Now Dress Code
Dopo l’impollinazione del mondo formale da parte dello streetwear avvenuta negli ultimi anni viene spontaneo chiedersi: esiste ancora il concetto di dress code? Cosa significa eleganza oggi? Il maschio del futuro si ve- stirà in tuta o in completo? Gli accessori che ruolo hanno? Lontano da voler pro- porre un manuale del gusto e dell’eleganza dedicato all’uomo contemporaneo in stile Hardy Amies, questo portfolio è una riflessione su come si è evoluto il guardaroba dell’uomo di oggi attraverso il racconto di chi la nuova moda la sta facendo.
Ahluwalia - Street tailoring
Priya Ahluwalia ha lanciato il suo marchio nel 2018, subito dopo il master in abbigliamento maschile presso l’Università di Westminster. Diventata da subito una delle star della fashion week di Londra, è stata chiamata da adidas per una collab durante la Paris Fashion Week F/W 2019, ed è tra le vincitrici del premio LVMH 2020. LʼOfficiel
Chi è l’uomo Ahluwalia?
Non credo esista una persona che incarni il marchio, o alme- no non l’ho ancora incontrata. Se proprio devo, direi ASAP Rocky. Nell’abbigliamento maschile ci sono regole non dette, voglio oltrepassare i limiti convenzionali e convincere gli uomini a indossare un po’ di colore, a lasciarsi andare.
Nel tuo stile ci sono influenze sport e street. Qual è la direzione del menswear oggi?
La mia ultima collezione è stata in- fluenzata dalla musica caraibica, in parti- colare dalla musica giamaicana anni ’60. E poi l’arte: ho inserito macro motivi che rendono omaggio alle onde delle opere di Barbara Browns e che si ritrovano inseriti su piumini e completi in denim. Per quello che riguarda il mondo active, ci sono tessuti delle tute adidas vintage, inseriti nei pantaloni. C’è un tocco sartoriale, un unicum culturale e la vibe della strada. Credo che il legame con la cultura street sia fondamentale; soprattutto per le generazioni più giovani che ci s’identificano.
Sei nota per il tuo credo sostenibile.
Non mi sento una guru della sostenibilità ma cerco di informarmi e fare la mia parte. Utilizzo tessuti di stagioni passate o vintage dandogli un twist nuovo. La verità è che per far sì che la sostenibilità sia alla portati di tutti ci vorrebbe l’impegno dei grossi brand nel scegliere tessuti certifica- ti sostenibili e di conseguenza il prezzo di mercato, che è più alto, scenderebbe.
In che modo il tuo background multiculturale ti ha influenzata?
Nel mio brand ho messo tutto quello che sono. Mi associo alla vivacità dell’uo- mo del Lagos, e poi all’artigianato indiano. Ad esempio, uso sempre l’arancione bruciato, perché mi ricorda il colore della sabbia della Nigeria, e adoro i metodi di tintura, perline e ricamo indiani.
Quale contributo hai dato come designer alle tematiche sociali del momento?
Sono sempre stata interessata alla politica e alla sociologia, collego le mie collezioni a cause sociali e enti di beneficenza, per esempio, il mio libro, “Jalebi”, era una celebrazione della diversità e tutti i profitti delle vendite sono andati a Stephen Lawrence Charitable Trust e Southall Black Sisters. Il libro è un ritratto per immagini di cosa significhi vivere nel quartiere di Southall nella Londra di oggi (chiamato Little India, ndr): un mix di templi sikh, cibo punjabi, musica che risuona dagli altoparlanti in strada, dove si sono trasferite anche comunità africane e caraibiche. In un momento così difficile, tra la pandemia, la Brexit e Black Lives Matter mi sembrava importante parlare della tematica delle differenze come punto di forza. Nella S/S 2021 intitolata “Liberation”, nata da una collaborazione con il graphic designer britannico Dennis McInnes, nato a Lagos, l’ispirazione sono stati i poster, le notizie e le fotografie dalle proteste degli anni ʼ60 in Nigeria.
