Looking for paradise: Michelangelo Pistoletto si racconta, tra Pop Art e Arte Povera
Per celebrare i novant'anni del maestro di due movimenti cardini del '900 come Pop Art e Arte Povera, Galleria Continua espone le sue opere in contemporanea nelle varie sedi internazionali. Mentre la colossale "Venere degli Stracci", andata a fuoco a Napoli, verrà ricostruita. Michelangelo Pistoletto si racconta.
Michelangelo Pistoletto ha indagato lo spazio e il tempo, cercando di catturare nelle sue opere la realtà così come appare. La critica è unanime nel conferirgli un ruolo di primo piano nei due grandi movimenti di cui ha fatto parte, la Pop Art prima e l’Arte Povera poi. Per i suoi 90 anni - nacque il 25 giugno 1933 a Biella - gli sono state dedicate mostre in giro per l’Italia e per il mondo. Una personale è in mostra fino al 15 ottobre nel Chiostro del Bramante a Roma. Galleria Continua espone le sue opere contemporaneamente a San Gimignano, Parigi, L’Avana e Les Moulins. Una “Venere degli Stracci” colossale è stata esposta a Napoli, in Piazza Municipio. Andata bruciata, verrà ricreata e nuovamente resa visibile a tutti.
L’OFFICIEL ITALIA: Com’è iniziato tutto? Si ricorda quando per la prima volta ha scarabocchiato qualcosa, preso in mano una matita o un pennello?
MICHELANGELO PISTOLETTO: Non ho memoria di un momento preciso, però mia figlia ha da poco ritrovato alcuni disegni e un quaderno di quand’ero bambino in una stanza dimenticata. In un disegno mi sono rappresentato mentre scolpivo un’enorme statua (otto o dieci volte più grande di me) con un piccolo, singolare, strumento: una zappetta.
LO: Si vedeva già come un artista capace di grandi opere…
MP: Non credo. La cosa curiosa è però che, non ricordandomi assolutamente di questo disegno, all’inizio degli anni ‘80 mi misi a scolpire delle enormi opere non con un martello, non con altri strumenti, bensì proprio con una zappetta. È stato davvero singolare ritrovare quel disegno.
LO: Dove ha imparato l’amore per l’arte?
MP: Mio padre era un pittore e aveva una bottega di restauro di opere antiche all’età di quattordici anni andai a lavorare con lui. Da lui ho imparato a dipingere, la conoscenza dei materiali e la storia dell’arte.
LO: La sua arte però non è per niente convenzionale, o perlomeno non lo era quando ha iniziato a sperimentare negli anni ‘50.
MP: Mio padre era contrario all’arte moderna, mia madre invece un giorno tornò a casa e ci disse che mi aveva iscritto a una scuola di pubblicità, vedendo che la scuola da geometra e la bottega di mio padre mi stavano strette.
LO: Quale scuola?
MP: La scuola di pubblicità di Armando Testa – che ideò grafiche e slogan per Pirelli e Lavazza -, dove in sei mesi scoprii l’arte moderna e contemporanea.
LO: Cosa la colpì?
MP: La totale libertà individuale nel comporre qualsiasi forma e segno. Feci mia quella libertà, iniziando una pratica artistica slegata da qualsiasi esperienza precedente. Il passato che avevo studiato con mio padre però mi tornò utile immediatamente.
LO: Come?
MP: Come ogni artista nella storia, mi sono cimentato nell’autoritratto. Ma non mi sono accontentato di trasporre la mia immagine dallo specchio alla tela. Ho trasposto direttamente lo specchio sulla tela. E quindi unendo la mia immagine (poi diventata dipinta), ho coniugato il sistema tradizionale del rappresentare - attraverso l’autoritratto -, con la rappresentazione di tutto ciò che esiste - attraverso lo specchio. Questo è il passaggio fondamentale che ha aperto la strada alla ricerca che sta alla base delle mie opere.
LO: Come nascono le sue opere?
