorarsi sempre, e creativo. Fisicamente è complesso da descrivere, devi essere, per fare un paragone, come un triatleta che ha forza e resistenza aerobica, ma deve sopportare sforzi molto prolungati, di giorni. Inoltre, bisogna avere l’intelligenza di sapersi ascoltare, per avere un margine di autonomia. Ricordarsi che la cima non è il traguardo, il limite, ma il giro di boa. Arrivato lì devi avere la forza di tornare indietro, di rientrare a casa.

Come è cambiato negli anni l’abbigliamento per la montagna?
Le prime guide alpine, che accompagnavano i turisti e i signori inglesi, per non sfigurare, andavano in montagna con il ve- stito buono. Gli si diceva, scherzando, “se succede qualcosa, siete già pronti... ” Poi i loro vestiti, i cappelli, le giacche e i pantaloni in flanella, sono diventati di moda, e usati per la festa. Se invece parliamo di abbigliamento tecnico, è in continua evoluzione, con una ricerca oggi molto spinta sull’ecosostenibilità. The North Face, ad esempio, ha appena presentato Future Light (una membrana impermeabile che è permeabile all’aria, nda), un tessuto sintetico con alte prestazioni; una tecnologia che ha messo a disposizione di tutti.

Nelle conferenze di quest’estate hai parlato di natura e di responsabilità.
Durante il lockdown abbiamo visto come la natura riprendeva spazio in città, ma anche in montagna: c’era l’aria più pulita, meno rumore; abbiamo avuto un privilegio, quello di capire l’incidenza dell’uomo. Non vuol dire che non dobbiamo più muoverci, non si può fare. Ma trovare un bilanciamento. Avere rispetto della natura e dell’uomo. E ricordarci che lei non si ferma, trova sempre il modo di uscirne; è l’uomo, invece, molto più fragile.

Quali sono i tuoi progetti per il prossimo futuro?
Ci saranno meno conferenze pubbli- che ma continuerò a collaborare con Kili-mangiaro (RAI3) a parlare di montagna, facendo conoscere le storie belle, di uomini avventurieri. E mi sto preparando per scalare la parete Rupal del Nanga Parbat in Pakistan, in inverno, in stile alpino, lo stile pulito (senza campi base, sherpa e ovviamente ossigeno); è molto difficile, ci vuole tanto allenamento. Le chance di riuscire? Lo 0,01 per cento, ma uno deve provarci.

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