Rombaut - sneakers
Realizzate artigianalmente tra l’Italia e il Portogallo, ma rifinite a mano a Parigi, le scarpe Rombaut rappresentano un crossover tra il design concettuale di alta moda e la responsabilità ambientale. L’idea di fondare un marchio di accessori vegani, dall’estetica futurista e dal forte contenuto etico, è del designer belga Mats Rombaut. Nel 2015, dopo esperienze maturate da Lanvin e Damir Doma, Mats decide di fondare il suo brand, sapendo cosa cerca l’uomo contemporeano in un accessorio come la scarpa: comfort e cool-factor.
Come definiresti lo stile Rombaut?
Futurista e versatile.
Qual è la direzione del menswear oggi?
Sta andando in tutte le direzioni, ma possiamo vedere che cʼè bisogno di materiali più avvolgenti. Abiti comodi da indossare nel tuo ambiente familiare, che ti facciano stare bene. Penso che le persone abbiano capito l’importanza di investire su pezzi chiave, che durano nel tempo, lasciandosi alle spalle il fast fashion.
Qual è il dress-code dell’uomo contemporaneo?
Penso che il comfort sia molto importante. Come avere pezzi chiave, che siano adatti a diverse occasioni: al lavoro, allo stare in casa o per uscire in città. Qualità più che quantità.
Cosa rende speciali le calzature Rombaut?
Credo che il design sia una componente molto importante: il nostro è un mix di influenze tecno, in cui si affacciano le visioni di mondi lontani e alieni. E poi l’uso consapevole di materiali non inquinanti: utilizziamo sintetici a base biologica, che sono più sostenibili della pelle convenzionale. E, oltre a non uccidere animali per le nostre scarpe, stiamo contribuendo alla ricerca di alternative, che abbiano emissioni inferiori di carbonio. Con lʼEuropa che punta allʼobiettivo zero emissioni per il 2050, siamo felici di lavorare in questa direzione.
Cosa ti ha portato a fare scarpe vegane?
La moda è intrinsecamente non sostenibile; non è possibile esserlo completamente in questo momento, è ancora un territorio molto complesso. Quello che si può fare è cercare di avere meno impatto possibile sull’ambiente e pensare al nostro futuro sul pianeta. La sostenibilità è lʼunica strada da percorrere, ma molti marchi stanno usando questa parola, etichetta e definizione per vendere di più. È triste e penso l’uso di parole come “organico”, “biodegradabile”, “ecologico” andrebbe spiegato e regolamentato. Queste parole hanno perso molto del loro significato oggi e il cliente è (comprensibilmente) confuso. Noi come Rombaut ci impegniamo da sette anni a essere un brand responsabile, molto prima che diventasse una “tendenza”. Volevo fare scarpe vegane, prima di tutto perché volevo ridurre le emissioni di gas serra, che contribuiscono al riscaldamento globale. La natura va rispettata. In seguito mi sono reso conto che gli animali sono esseri senzienti e ho deciso di diventare vegano io stesso e di combattere ancora più duramente, perché il mio brand rispettasse tutti i valori in cui credo.
Stefan Cooke - Bags
Dopo essersi laureato alla Central Saint Martins, ed essersi formato da Walter van Beirendonck e John Galliano, Stefan Cooke nel 2018 si aggiudica lʼH&M Design Award e l’anno successivo fonda il suo omonimo brand con il partner Jake Burt. Il suo menswear si definisce anche attraverso gli accessori, come i crossover di borse storiche, tra cui la Kelly di Hemès e i manici della Bugatti.
Secondo te, quali sono i codici di abbigliamento degli uomini contemporanei?
Sono tutti e nessuno! La cosa che attualmente mi piace di più è vedere uomini che indossano vecchi pezzi femminili di lusso. Spero che lʼapprezzamento per i classici articoli di lusso da donna apra le menti sullʼabbigliamento maschile contemporaneo e permetta di esplorare differenti approcci quando progettiamo i dettagli, le forme etc.
