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Cosa significa vestire 'Emotional dressing' per Nino Cerruti e Kim Jones

Il padre del menswear Nino Cerruti e una delle star della moda contemporanea, Kim Jones, anima dell'uomo di Dior, sono maestri nel loro mestiere: mixano sartorialità e tradizione con innovazione e ingegnosità.

A sinistra un ritratto di Kim Jones, a destra un ritratto di Nino Cerruti
A sinistra: Kim Jones al fashion show Dior Men Spring/Summer 2020. A destra: Nino Cerruti, in uno scatto dal suo archivio personale.

«Per costruire un futuro, dobbiamo rispettare il passato senza restare impigliati nei ricordi». Nino Cerruti pronuncia queste parole in un perfetto francese che solo a tratti rivela il suo essere italiano ed è la personificazione dell’eleganza del suo lavoro. Oggi, a 90 anni, con occhio sagace e mente acuta rappresenta l’eccellenza del lusso che regna nella sua azienda. Profondamente ancorato alle sue radici, prende in mano il lanificio di famiglia fondato dal nonno a Biella e, nel 1967, sbarca a Parigi per lanciare la sua collezione moda. È il pioniere non solo della giacca destrutturata, ma anche del design fluido, a cavallo tra collezioni uomo e donna. «Non mi piace usare la moda per scopi politici, ma per creare joie de vivre. La moda fa sentire la gente bene con se stessa, ha questo potere». Kim Jones, inglese e nuovo virtuoso della moda internazionale, sostiene una visione stravagante ma indossabile che va al di là dei generi prestabiliti, portando su tutto una ventata di customizzazione del lusso. Gran viaggiatore, Jones è un noto connoisseur dello streetstyle, di continuo ispirato dalla scena underground dello streetwear e dall’energia di quella musica, attraverso cui reimmagina il tailoring e l’idea di guardaroba moderno. Ripensa alla sua infanzia, al nomadismo del padre idrogeologo e al loro continuo spostarsi che l’ha portato dall’America Latina all’Africa prima si stabilirsi a Londra. Oggi, a 47 anni, ha una doppia carica senza precedenti, ricoprendo allo stesso tempo il ruolo di direttore creativo della linea uomo di Dior a Parigi e del womenswear di Fendi a Roma.Tutto sembra distanziare questi due designer, salvo per una passione in comune: il completo da uomo. Il saper fare del tailoring, trasmesso di generazione in generazione, richiede attenzione assoluta anche ai minimi dettagli, con rifiniture incredibili, quasi impercettibili all’occhio umano prima di trasformarsi in definitiva perfezione sartoriale.

Ritratto di Nino Cerruti fotografato da Jonathan Frantini.

PAMELA GOLBIN: Adolf Loos, il padre dell’architettura modernista, era appassionato del suit e considerava gli abiti bespoke come archetipi del design progressista. Cosa significa per voi il completo?

NINO CERRUTI: È una faccenda complicata, per me ha un’anima. Lo stesso abito trasmette un mood differente a seconda di chi lo indossa. Potresti scrivere una storia infinita sulla psicologia del vestire. La mia famiglia tratta di stoffe dall’inizio del XIX secolo e io ne ho preso le redini poco dopo che avevo iniziato a disegnare. Da allora, c’è stata un’evoluzione verso un abbigliamento più comodo, un cambio che corrisponde alle mutazioni dei nostri stili di vita e dei nostri comportamenti sociali. È molto interessante vedere come il guardaroba maschile stia diventando sempre più simile a quello femminile.

KIM JONES: Ho sempre guardato al womenswear come fonte di ispirazione per le collezioni uomo, perciò ne sono sempre stato consapevole. Credo di avere molte più amiche donne che uomini.

PG: Avete un’ampia collezione nel vostro guardaroba personale?

NC: Ho sempre scelto i miei abiti con grande cura. Mi hanno accompagnato in quel viaggio che è la vita, ecco perché non potrei mai separarmene. È come avere un album di tutti i momenti importanti, con il beneficio che tracciano un’evoluzione della moda maschile a partire dagli anni ’50.

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A sinistra: il savoir faire della maison Dior fotografato da Sophie Carre. A destra: un tuxedo tailor made di Dior fotografato da Pol Baril.