MP: A seguito di un’intuizione, poi si tratta di trasformare questa in realtà. Ci può essere una riflessione più o meno lunga, ci possono essere dei passaggi sperimentali. Per esempio io per arrivare ai “Quadri Specchianti” ho impiegato una decina d’anni.
LO: In che modo?
MP: Attraverso l’eliminazione via via del fondale che sta dietro alla figura, che nella pittura “tradizionale” può essere un ambiente o un paesaggio, fino ad arrivare ad un fondo monocromo. Prima oro, poi argento, rame, poi ancora colorato con vernici industriali, che mi permisero di trasformare il fondale in superficie iper-riflettente. L’ oro - ieratico, si pensi all’uso che ne facevano gli egizi -, dona senso di immensità ed era un chiaro riferimento alle icone bizantine che restauravo con mio padre.
LO: E cosa la portò dall’oro all’acciaio inossidabile?
MP: Come l’oro era durevole. Ma non fu tanto questa caratteristica ad interessarmi, quanto il fatto che l’acciaio lucidato sia incolore. Quindi non ha immagine propria. Questa totale assenza di immagine ha permesso a tutto l’esistente di entrare nel quadro con la propria immagine.
LO: E non ci sono limiti…
MP: No, non ci sono limiti né di tempo né di spazio.
LO: Questo per lei è un passaggio fondamentale?
MP: Sì, ma credo non lo sia stato solo per me. Credo lo sia per la pittura in generale.
LO: I “Quadri specchianti” l’hanno portata negli anni ’60 alla fama internazionale, era esposto, unico italiano, con Jasper Johns, Robert Rauschenberg, Andy Warhol, Roy Lichtenstein, inquadrato come figura di spicco della Pop Art.
MP: La Pop Art è stata una connessione esatta e significativa per il mio lavoro. Non rinnego assolutamente quell’esperienza, anzi ne riconosco il massimo peso. C’era però una differenza fondamentale tra me e gli altri artisti della Pop Art.
LO: Quale?
MP: Partiamo da cosa ci univa. Io sono partito da una concezione di universalità e immortalità dell’arte, legata alla vita, diciamo fin dai primordi, arrivando all’oggettività più totale del quadro specchiante. Quindi non c’è soggettività, non trasporto nell’opera le mie emozioni, la mia denuncia. È l’esistente, auto rappresentandosi nello specchio, che mi aiuta semmai a comprendere me stesso. Non si trova più la spontaneità dell’artista – l’opera personalistica dell’Action Painting o dell’Espressionismo Astratto - ma una concezione universale e oggettiva dell’esistenza.
LO: Ma per gli americani il sistema universale era quello fondato sul sistema economico capitalista. Jasper Johns alla Biennale di Venezia del 1958 presentò un’opera che ritraeva la bandiera a stelle e strisce mentre Warhol dipingeva Marilyn e la Campbell Soup…
MP: Si, l’universalità coincideva col sistema consumistico americano, al di fuori di quello per loro vi era il nulla. Ci si calava in un’oggettività data dal sistema economico, ritenuto allora il più avanzato. Quando Leo Castelli (ndr. gallerista che insieme alla moglie Ileana Sonnabend rappresentò prima gli espressionisti come Pollock, de Kooning, Cy Twombly, e poi i più importanti artisti della Pop Art come Warhol, Rosenquist, Flavin, Lichtenstein, Jasper Johns, Rauschenberg e con loro Pistoletto) mi disse che dovevo rinunciare a essere un artista europeo, io dissi che al contrario rinunciavo ad essere un rappresentante di quel sistema.
LO: La sua fu una risposta artistica?
MP: Si, per parecchi mesi tra il 1964 e il 1965 lavorai a un gruppo di opere che denominai “Oggetti in meno”. Ogni opera era diversa dall’altra, per materiali, proporzioni, in tutti i sensi. Ognuna di queste opere poteva essere l’opera di un artista diverso. In questo modo era impossibile identificarmi come artista e mi tolsi di dosso il marchio di “artista dei quadri specchianti”.
LO: Come nacquero quelle opere?
MP: In quel caso fu una traduzione immediata dal “possibile” all’“essere”, senza pensare a nessuna mediazione convenzionale. Così trovai la mia vera identità.