Quali sono i tuoi principali riferimenti?
Cerchiamo riferimenti ovunque possiamo, nei charity shop, nelle vendite di bauli per automobili o aste online. Compriamo tutto ciò che ci piace senza avere un’idea precisa di come lo utilizzeremo per le nostre collezioni. In questa stagione ci siamo focalizzati sui micro dettagli, abbiamo iniziato a sviluppare hardware, etichette segrete e fodere. Per ispirarci guardiamo a vecchie aziende di abbigliamento maschile di lusso.
Come è nata l'idea della tracolla realizzata con una catena di bottoni?
L'idea è nata durante la nostra stagione S/S 2019, lavoravo con i bottoni per realizzare dei vestiti. Abbiamo fatto un prototipo e ha funzionato come accessorio per la sfilata. In seguito, è stato richiesto da alcuni negozi ed è andata sold out molto velocemente. L’abbiamo abbinata ad una varietà di borse vintage e molti clienti hanno comprato solo la tracolla.
Sunnei - Urbanwear
Loris Messina e Simone Rizzo, fondatori di Sunnei, percorrendo i canali virtuali hanno conquistato uno spazio nel fashion system con un linguaggio urbanwear. Il loro nuovo headquarter, Palazzina Sunnei, spazio minimal che ospita opere dʼarte e collaborazioni firmate Ben Orkin, Block Studios, Stories of Italy e Anton Alvarez, rappresenta “lo specchio del brand: semplice ma molto diretto, multidisciplinare”.
Come funziona il vostro processo creativo?
Non avendo delle vere basi di design, abbiamo sviluppato un processo molto personale, che parte con una fase di ricerca seguita da un focus sui dettagli, che teniamo a curare in maniera quasi maniacale.
Secondo voi qual è il dress code dell’uomo contemporaneo?
Crediamo che il concetto di dress code, specialmente tra i più giovani, stia prendendo la direzione di combinazione di pezzi versatili, adatti a più occasioni.
Quanto è importante per voi trainare le tendenze del momento?
Il nostro brand è nato come realtà posta al di fuori di qualsiasi trend passeggero e dinamica classica del mondo della moda. Ciò che cerchiamo è la qualità, autenticità e bellezza senza tempo.
Che rapporto avete con il virtuale?
Sunnei è nato e ha mosso i suoi primi passi su Instagram, realtà grazie alla quale abbiamo raggiunto un pubblico internazionale sviluppando un linguaggio unico e riconoscibile. Con gli anni, il modo in cui approcciamo il virtuale è cambiato, anche in relazione alla saturazione dei canali che utilizzavamo inizialmente. Siamo quindi passati a focalizzarci su progetti cross-mediali in cui il digitale e il reale si incrociano. Lo step più recente è stato quello per il progetto Sunnei Canvas, presentato tramite degli avatar 3D. Si tratta della creazione di una linea parallela composta da pezzi continuativi in total white che una selezione di buyer poteva personalizzare.
SuperDuper - Hats
«Dall’antiquariato a un accessorio contemporaneo che può essere utilizzato ogni giorno»: è la visione di Matteo Gioli, co-fondatore insieme a Veronica e Ilaria Cornacchini della SuperDuper Hats, azienda italiana che confeziona cappelli handmade. Premiati da “Who’s on Next?” sono conosciuti in tutto il mondo per l’utilizzo di materie prime artigianali toscane di altissima qualità.
Che ruolo hanno i cappelli nel dress code dell’uomo contemporaneo?
Ai nostri occhi, per quella che è la nostra visione del cappello il rapporto è naturale e diretto. Come ogni mattina ci vestiamo, ci mettiamo anche il cappello. Allo stesso tempo sappiamo che non sempre è così “facile” per tutti. Il cappello è stato vissuto come un qualcosa di elegante o istituzionale, noi vorremmo discostarci da questo atteggiamento che gli fa perdere naturalezza. Per questo non produciamo bombette o cilindri, non vogliamo interpretare lʼaccessorio “once in a while” ma il cappello da tutti i giorni, da portare anche con felpa e sneakers.
