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Sophie Calle racconta “A toi de faire, ma mignonne”, al Musée Picasso

Con il take over del Musée Picasso l’artista continua la riflessione su temi trasversali a tutta la sua opera, dal ruolo dello sguardo alla morte. Una full immersion nel suo immaginario attraverso foto, testi, short films e gli oggetti della sua casa a Malakoff.

Sophie Calle al Musée Picasso Paris, foto © Yves Géant.
Sophie Calle al Musée Picasso Paris, foto © Yves Géant.

“A toi de faire, ma mignonne”, al Musée Picasso di Parigi fino al 7 gennaio 2024, è l’occasione per Sophie Calle non solo di una remise en scene di lavori esposti in mostre precedenti e di uno sviluppo di alcuni temi che ne hanno attraversato tutta l’opera, ma di svuotare la sua casa nel quartiere Malakoff, dove si è trasferita negli anni ’80, per far inventariare dall’Hotel Drouot gli oggetti e le opere d’arte accumulati in una vita e proporli al pubblico. Attualmente la casa è vuota, e lei vive in hotel, utilizzando gli spazi del Musée Picasso come ufficio, per tutta la durata dell’esposizione. In mostra ci sono il pianoforte, le sedie Eames, un tavolo di Charlotte Perriand, tanti animali impagliati, vecchie foto, opere di altri artisti, statuette lignee, immagini religiose, bijoux, capi di abbigliamento, vari ritratti, anche una Barbie Sophie Calle  (“lo scherzo di un’amica”) con la camicia da notte bianca e il cuscino come nella celebre foto in bianco e nero della notte in cui l’artista ha dormito sulla Tour Eiffel. Ogni oggetto è la reiterazione di un interrogativo: «Mia madre è morta, mio padre è morto, non ho figli. Quando non ci sarò più, cosa succederà alle cose della mia vita?». L’inventario come un modo di esorcizzare la paura della scomparsa della propria storia... Una storia che sul piano artistico inizia nel 1980, a New York, con una partecipazione alla mostra collettiva “The Bronx” alla galleria Fashion Moda. Calle decide di partire dalla paura che circondava allora il quartiere/ghetto chiedendo a persone fermate per strada di portarla in luoghi che avessero per loro un significato, sfidando lo stereotipo per cui, giovane, donna e bianca, era un target potenziale di aggressione, rapina etc. Tra i suoi tanti lavori (sono 61 i progetti portati a termine, come ricorda lei stessa nell’inventario in mostra al Picasso che ne segnala invece 42 d’incompiuti), “Les Dormeurs” del ’79, in cui fotografa per otto giorni consecutivi amici e sconosciuti invitati a dormire nel suo letto, e “Prenez soin de vous”,  la risposta “tecnica” di 107 donne impegnate in professioni in cui ci si prende appunto cura di qualcosa alla frase/titolo della mostra, che siglava la mail di rottura di un fidanzato. Presentato nel 2007 alla 52ma Biennale di Venezia, è un turning point in termini di riconoscimento internazionale. In una mostra così vasta come quella del Picasso l’attenzione dello spettatore diventa per forza selettiva, si bypassano alcune opere e si rimane folgorati da altre. Nel mio caso, l’incisività di certi “parce que” che si fissano istintivamente nella memoria, l’ultimo ricordo visivo prima di diventare ciechi della serie “Les Aveugles”, o la foto di Souris, il gatto (imbalsamato e deposto in una bara in miniatura troppo piccola per lui) cui aveva dedicato la mostra “Souris Calle” alla Galerie Perrotin, chiedendo a 40 artisti, tra cui Bono e Pharrell Williams, di comporre brani musicali in memoriam. E poi c’è la sua Guernica, un muro coperto da artwork, appesi fitti fitti, di Jean-Baptiste Mondino, Damien Hirst, Doisneau, Jeff Koons, Hopper, Orozco, Cindy Sherman, Nan Goldin, Diane Arbus, Lee Miller, Sam Taylor-Johnson, Christo, Louise Bourgeois, Beuys, Cattelan

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Una parete della mostra al Musée Picasso, a sinistra Sophie Calle "Tu les as bien eus!", 2018 e a destra in alto, un disegno inchiostro su carta fatto dall'artista a a sei anni.


L'OFFICIEL: Partiamo dalla sua Guernica, uno dei momenti più impattanti della mostra. Come ha scelto e assemblato le opere?
Sophie Calle: Ho cercato di inserirci un’opera di ogni artista presente in casa mia e di combinarle insieme in uno spazio di 27 mq, la superficie del quadro di Picasso. La maggior parte viene da scambi con artisti della mia generazione: possedere dei lavori grandi sarebbe stato troppo complicato, per ragioni economiche e di spazio, è molto più semplice e più personale scambiare piccoli lavori, quasi delle miniature, con artisti che hanno accettato di giocare con me.

LO: La mostra è l’occasione per rivedere il lavoro di Serena Carone, in particolare la statua a grandezza naturale intitolata Le Cénotaphe de Sophie, dove a vegliarla questa volta è un lupo bianco (mentre nella prima esposizione c’erano altri animali totemici). Alla (splendida) mostra al Musée de la Chasse del 2017 (“Beau doublé, Monsieur le Marquis! Sophie Calle et son invitée Serena Carone”) mi aveva stregata la sua Pleureuse, una testa in ceramica bianca con tutta la grazia di una Beatrice d’Aragona del Laurana… Come ha scoperto il suo lavoro?
SC: Serena Carone è una grande amica, l’ho scoperta quando avevo sette anni o forse dieci. In realtà ci siamo scoperte a vicenda perché le nostre madri erano amiche, poi ci siamo perse di vista. La collaborazione è cominciata con la mostra al Musée de la Chasse.

