L’intervista all’attrice Kasia Smutniak, regista del docufilm "Mur"
L'attrice/regista Kasia Smutniak continua a portare in giro per l'Italia il docufilm "Mur", per tener vivo il dibattito su tutti i muri, anche morali, che ci dividono. E, stanca di dire «sempre le stesse cose», vuole prendersi la responsabilità di raccontare storie basate sul punto di vista femminile.
Text by FABIA DI DRUSCO
Photography ANDREA GANDINI
Styling GLORIA RIPAMONTI
Sul suo profilo Instagram c’è il servizio di Francesca Mannocchi col bambino di Jenin che non ha altra soluzione a una realtà vissuta sotto le bombe che dire che da grande combatterà, cè Greta Thunberg, cè la guerra in Ucraina, il bando dell'aborto in Polonia, l'appello al cessate il fuoco in Palestina, le donne iraniane di #womanlifefreedom, la scuola che ha fondato in Tibet. E naturalmente c'è "Mur", il documentario sul muro lungo 186 km e alto sei metri costruito al confine tra la Bielorussia e la Polonia per impedire il passaggio di migranti attirati nella Bielorussia di Lukashenko dal miraggio di un visto e poi abbandonati a sé stessi in una terra di confine, una terra selvaggia di paludi e di bisonti, il bosco più antico d'Europa, la Puszcza Bialowieska. Un muro costruito senza che l'Unione Europea si opponesse e di cui pochissimi erano a conoscenza, con la zona di costruzione militarizzata e inaccessibile. «Essere donna mi ha aiutata a portare avanti il mio progetto perché, sottovalutata in quanto tale, non destavo lo stesso sospetto che avrebbe destato un uomo, non venivo percepita come potenzialmente pericolosa», sottolinea Kasia Smutniak, che ha lavorato alla realizzazione di "Mur" cor Marella Bombini, co-autrice e operatrice («La mia co-tutto») e la montatrice Ilaria Fraioli. "Mur" è stato proiettato al Toronto Film Festival e alla Festa del Cinema di Roma e Kasia l'ha accompagnato in tutta Italia («Manca ancora il Sud ma sto organizzando una serie di proiezioni nel 2024»), scuole incluse («I professori mi contattano su Instagram») nella convinzione che non avesse senso un'uscita classica nelle sale ma sollevare un dibattito, porsi delle domande.
Scorri verso il basso per leggere l'intervista completa all'attrice e regista Kasia Smutniak
L'OFFICIEL ITALIA: Come reagisce il pubblico alla proiezione?
KASIA SMUTNIAK: Per me "Mur" è un mezzo per cominciare un dialogo sui muri in generale, anche morali. Tanto più che in Europa ci sono già 19 muri e 12 sono in costruzione, e io sono nata 10 anni prima della caduta del muro di Berlino che mi ha condizionato tutta la vita. Il dibattito col pubblico si è rivelato sempre gratificante, anche perché io sono stata sincera anche nella mia impotenza, nella mia mancanza di strumenti, e questo ha liberato lo spettatore dal doversi sentire un esperto di geopolitica. “Ma com’è possibile che non sapessi niente? Eppure leggo, mi informo”, è questa la prima reazione, perché siamo molto persi in quello che sta succedendo, non abbiamo strumenti per assistere al genocidio in diretta come sta accadendo da due mesi a questa parte a Gaza (l’intervista è stata realizzata a metà dicembre, nda). Con la connessione veloce è diventato molto più facile avere accesso alle informazioni ma molto più faticoso saperle usare: essere spettatori della nostra storia comporta una responsabilità precisa, bisogna cercarsi le notizie, non possiamo più affidarci alla lettura di un giornale la mattina. Per sapere quello che succede in Palestina guardo la CNN, BBC, Fox News, Al Jazeera inglese e araba, seguo la Reuters, i reporters di Gaza.
LOI: Guardando “Mur” ci sono alcuni dettagli che mi sono rimasti particolarmente impressi, da un lato l’atrocità dei respingimenti, quel racconto di dita mozzate, dall’altro una delle volontarie che ha portato aiuto ai profughi che dice che è stufa di doverlo fare, che vuole tornare alla normalità.
KS: In assenza dello Stato salvare delle vite è ricaduto sulle spalle di persone che non l’hanno neanche scelto, che non sono strutturate per farlo né psicologicamente né a livello pratico/organizzativo. Sono appena tornata da una serie di proiezioni in Polonia, anche in quella che non è più la zona rossa dove avevo girato, e mi è calata una tristezza terribile: sono due anni che le persone continuano a cercare di passare e a morire. L’unica differenza è che adesso sono più consapevoli dei rischi, i primi erano famiglie con bambini malati, con disabilità, c’era gente in sedia a rotelle nel bosco. Sono stati usati per creare una crisi sul confine, a Minsk sono arrivati in aereo pagando i visti anche 10mila euro, mentre adesso i charter si sono fermati. Mi ha molto colpito vedere persone che ho incontrato due anni fa, persone sempre più magre, quasi fantasmi di se stesse. Nel frattempo gli attivisti si sono organizzati, ma non sono arrivate altre organizzazioni di aiuto né tantomeno lo Stato, che non recupera neanche i cadaveri che vengono divorati dagli animali. L’atrocità è diventata quotidianità, non riesco a immaginare niente di più triste.
LOI: Ci sono delle macro differenze tra la percezione in Italia e in Polonia del film?