Come funziona il vostro processo creativo?
Nel corso degli anni il nostro processo creativo è cambiato ed è cresciuto di pari passo con noi. Inizialmente abbiamo prediletto un tipo di ricerca che fosse fotografica, che partisse da una scintilla visiva. Ora invece è tutto molto più materico ed esperienziale. Abbiamo sempre di più la necessità di “pulire” quello che è il pensiero ed arrivare ad una suggestione molto più fisica prima e visiva poi.
Quali sono i vostri principali riferimenti?
Cerchiamo dei riferimenti che non siano troppo legati all’universo moda, ma di essere costruttivi e apportare visioni che non siano scontate, già viste o che poggino su quelli che sono trend commerciali del momento.
Quali sono i tratti distintivi di SuperDuper Hats?
Potrei dire lo studio delle forme, dei materiali e una malata ricerca di armonia”ma non lo farò. La verità è che abbiamo scelto di raccontare il brand tramite un simbolo, una piccola pietra naturale applicata sui cappelli. È il nostro “tag” e rappresenta l’unicità dei nostri prodotti e allo stesso tempo il nostro legame con la Terra.
Quale il futuro del menswear?
Penso che il gusto del pubblico si stia raffinando. In questo periodo così delicato spero ci sia una presa di coscienza per quello che è la qualità del prodotto. Amo profondamente il pensiero di un designer come Hiroki Nakamura e la sua missione di creare il future vintage, cioè capi che siano fatti talmente bene da durare nel tempo e diventare vintage.
Retrosuperfuture - Eyewear
Daniel Beckerman è il fondatore di Retrosuperfuture. I suoi occhiali sono indossati da Elton John, Keanu Reeves, Maluma, Kanye West, J.K. Rowling e Yoko Ono.
Cosa significa Retrosuperfuture?
Semplicemente mi piaceva l’idea di avere un brand che si chiamasse Super. Mentre retro è stato il nome di un articolo di moda che scrissi per PigMagazine. Rappresenta ciò che siamo: contaminazioni passate e future unite da una parola, Super.
Il tuo è considerato un marchio trainante dell’eyewear.
Quando iniziai a pensare di creare un brand di occhiali, percepivo la mancanza di un marchio di riferimento: c’erano tanti sporadici design e prodotti, ma mai un progetto e una linea di comunicazione consistente. Sono partito da zero, non sapevo nulla, ho iniziato a studiare la situazione e il mercato, ho trovato i produttori italiani, i distributori e ho iniziato a disegnare le prime linee...
Come vivi le imitazioni?
Avendo nel nostro DNA una forte ricerca sui trend, è ovvio che siamo esposti a reinterpretazioni. In questo momento mi sento lusingato. È successo di anticipare troppo le tendenze e i trend esplodevano alcuni anni dopo.
Avete portato avanti tantissime co-lab: Sunnei, A-Cold-Wall, Off- White, Marcelo Burlon... ti piace combinare la tua visione con quella degli altri?
Le collaborazioni sono molto divertenti e ti aiutano a espandere i tuoi orizzonti. Ti permettono di avere una finestra su altri territori di cui magari non sei esperto. Le co-lab nel mondo dell’eyewear le abbiamo introdotte noi, dieci anni fa non esistevano: la prima l’abbiamo fatta nel 2008 con Alife. È stato come scrivere le regole di un gioco.
Se potessi scegliere con chi collaborare, che nome faresti?
Mi farebbe molto piacere lavorare con Kanye West, ho iniziato con lui e sarebbe come un ritorno alle origini. È una questione personale, non di business.
Cosa mi dici della collaboration con The Andy Warhol Foundation?