LO: Si potrebbe dire che con quelle opere lei abbia influenzato il successivo movimento definito da Celant “Arte Povera”, di cui lei stesso fece parte. È mai stato influenzato dal lavoro di altri artisti?
MP: Non posso dire di essere stato influenzato da altri artisti o di averne influenzati io. È nello scambio di pareri e opinioni che ci si influenza a vicenda.
LO: Ha mai acquistato opere di altri artisti?
MP: Si, soprattuto opere che ritenevo fossero pertinenti con la mia esperienza artistica. In alcuni casi poi, ero così felice che si fossero concretizzate, tanto da sentirle mie, che le comprai.
LO: Di quali artisti?
MP: In particolare quelli di Arte Povera. Anselmo, Penone, Merz, Paolini, Fabro e molti altri.
LO: Per i suoi novant’anni Galleria Continua ha deciso di portare le sue opere in giro per il mondo.
MP: Con Galleria Continua stiamo facendo una serie di mostre nelle varie sedi che ha sparse per i diversi continenti. Invece di fare un’unica grande mostra dove tante opere sono radunate insieme, queste opere sono, seppur separate da grandi distanze, idealmente insieme, dato che sono esposte contemporaneamente.
LO: In Italia i suoi novant’anni sono stati celebrati oltre che dalla mostra al Chiostro del Bramante a Roma anche con l’installazione di una colossale “Venere degli stracci” a Napoli. Perché tra tutte le città italiane proprio Napoli le ha fatto questo regalo?
MP: Di Napoli non è riconosciuta la forte dimensione artistica che accoglie al suo interno. Ha una storia straordinaria, nei suoi musei e nelle sue chiese sono racchiuse opere importantissime. E persino nella metropolitana, dove in ben due stazioni sono presenti mie opere. Con “Lo Zoo” – gruppo costituito da artisti provenienti da diverse discipline (musica, letteratura, teatro, arti visive) insieme alle quali, tra il 1968 e il 1970, Pistoletto realizza una serie di spettacoli in Italia e in Europa - negli anni ’60 vi ho fatto parecchie performances. È una città vivissima e per me è come casa.
LO: E perché è stato scelto di ricreare proprio la “Venere degli stracci”, forse la sua opera più famosa?
MP: Napoli è un porto aperto verso il mediterraneo, verso le rive di un mediterraneo "insozzato", lui così bello, dalla tragedia delle morti dei migranti che cercano di attraversarlo, ma anche dai prodotti del consumismo che gli stracci rappresentano. Il posto giusto per una “Venere degli stracci”...
LO: Ma che cosa rappresenta quest’opera?
MP: La figura di Venere attraversa tutta la storia, dai greci e i romani fino a noi, rappresentando un concetto di bellezza senza tempo. Quest’opera trova il suo senso nel rapporto con gli stracci ammassati. E nella forza rigeneratrice che imprime su di essi, dopo essere stati “abbracciati” dalla sua bellezza.
LO: Lei è considerato, giustamente, uno dei più importanti artisti del ‘900 e del nuovo millennio. Sue opere sono esposte al Centre Pompidou di Parigi, alla Tate Modern di Londra, al Reina Sofía di Madrid, al Guggenheim di New York, e sempre nella grande mela al MoMA e al Metropolitan. Sente il peso del suo ruolo?
MP: Non sento nessun peso, non credo di star trasportando nulla. Attraverso la mia pratica artistica sono arrivato a creare una formula che può essere d’aiuto agli altri…
LO: Quale formula?
MP: Si tratta della formula della creazione, un infinito che si allarga e comprende tutta la realtà. Tutti adesso sanno come si può ricreare. Non è solo l’artista a poter creare, siamo tutti chiamati a farlo e soprattutto non dobbiamo aspettare che qualcuno lo faccia al nostro posto, in quel caso acconsentiremmo a un sistema gerarchico verso il quale sono fortemente contrario. È il concetto di demo-praxia, una pratica comune, di tutti, per costruire una società pacifica e democratica, il cosiddetto Terzo Paradiso.