PG: Parlando dell ’importanza dei tessuti, Alexander McQueen diceva che: «L’idea è di usare un materiale per trasformare il corpo umano».

KJ:  [McQueenera un amico e un mentore e l’ho visto mentre tagliava e drappeggiava. Per me il tessuto è sempre stato lo starting point della collezione. Quando un uomo compra un vestito, innanzitutto tocca il tessuto prima di indossarlo. Mi piace lavorare nel settore del menswear di lusso perché posso usare meravigliosi tessuti artigianali. A seconda del materiale, il tailoring può diventare molto fluido. Da Dior stiamo lavorando sul drappeggio e su delle tecniche interessanti per creare un diverso tipo di indumento, da indossare non solo nelle occasioni formali, ma anche con un mood leggermente più sportivo, che è tipico italiano e, nel qui e adesso, più rilevante».

PG: Come direttore creativo della linea uomo di Dior, stai lanciando una capsule collection dedicata a un tailoring moderno.

KJ: Si stiamo guardando al sartoriale con un’ottica diversa rispetto al formalwear più ovvio. Volevamo una silhouette più destrutturata, che per me è più moderna. Volevamo creare dei pezzi capaci di parlare alle generazioni più giovani che vogliono vestirsi meglio ma non sanno come. La collezione ha in sé quella rilassatezza dello sportswear americano, ma anche l’essenza italiana del tailoring. Sugli altri fronti, poi, stiamo continuando la ricerca su come migliorare la sostenibilità del nostro lavoro.

Non mi piace essere nostalgico. Mi piace guardare sempre avanti
- KIM JONES

La linea uomo di Dior in una foto di Brett Lloyd.

PG: Signor Cerruti a lei hanno attribuito l’invenzione della giacca decostruita, com’è andata?

NC: Il grande cambiamento era arrivato progressivamente, partiva dal desiderio di un guardaroba più rilassato. Negli anni ’60 i jeans divennero gli antagonisti assoluti del mondo sartoriale. Oggi la moda sta rivisitando una interpretazione moderna dei bisogni contemporanei.

KJ: Della giacca decostruita mi interessano la facilità e la fluidità d’uso, oltre al fatto che i capi diventano più leggeri. Penso rappresenti un modo più semplice di vivere e con cui puoi comunque apparire molto formale e smart, una cosa che amo... Quando studiavo, per me era importante imparare a tagliare bene il modello della giacca, così avrei potuto mixare il tutto in modo moderno.

PG: Una parte importante del DNA di Christian Dior è la giacca Bar, che sintetizza la silhouette del New Look dal 1947. Quanto ha influito sulle collezioni uomo?

KJ: Volevo rispettare il fondatore della maison e guardare alle sue ispirazioni. È stimolante perché Dior ha codificato una modernità che è ancora fresca oggi. Della Bar abbiamo preso il bottone, foderato e cucito a mano. Abbiamo anche visto diverse fodere e studiato la sua costruzione per poi creare la versione maschile. L’Oblique Suit, una giacca doppiopetto a un solo bottone ha preso direttamente spunto da un doppio petto a più bottoni da donna del 1948. Ci piaceva l’idea di semplificare e di ottimizzare il modello per il XXI secolo. Guardo molto ai tessuti d’epoca perché la qualità era molto migliore, dopo di che li facciamo rifare, perché sono molto puntiglioso sui dettagli. A livello di produzione, l’Italia è il miglior posto al mondo e dove compriamo gran parte dei nostri tessuti, tranne qualche volta in Giappone. Badiamo anche alla tecnologia dei tessuti, perché così il risultato sarà più morbido, leggero, facile e più resistente, oltre ad aggiungere un livello di dettaglio in più all’indumento.

Una immagine di backstage della linea uomo Dior S/S 19 foto di Morgan O'Donovan.

PG: Lavori spesso con gli archivi. Ti piace guardare al passato?

KJ: Sì, uso gli archivi ma non mi piace essere nostalgico, voglio andare avanti.

PG: Dopo un anno passato su Zoom, come saranno i suit post-pandemici?

NC: Riscopriremo presto un nuovo piacere in ciò che indossiamo.