Era uno di quei progetti un po’ “tricky”, il rischio era quello di cadere nel banale. Dopo un viaggio a New York, siamo riusciti a trovare negli archivi dell’artista opere spettacolari, tra cui un disegno di Warhol originale di un paio di occhiali. Abbiamo ripreso quei quattro disegni e abbiamo creato gli occhiali che l’artista non fece in tempo a realizzare. Oggi sono in vendita anche nello store del MOMA.
Hai mai pensato di estendere la linea agli accessori?
Ci penso sempre. Impariamo molto dalle nostre collaborazioni; in passato abbiamo sviluppato quella con Vans, che includeva felpe e scarpe, recentemente con Woolrich per la nostra camicia. È un marchio storico e che ha tanto da dire, reso da noi in una versione più “rough”.
Vitelli - Knitwear
Ispirato alla cultura giovanile del clubbing anni ’80 e allo stile italiano d’oggi, Vitelli è una fucina di creatività, un brand no-gender fondato da Mauro Simionato e da Giulia Bortoli, basato su musica, architettura, colore e approccio sostenibile.
Vi definite un brand luxury-freak? Cosa significa?
Fin dalle prime collezioni Vitelli prende spunto dallo stile “Cosmic” italiano (1980- 1984), un movimento pacifico e anti-ideologico cresciuto alla fine degli anni di piombo con il motto “la musica è cultura”. Uno stile che nell’estetica fricchettona ha una sua eleganza intrinseca, per questo il termine luxury-freak è quello che contraddistingue il nostro modo d’intendere la moda. Il suono “cosmic”, che poi nasceva nella famosa discoteca “Cosmic” di Lazise sul lago di Garda, è un mash-up di generi diversi, da Paesi diversi, la cui unione è unica, sofisticata e al tempo stesso accessibile a tutti. Da questo deriva anche il nostro concentrarsi su essere un brand che promuove la diversità e l’inclusione.
Street sì, street no? Immaginate un ritorno allʼeleganza?
Parlare di “fine dello streetwear” non ha senso, perché lo streetwear è cultura e non sottende solo a t-shirt e a felpe. Il concetto dʼeleganza non è estraneo allo streetwear, nemmeno al suo lato piu basic: un bomber o una “tuta” possono essere eleganti nella vera accezione del termine. Se parliamo di eleganza classica, credo che il dialogo con lo streetwear sia iniziato da tempo, ed abbia raggiunto risultati visibili. Sono entrambi i lati della stessa medaglia, come si evince dalle collaborazioni degli ultimi anni tra brand del lusso e brand street, e dal ritorno dell’abito nella youth-culture.
Il vostro core è la maglieria. Quali sono le caratteristiche che la rendono speciale?
Vitelli racconta a suo modo l’arte del fatto bene tipica del made in Italy. Ad esempio, attraverso lʼutilizzo del filo con la tecnica di agugliatura “Doomboh”, così come l’abbiamo chiamata noi, che parte dal recupero dei fondi cono del filo — che solitamente vengono buttati —, e che ci servono invece per realizzare trame che sono un ibrido tra maglia e tessuto. Cerchiamo sempre di realizzare capi evocativi, oggetti con una propria energia, capaci di trasmettere un’attitudine prima ancora che andare a formare un look. Dalla prossima collezione S/S 2021 la maglieria diventa anche strutturale su capi di sartoria, polo, abiti, trench, facendosi revers, coste o impiegata come decoro dei capi, dalla patta delle tasche fino ai dettagli di cucitura. I filati sono di recupero, così come i tessuti, il nostro è un lavoro di upcycling orientato verso una politica di zero waste, con bassissimo impatto ambientale. Lʼobiettivo è di arrivare un giorno a essere sostenibili in ogni processo.
