Interviste

#Talkingwith Rita Selvaggio

"Pur de la gabbia l'uscio avendo un giorno aperto, spiegò fuor d'essa un languido volo non bene esperto" Giacomo Leopardi
wood rug

CG: Entro dipinta gabbia, un incontro a tre, due artisti e Leopardi nella casa di Masaccio. Ce ne parli?

RS: Il percorso espositivo sottolinea tutte le vite o tutte le storie che ci sono in una storia sola, che poi è anche la storia di questa casa. Direi che queste tre presenze manifestano una sorta di  “affinità di sangue mentale”. C’è un orientamento iconico che li accomuna e che è relativo anche all’essere nati nella medesima terra; un riuscire nella poesia del pensiero senza mai accontentarsi del solo pensiero. Quella di Giacomo Leopardi è una poesia che contiene tutta la dolorosa poesia del mondo, un universo notturno di ansia e smarrimenti e, quella di Enzo Cucchi ed Enrico David si dà come “imago” contemplata con lo sguardo della mente oltre la barriera degli occhi chiusi del corpo.

CG: E’ una mostra con occhi molteplici. Occhi che si raddoppiano? O occhi sbarrati che riflettono altrettante esistenze? Incominciamo con Enrico David?

RS: Certamente. Le figure di Enrico David che abitano le stanze di Casa Masaccio vivono della propria perenne trasmutazione e del loro instancabile ritorno. Si materializzano come aliti di voce umana e il loro soffio diventa un segno che si innerva direttamente sul muro diffidando di slanci nel vuoto. Hanno sempre occhi chiusi, a volte è come se cornea e iride fossero state “murate vive”, altre sono rivolte verso il dentro, altre ancora consistono nel solo squarcio di un’orbita ossea. In poche parole sono semplicemente una “ferita”, una lesione, che è anche un indizio di elezione e che segna il privilegio di una destinazione. Una missione che è stata assegnata –nella notte- dalla notte stessa. Potremmo definirli “fantasmi di anti-eroi” convertiti all’interiorità che, con i loro globi oculari sbarrati e  nei loro umidi ed estatici anelli di luce,  non si curano di raccontarci nulla del fuori. La luce e la pietra di questi  antichi muri si incontrano nella loro immagine, la svelano e allo stesso tempo la riconsegnano al silenzio di una notte a cui non seguirà nessuna alba.

CG: Occhi, organi di senso. E in Cucchi?

RS : Nelle opere presentate, l’occhio rispetta la sua funzione di “organo-ponte” tra il mondo esterno, quello delle radiazioni elettromagnetiche per intenderci, e quello interno dove si tocca l’estrema misura del possibile. –“I miei quadri devono avere gli occhi perché ti devono guardare”- ripete spesso Cucchi. E a conferma di questo, in Entra in testa (2016), il piccolo quadro presente in mostra, su una superficie di soli 35 x 30 cm., di occhi che ci guardano ce ne sono ben otto. Nella specifica occasione di questa mostra ritroviamo oltretutto una certa analogia tra gli stati mentali dissociativi degli esseri umani e il mimetismo animale. L’organico e l’animale, l’animale e l’umano, passano all’interno del vivente come una frontiera mobile e si interrogano sul mistero metafisico di una possibile congiunzione. “L’animale ha memoria ma nessun ricordo”, scriveva Heymann Steinthal.  Le sculture in bronzo e ceramica collocate all’esterno retrostante Casa Masaccio, ignare di ogni tempo,  sembrano ripercorrere ancora una volta il vicolo come le bestie che secoli fa vi transitavano trainando carri per la consegna di cibarie e quant’altro alle famiglie nobili. Tra l’antropomorfico e l’animale, senza rango, senza archetipo o luogo proprio, in questo angusto polmone d’aria quasi privo di sole,  sono semplicemente presenti a se stesse.

CG: La mostra si accompagna ad un progetto editoriale pensato dagli artisti. Ce lo descrivi?

RS : Disegnato da Anna Gialluca e stampato da Romeo Steiner presso Perpetua Edizioni, è un oggetto piuttosto atipico, concettualmente molto interessante. Consiste in un grande manifesto che idealmente ha le stesse dimensioni del vecchio cancello di ferro da cui si accede a Vicolo Rossi, dove Cucchi ha collocato le sue sculture. E’ un foglio di carta povera, quasi una carta da pacco, o carta per alimenti, serigrafato in due colori. Da un lato, in un bianco lunare quasi argenteo, si leggono  le informazioni, i testi etc .. mentre le immagini delle opere in mostra sono state stampate su carta lucida e incollate come si faceva una volta per i vecchi libri di storia dell’arte. Dall’altro invece, a nobilitare la povertà del supporto, una gettata di colore verde a pieno campo. Un “verde Masaccio”, un “colore della mente”, come l’hanno definito gli stessi artisti. Il foglio si ripiega e si incastra su se stesso innumerevoli volte sino ad avere le dimensioni di un quaderno ed entrare in una custodia di stoffa.  Una sorta di fodero, una tasca cucita riciclando scampoli di vecchio lino, per cui ogni oggetto è in qualche modo diverso dall’altro, ed è stata confezionata dalla stessa persona che realizza sia gli arazzi di Enrico David sia le produzioni tessili di Cucchi.

 

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