KJ: Sono completamente d’accordo, credo che la gente avrà più voglia di vestirsi elegante, di esprimersi perché è stata rinchiusa per così tanto tempo. Lo capisco da ciò che i nostri clienti comprano e anche da quello di cui parlano i miei amici. Non vediamo l’ora di prenderci delle cose belle e nuove da indossare, di sentire che davvero ci stiamo divertendo. Del resto la maison Dior è stata fondata proprio dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. La pandemia non è una guerra, ma di sicuro ha imposto delle restrizioni. La libertà è un tale privilegio che dobbiamo esprimere di più. Penso che tutti abbiamo questo spirito ottimista addosso.

PG: Che differenze tecniche e culturali ci sono tra gli abiti inglesi, francesi e italiani?


NC: Credo che un abito su misura sia sempre un po’ diverso non solo da una nazione all’altra, ma anche da un sarto all’altro, perché è il culmine dell’artigianalità fatta a mano, è l’equivalente della firma di una persona.

KJ: Se pensiamo a Londra e a Savile Row, l’abito è molto costruito. L’Italia è la nonchalance del saper fare e dell’artigianalità, mentre in Francia è tutto più rigido. Amo tantissimo quella rilassatezza tipica italiana che però è anche super chic. L’Inghilterra è il vestire nel modo più appropriato, da English gentleman, per intenderci. La Francia è un mix di tutti e due. Se penso al menswear, penso più all’Italia e a Londra, piuttosto che a Parigi, perché per me Parigi è la couture. Da Dior guardo tantissimo alle tecniche e alle decorazioni e mi piace lavorare in giro per il mondo per vedere come le diverse persone reagiscono e si avvicinano alle cose. Trovo spettacolare la qualità degli artigiani italiani e la velocità con cui riescono a fare le cose, sono fenomenali, mi fanno impazzire.

Non basta quello che indossi, è come lo indossi. Ci vuole un istinto naturale, devi essere te stesso e reinterpretare le regole a modo tuo.

- Nino Cerruti

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A sinistra: Cerruti in una foto di archivio. A destra: un cappotto Cerruti realizzato per un film.

PG: Lavorare con i celebri atelier di Dior quanto ha arricchito il tuo processo creativo?

KJ: È un altro modo di lavorare. Un atelier ti presenta cinque soluzioni diverse per il dettaglio di una tasca, mentre in una fabbrica fanno esattamente quello che gli hai chiesto di fare. Mi piace molto il fatto di risolvere insieme dei problemi, per questo lavoro e collaboro sempre con persone diverse.

PG: Come concili le stravaganze creative con la portabilità degli abiti?

KJ: Per ciascuna delle maison per cui lavoro il mio obiettivo è che ogni pezzo sia poi vendibile. Alla fine, mi interessa di più che la gente compri i miei vestiti, piuttosto che il giudizio dei critici. Sono fortunato, perché riesco ad avere un buon equilibrio tra creatività e vendita. Mi piace vedere qualcuno che indossa un vestito che io ho disegnato, perché so che ci si sentono bene dentro. Credo che questo sia un aspetto importante quando lavori nella moda.

PG: Signor Cerruti, lei è stato molto ispirato dalle ricerche sul comportamento dei consumatori di Ernest Dichter, giusto?

NC: Mi interessava il suo lavoro perché era stato uno dei primi ad analizzare le motivazioni e le ragioni alla base del comportamento del consumatore. Per me era affascinante perché sono sempre stato interessato all’aspetto sociologico della moda. Il suo lavoro ha avuto un ruolo importante in quel senso e ha spiegato non solo le motivazioni che spingono alla produzione di abiti, ma anche i bisogni del mercato da uomo e da donna. Credo sia un altro modo di intendere i vestiti e la loro rappresentazione. I vestiti riflettono la realtà della vita, che è il motivo per cui, fin dalla mia prima collezione, ho voluto presentare insieme le collezioni uomo e donna. I cambiamenti oggi sono molto più veloci di prima, c’è una fluidità tra generi che continuerà ad accelerare nella prossima decade.

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In alto: le immagini della campagna Cerruti fotografata da Paolo Roversi, dal libro "Images Cerruti. Paolo Roversi". In basso: una installazione di Nino Cerruti del 2016.