KS: In Italia continuavano a chiedermi qual era il rischio principale che avevo corso entrando nella zona rossa e nel bosco, in Polonia il rischio era chiaro per tutti: io non avevo paura di essere arre- stata, avevo paura di non essere all’altezza, di non poter aiutare; e avevo paura che mi sparassero, avevo paura di perdermi e di morire nel bosco perché non riuscivo ad uscirne: è una zona di caccia e tu sei la preda. Solo due settimane fa hanno sparato, per fortuna senza colpirlo, a uno dei miei attivisti. In Polonia siamo ancora alla negazione del fatto in sé, oppure a chiederci: cosa possiamo fare adesso con il nuovo governo di Tusk? Nella zona rossa, subito dopo la proiezione, ho chiesto alle persone che vanno a salvare vite di alzarsi: si è alzata mezza sala. Eppure dove sono i reporter di guerra? Perché sono in Ucraina, dove pure rischiano la vita, e non qua? Perché questa storia non si vende?
«Essere una donna mi ha aiutata a girare “Mur”, perché sottovalutata in quanto tale, non destavo lo stesso sospetto che avrebbe destato un uomo, non venivo percepita come potenzialmente pericolosa».
LOI: Stai già lavorando ad altri progetti da regista?
KS: Due anni fa ho realizzato che quello che vivevo era più interessante di quello che raccontavo sullo schermo: allora ho voluto mollare la finzione e concentrarmi sulla realtà. Ma se è vero che non mi bastava più essere interprete, il progetto non è nato dalla voglia di passare dall’altra parte della macchina da presa, ma dal fatto che l’unico strumento che avevo per cercare di incidere sulla realtà, non essendo né un medico né un avvocato, né un politico, era raccontare. Ogni film che ho fatto, ho creduto valesse la pena di essere raccontato, ma ora voglio esprimere il mio punto di vista. Sono stanca di dire le stesse cose. Voglio prendermi la responsabilità di raccontare storie basate sul punto di vista femminile. Sono stufa dell’impossibilità di uscire da questo circolo vizioso, dove tutto quello che noi sappiamo è sempre frutto di un punto di vista maschile, che si tratti di storia, di arte, di musica. Lo consideriamo naturale, ogni donna fin da bambina cerca di adattarsi alla società, ora bisogna prendersi la responsabilità di riscrivere la nostra storia. E quindi cominciamo a farlo.
LOI: Il femminicidio di Giulia Cecchettin e la presa di posizione, l’appello di suo padre Gino e di sua sorella Elena a chiamare le cose con il proprio nome e a iniziare una rivoluzione culturale per sradicare il patriarcato e la cultura dello stupro hanno creato una nuova urgenza sulla questione della parità di genere… Credi che sia finalmente l’inizio della svolta?
KS: Sono contenta e fiera di questo inizio, ma non possiamo certo dire che è fatta visto che c’è ancora chi si pone la domanda se esista o meno un problema di disparità. Per molti uomini è come se, per il semplice fatto di non essere assassini, la violenza sulle donne non li riguardi. Mentre noi donne in Giulia ci siamo tristemente riconosciute. La violenza è legata a un enorme problema culturale, la responsabilità è anche dei genitori che educano i figli e di chi racconta la realtà. Sono arrivata in Italia a 16, forse 17 anni dal sistema comunista dove tutte le donne lavoravano. Ricordo ancora il mio sbigottimento quando, accendendo la tv ho visto un pomodoro (che poi ho saputo essere il Gabibbo) che ballava con due ragazze seminude che ballavano senza essere ballerine. Non riuscivo a capire questo tipo di rappresentazione e ho pensato: è questo il massimo del traguardo per una donna?
LOI: Immagino non ti consoli vedere che oggi il modello della bellezza che non ha nulla da dire è diventata un traguardo professionale anche per molti uomini, a partire dagli influencers?
KS: Credo che in questa cultura l’uomo può essere bello e sfruttare la sua bellezza, mentre alla donna è solo permesso essere bella.
LOI: Sul tuo profilo Instagram c’è un post con le locandine affiancate di “Mur” e “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi.
KS: Mi sento molto unita con le altre donne che lavorano nel cinema. Alla Festa di Roma avevano organizzato un panel di donne registe e ci siamo chieste se era il caso di andarci o meno, considerando che il panel degli uomini registi non esiste, e che magari ci avrebbero fatto le solite domande futili sui figli, l’età, il tempo che passa. E poi siamo andate, c’erano Paola, Valeria Bruni Tedeschi, Jasmine Trinca, Valeria Golino, Ginevra Elkann.. Senza dimenticare altri film usciti quest’anno (nel 2023 ndr), di Micaela Ramazzotti, di Margherita Buy, bellissimi, importanti. Sono felice del successo di tutte perché il successo di una aiuta quello delle altre.
LOI: E tra le voci femminili fuori dal cinema chi ti piace?
KS: Oggi mi manca tantissimo Michela Murgia e ci mancherà sempre di più, per fortuna che ci ha lasciato tanto. Mi piacciono quella cazzuta di Emma Bonino, la senatrice Segre, Melania Mazzucco, Serena Dandini, la scrittrice Chiara Tagliaferri…
Team credits:
HAIR Chiara Marinosci @ THE GREEN APPLE ITALIA;
MAKE UP Arianna Agosta using CHANEL LES BEIGES;
PHOTO ASSISTANT Paolo De Giuli;
STYLING ASSISTANT Giorgia Ripamonti.