Casablanca - Shirt
Il nome Casablanca ha una risonanza personale: è la città in cui i genitori del direttore creativo del brand franco-marocchino Charaf Tajer si sono conosciuti lavorando fianco a fianco in un atelier di abbigliamento, e il luogo dove lo stilista trascorreva le sue vacanze da bambino. Anche se l’idea non era quella di evocare un luogo specifico, bensì di suggerire un’atmosfera di avventura in luoghi e situazioni sempre diversi. Le sue camicie di seta ne sono un esempio. Grazie alle stampe raffiguranti la natura, con paesaggi tra l’esotico e il mediterraneo, lo sport (dal tennis allo sci nda), gli animali, in particolare i cani, dal chihuaha al dalmata, il tutto reso con colori pastello effetto acquarellato che conferiscono alla collezione un’atmosfera rétro. Tajer — che si è fatto le ossa come cofondatore di Pigalle e consulente di Virgil Abloh — ha concepito Casablanca con l’idea di colmare il vuoto tra streetwear e sartoria.
Come definiresti il tuo stile?
Elegante e classico. Lo stile del brand è influenzato dallʼarchitettura e dalla natura tradizionali. Il tratto distintivo dello stile Casablanca risiede anche nel delicato equilibrio tra comfort ed eleganza. La definizione che vorrei è “neoclassico”, poiché stiamo cercando di cristallizzare lo spirito di uno stile senza tempo in chiave moderna, per il quale ci ispiriamo alla vita di tutti i giorni, dalle belle signore che prendono il tè delle cinque al George V al giovane tennista.
Qual è il nuovo codice di abbigliamento? Cosa cercano gli uomini oggi?
Credo che le persone stiano cercando la felicità. C’è una maggiore cura di se stessi, gli uomini sono più consapevoli nella scelta del proprio guardaroba. E penso che continueranno a evolversi e ad assumersi più rischi, ad osare.
Puoi dirci cosa cʼè di così speciale nelle tue stampe, soprattutto quando si tratta di camicie?
Mi piace pensarle come immagini di un mondo ideale, che ho nella mia mente. Voglio che la moda che disegno contribuisca alla positività nel mondo, e penso che le storie delle camicie promuovano un modo nuovo di guardare alle cose. Le stampe sono dipinte ad acquarello da artisti del mio team, ogni pezzo è realizzato con molto amore e cura.
Alan Crocetti - jewelry
Cresciuto in una fabbrica di knitwear a conduzione familiare, Alan Crocetti durante il suo percorso di studi in womenswear alla Central Saint Martins ha iniziato ad avvicinarsi al mondo della gioielleria. Ora le sue creazioni sono indossate da Dua Lipa, Ezra Miller, Billie Eilish, Isamaya Ffrench e Mahmood. Dal famoso nose plaster ai maestosi ear cuff, la sua linea genderless si distingue per un immaginario dal taglio estremamente contemporaneo.
Sei nato in Brasile e poi ti sei trasferito a Londra. Come si traduce il tuo background culturale nel tuo lavoro?
Le mie collezioni sono fortemente influenzate dalle mie origini, ad esempio dai modernisti brasiliani Oscar Niemeyer e Burle Marx. Niemeyer aveva progettato l’area in cui abitavo a Belo Horizonte prima di sviluppare la capitale Brasilia.
Hai iniziato la tua carriera come womenswear designer, in che modo ti sei avvicinato ai gioielli?
Ho iniziato a sperimentare con i gioielli nell’ultimo anno alla Central Saint Martins e me ne sono innamorato; quelli che ho realizzato per il mio progetto finale hanno attirato l’attenzione di tutti, al punto di ricevere le prime richieste.
Da bambino ti chiedevi perché gli uomini non indossavano gioielli come le donne. Ora la tua collezione è genderless. Credi che il modo di pensare delle persone stia cambiando?
Ogni marchio può far parte del cambiamento, a prescindere da quanto si consideri tradizionale. Alla fine è il consumatore a decidere se aderire o meno. Per quanto riguarda il cambiamento nel pensiero, credo che il processo sia graduale e collegato alla caduta, in ritardo, del concetto di “mascolinità tossica”. Ci hanno inculcato idee machiste fin dalla nascita, che ormai sono radicate nel nostro cervello; e abbinano la forza agli uomini e la fragilità alle donne.