PG: Sono oltre 150 le sue collaborazioni tra film e incredibili consulenze di stile a diverse star di Hollywood e premi Oscar. Quanto è diverso il modo di creare un abito per il cinema o per le sue collezioni?

NC: Nel mio lavoro c’è sempre stata l’impronta della mia vita personale. Ero appassionato di cinema, ma il mio era anche il modo di diffondere il mio messaggio di moda al di fuori delle tradizionali situazioni in cui gli abiti venivano venduti. All’epoca, il cinema era una parte molto più importante delle nostre vite, rispetto a oggi. La mia prima sfilata si tenne a Roma nel 1958 e chiesi di indossare i miei abiti alla meravigliosa Anita Ekberg, la star dell’epoca. Aveva appena finito di girare La dolce vitadi Fellini e da lì è nato tutto. Non ho mai imposto a nessuno di indossare un pezzo delle mie collezioni, preferivo disegnare l’abito per ogni personaggio specifico per completare al meglio il suo ruolo. Molti attori prima sono stati miei clienti nella boutique di Parigi e poi li ho vestiti nei film. A quel tempo c’era mag- giore separazione tra i diversi ambiti creativi e io volevo metterli insieme. Moda, arte, cinema – collaborazioni tra campi che oggi sono la norma, ma non è sempre stato così.

NC: Kim, so che tu sei amico di Kate Moss. È stata la protagonista di molte mie campagne e abbiamo sempre lavorato molto bene insieme, anche se a volte ha un carattere difficile. Ho dei ricordi bellissimi dei nostri shooting nel Sud della Francia con Paolo Roversi. Che stile che aveva!

KJ: Glielo dirò!

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Alcune giacche di Cerruti realizzate per dei film.

PG: Lei ha cresciuto molti importanti designer da Giorgio ArmaniVéronique Nichanian da Hermès, a Stefano Pilati.

NC: Ho avuto il grande privilegio nella mia vita non solo di lavorare così a lungo, ma anche di condividere la mia passione con altri. Non dobbiamo dimenticare la nobiltà dei tessuti e della moda, c’è così tanta conoscenza che viene dall’esperienza e che deve essere trasmessa. La moda è un mondo meraviglioso che offre molto e che può dare grandi soddisfazioni.

KJ: Si, penso che la moda sia una comunità di persone e il Signor Cerruti ha ragione, è un’industria meravigliosa. Così tante persone sono state generose con me e Stefano Pilati è uno dei miei designer preferiti. Anche se la moda è diventata un gigantesco generatore economico a livello globale, è fantastico poter lavorare con persone che ammiri, ami e da cui puoi imparare. Quando vedo dei giovani stilisti di talento, spero che abbiano successo e li aiuto in tutti i modi, per restituire quello che io ho ricevuto.

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Un look della linea uomo di Dior Pre-Fall 2020; un look della collezione uomo Dior Spring/Summer 2020; uno della linea uomo Dior Fall/Winter 2020; e un look della linea maschile Dior Pre-Fall 2021.

PG: Che consiglio avresti voluto ricevere da giovane, quando stavi iniziando?

KJ: Imparare dai propri sbagli a volte è utile perché puoi condividere l’esperienza con altre persone a aiutarle, però penso a quel “Credi in te stesso” che Louise Wilson (celebre docente di moda alla Central Saint Martins) mi ripeteva sempre. Non fare paragoni, impara il tuo mestiere e vai avanti con ciò che fai.

PG: Signor Cerruti, qual è stato il cambiamento più sorprendente a cui ha assistito da quando ha iniziato 70 anni fa? 

NC: Direi la scalata e l’incredibile successo della moda. Era una cosa piccola quando ho iniziato, rispetto all’industria globale di oggi. Credo che nel mondo contemporaneo dobbiamo preservare la nostra emozione. Per me la moda è emozione. Amo l’emozione, la logica è affascinante, ma a volte un po’ fa paura.

PG: Qual è il posto dell’eleganza?

NC: Eleganza è una parola che mi dà sui nervi perché la gente la usa in modo molto artificiale. La si può apprendere, ma devi avere una disposizione naturale. Non basta quello che indossi, è come lo indossi, e lì ci vuole un istinto naturale. Devi essere te stesso e reinterpretare le regole a modo tuo.

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