"Non riesco a immaginare una mia foto vicino ai capolavori di Pablo Picasso, è troppo in tutti i sensi" Sophie Calle

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Sophie Calle, Pablo Picasso, La Chèvre, 1950, 2023, Musée National Picasso-Paris, foto © Maxime Champion.


LO: Costruire una mostra riferita a Picasso, anche avendo carta bianca, è complesso, è così immenso, così ingombrante… In (quasi totale) assenza o comunque copertura delle sue opere, imballate o velate, ci sono sue citazioni sui muri che indicano delle affinità con temi per lei ricorrenti. Sono state aggiunte a posteriori o le sono servite come linee direttive?
SC: È difficile accostare qualcosa a Picasso, non riesco a immaginare una mia foto vicino ai suoi capolavori, è troppo in tutti i sensi. Quindi ho cercato il modo di girare attorno a questa impossibilità, allestendo i piani leggendo i suoi testi, per vedere che direzione potevo prendere. Ma il mio script esisteva già.

LO: Anche qui, come al Musée de la Chasse, ci sono tantissimi animali impagliati. La tassidermia, per l’occhio contemporaneo, è al tempo stesso affascinante e respingente…
SC: Ho cominciato coi tori. Io vengo dal Sud della Francia e lì fa parte della cultura tradizionale avere delle teste di toro impagliate sui muri, non è per nulla originale, anzi è proprio basico. Poi ho trovato nel caminetto un gufo morto, perfettamente conservato. E poi via via si sono aggiunti altri animali, e ho iniziato a dare a tutti loro i nomi dei miei amici.Quindi per me non c’è nulla di morboso, semplicemente vivo con degli animali che hanno dei nomi…

LO: Tra i progetti portati a termine, quali le sembrano oggi più significativi?
SC: Sono tutti importanti, perché è la mia vita. Poi alcuni lavori sono stati particolarmente rilevanti per il tempismo, perchè mi hanno aiutato a suscitare interesse, come quello per la Biennale che mi ha dato grande visibilità, altri perché mi hanno aiutato ad uscire da un mood, ma è il loro insieme che conta.

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Un dettaglio della mostra "Beau doublé, Monsieur le marquis! Sophie Calle et son invitée Serena Carone", curata da Sonia Voss al Musée de la Chasse Paris, 2017, foto Claire Dorn © CALLE/ADAG, Paris 2017, courtesy dell'artista e Perrotin.


LO: Il suo linguaggio è normalmente distaccato, con guizzi di ironia, ma nella serie dei “Parce que” (frasi, precedute ognuno dal perché esplicativo, stampate su ritagli di tessuto che vanno sollevati per scoprire l’immagine da cui sono scaturite) il linguaggio è su un altro registro, direi poetico…
SC: Il linguaggio dei “parce que” è un linguaggio poetico non descrittivo: è quello che penso nella mia testa prima di scattare, è il motivo per cui scatto, qualcosa che ha a che fare con la memoria. L’altra scrittura è più strettamente documentaristica. In comune i due aspetti del mio stile hanno la concisione, l’economia della scrittura, perché la gente mi legge stando in piedi davanti a un muro.

LO: “Ma mère, mon chat, mon père, dans cet ordre”, “J’ai rencontré des gens qui sont nés aveugles”, “Douleur Exquise”… Come nascono i titoli delle sue mostre?
SC: Normalmente il titolo mi viene subito, nel caso di “Douleur exquise” è un termine tecnico del linguaggio medicale: il punto esatto dove fa male. È splendido, ma non è una mia invenzione.

 "Non avrei potuto fare quello che ho fatto se fossi stata un uomo: non avrei potuto seguire qualcuno senza metterlo in allarme o chiedere a delle ragazze di dormire nel mio letto". Sophie Calle

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Un dettaglio della mostra "Beau doublé, Monsieur le marquis! Sophie Calle et son invitée Serena Carone", curata da Sonia Voss al Musée de la Chasse Paris, 2017, foto Claire Dorn © CALLE/ADAG, Paris 2017, courtesy dell'artista e Perrotin.


LO: Molta della sua arte è relazionale, sia in modo esplicito e consensuale, sia coinvolgendo qualcuno a sua insaputa, come in “Suite Venitienne” o “L’Hotel”. In tutto questo che ruolo gioca il caso?
SC: Prima viene sempre la regola del gioco: ne stabilisco tutte le volte di molto precise, molto cogenti, “farò esattamente questo”, poi c’è l’intervento del caso. Per esempio, quando ho avuto l’idea di chiedere a un cieco cosa fosse la bellezza per lui, ho esitato tantissimo prima di partire col progetto, perché la domanda mi sembrava crudele. Poi dopo due anni mi sono imbattuta in un cieco che mi ha dato una risposta così perfetta che l’ho interpretata come un’autorizzazione a procedere: “il mare va così lontano che lo perdi di vista”.

LO: Essere un’artista donna è stato un elemento determinante nelle sue scelte? E l’ha eventualmente penalizzata?
SC: Direi piuttosto che non avrei potuto fare quello che ho fatto se fossi stata un uomo: non avrei potuto seguire per strada qualcuno senza metterlo in allarme o chiedere a delle ragazze di dormire nel mio letto, quindi mi ha aiutato.  E penso anche che lavorare sulle mie paure, su quello che mi mancava, sulla mia fragilità e i miei fallimenti, sia stato più facile da donna.

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Autoritratto di Pablo Picasso, 1901 e il libro della Série Noire cui Calle si è ispirata per il titolo della mostra.

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