E il lato oscuro del fashion system?
Quello che vedo come oscuro nella vita e nella moda è il perpetuarsi degli stereotipi, ad esempio nell’utilizzo dei gioielli al femminile. Rompere quello schema e creare monili che celebrano l’individualità e l’empowerment abbatte gli stessi pilastri che sostengono l’industria della moda: il potere e la ricchezza.
Quali sono le tue principali ispirazioni? So che sei molto interessato all’anatomia e alle forme del corpo.
Mi piace molto la soggettività della bellezza. L’anatomia è di solito il punto di partenza del mio processo di progettazione. Studio l’ergonomia delle parti del corpo, forme e deformazioni, in questo modo considero i miei gioielli come se ne fossero l’estensione. Non comincio mai a progettare pensando per esempio “dovrei realizzare un orecchino”, mi limito a guardare l’orecchio, con attenzione. È così che si sono sviluppate tutte le mie ear cuff.
Come progetti una collezione?
Adoro gli sketch e mi piace fantasticare su cose che a prima vista non sembrano nemmeno realizzabili. Poi l’incisione a cera e il 3D. Ed è interessante come le cose prendano sempre strade differenti durante il montaggio, dove posso giocare e analizzare meglio i miei pezzi.
Ti piace l’idea di combinare la tua visione con altri brand?
Sono sempre attratto dall’idea di lavorare con artisti di diversi media.
Phipps - Outerwear
Punto di partenza del marchio è esaltare la forma più pura d’interazione tra uomo e ambiente, con particolare attenzione al concetto di responsabilità, non solo in termini di scelte produttive ma anche nello stile. Ibridazione formal e sport convivono alla perfezione, con capi modellati su tessuti certificati GOTS. Dopo essersi fatto le ossa da Dries Van Noten e Marc Jacobs, il fondatore Spencer Phipps si è trasferito a Parigi per iniziare il suo marchio eponimo; ed è stato designer finalista del Premio LVMH nel 2019. La sua passione per lʼarrampicata su roccia si riflette nel twist da esploratore urbano presente nelle sue collezioni.
Sei lo specchio del tuo brand, quali sono i valori in cui credi?
La sostenibilità è il goal, ed è un mindset che parte dalla mia esperienza personale e arriva anche alla creazione delle collezioni. Dal sostenere organizzazioni come 1% for the planet, all’acqua che viene impiegata, i rifiuti e il controllo dei materiali, tutto è nell’ottica di essere in grado di “pulire” il mondo e renderlo un posto migliore.
Qual è la direzione del menswear contemporaneo?
Penso che lʼabbigliamento maschile stia tornando a un senso di eleganza più classico, cʼè una certa formalità e austerità che sta emergendo. In un nuovo contesto di sperimentazioni, il menswear non è più così contaminato della grandi vibrazioni streetwear e funky, fin troppo viste nel corso degli ultimi anni.
Esiste un dress-code universale? Cosa cercano gli uomini oggi?
Non ho mai creduto nei codici di abbigliamento. Il mio motto è: indossa ciò che ti fa sentire più autentico. Personalmente penso che in questo momento gli uomini siano alla ricerca di praticità, facilità e comfort, senza per questo essere noiosi. Per me la moda superflua e ridicola è antiquata, completamente non in linea con i tempi folli in cui stiamo vivendo.
Tra i tuoi pezzi forti c’è sicuramente il capospalla. A cosa t’ispiri quando ne disegni uno?
Come un buon paio di occhiali da sole, è uno dei capi di abbigliamento più trasformabili che puoi avere nell’armadio. Può definire chi sei e, se fatto bene, si indossa con qualsiasi cosa. Come brand guardiamo sempre a capispalla archetipicamente “americani” e li ricontestualizziamo in silhouette contemporanee.
Illustrazioni di Didier Falzone