Interviste

#WONDERWOMEN: Iris Van Herpen

In conversazione con Iris Van Herpen #WONDERWOMAN de L'Officiel Italia

Andrew Bolton, il curatore a capo del Costume Institute del Metropolitan di New York, l’ha definita «la Marie Curie della moda». Per il suo predecessore, Harold Koda, è «un’artista concettuale il cui medium è il vestito». Olandese, con lo studio ad Amsterdam, Iris Van Herpen ha lanciato il suo marchio nel 2007, a 23 anni, dopo aver studiato fashion design e aver fatto uno stage da Alexander McQueen. Un’affinità, quella con McQueen, evidente nel suo lavoro, in termini di silhouettes, sperimentazione/fascinazione per certi materiali e soprattutto nel costante connubio tra artigianalità e innovazione. L’utilizzo di tecnologie d'avanguardia (è del 2010 la sua prima creazione prodotta con una stampante 3D, il top Crystallization ispirato alla struttura delle conchiglie), una craftmanship straordinaria, e un interesse appassionato per la natura sono i pilastri di una visione unica, che le permette di creare abiti che sembrano usciti da racconti di fate: d’acqua, di cristallo, o che emettono suoni al tocco. Altrettanto emozionanti le sue presentazione: al "Biopiracy show" del 2014 c’erano modelle sospese in gigantesche sacche sottovuoto create dall’artista Lawrence Malstaf, alla sfilata "Aeriform" i componenti della band danese Between Music performavano sottacqua, ognuno in una diversa vasca di vetro, nel 2015, allo show "Quaquaversal", tre robots finivano di tessere live un abito circolare indossato da Gwendoline Christie, la Brienne de Il Trono di Spade, sdraiata al centro della sala e apparentemente addormentata. Fino al coup de theatre della scultura cinetica "Omniverse", dall'americano Antony Howe, come un alone gigante attorno alle modelle dello show "Hypnosis".

Come è nata la tua passione per la moda?
Per anni ho studiato danza classica e quello che mi affascinava di più era l’infinita varietà di forme che creiamo con i nostri corpi. Ho cominciato a guardare al corpo femminile come a una tela, qualcosa che poteva essere vissuto come un quadro vivente. La danza mi ha spinto a non lavorare solo a stretto contatto con il corpo, ma a considerare anche lo spazio intorno, come farebbe un ballerino: il mio lavoro è in un certo senso trasformare una coreografia tridimensionale di micromovimenti in un vestito. Il mio è un approccio sinestetico alla moda fondato sull’interazione tra i nostri sensi e abiti che esprimono emozioni.

Pensi che il fashion system ti abbia supportata?
Ho avuto la fortuna di essere stata appoggiata da molte persone in tutti questi anni, Suzy Menkes, Nick Knight, Vanessa Friedman, Karl Lagerfeld, Jean Baptiste Mondino, Sarah Moon, Tim Walker, Naomi Campbell, Patti Wilson, Andrew Bolton, Emmanuelle Alt, Albert Watson... e tanti altri. Con gli anni la sensazione di appartenere a una community coesa si è fatta sempre più forte.

Quali sono i valori fondamentali della tua moda?
Artigianalità, innovazione, collaborazione, sostenibilità e empowerment femminile.

Patti Wilson è la stylist delle tue sfilate... Cosa aggiunge alla tua visione?
Con Patti lavoriamo insieme ormai da anni, non solo sulle sfilate ma anche su molti shooting. Lei ha un vero sesto senso, sa istintivamente cosa aggiungere e cosa togliere. È come la musica per i ballerini, crea un’unità che tiene insieme tutti gli elementi. È così appassionata e così geniale che mi sento molto fortunata a poter condividere i miei sogni con lei.

Molte celebrities hanno scelto i tuoi abiti per video o red carpet, da Lady Gaga a Beyoncé fino a Björk.
Björk ha creato un suo universo poetico, radioso, energetico, surreale, puro, ipnotico. A unirci, il fatto che lei crei dalla natura giocandoci e trasformandola in modo assolutamente fluido grazie a degli elementi artificiali. È la sua vibe utopica e temeraria a ispirarmi nelle mie creazioni, a darmi speranza per il futuro e a mostrarmi la libertà della femminilità.

I tuoi abiti sono stati esposti in moltissime mostre, pensi che i musei siano una destinazione naturale per le tue creazioni? E in quale occasione ti sei sentita più elettrizzata per l’inclusione in una mostra?
La moda è arte. La calma sospesa, il senso di pace tipici di una mostra permettono di accorgersi dei dettagli, della complessità, delle centinaia di ore di lavoro e delle innovazioni inerenti a un abito. Si riesce a sentire la passione che è stata messa in un vestito. È meraviglioso parlare con chi è stato a una di queste mostre, capire quanto abbia vissuto da vicino il mio lavoro, perché mi permette di intravedere un linguaggio sottinteso di desideri, visioni, ispirazione e sogni. La mostra più gratificante in assoluto è stata "Manus X Machina" al Metropolitan di New York, dove sono stati esposti alcuni dei miei lavori chiave, tra cui gli abiti Skeleton, Bird e Moon.

Non sono solo i tuoi abiti ad essere così impattanti. Le tue presentazioni sono altrettanto forti ed emozionali, grazie alla collaborazione con performers e artisti come Lawrence Malstaf, Peter Gentenaar, Anthony Howe.
Voglio che chi assiste ai miei show si avvicini non solo agli abiti, ma anche al processo creativo, all’origine e alla visione sottostanti a una collezione. E visto che a ispirarmi è spesso il lavoro degli artisti voglio condividere l’ispirazione da cui è scaturita senza soluzione di continuità la collezione.

Chi sono i tuoi designer preferiti?
Issey Miyake, Alexander McQueen, Rei Kawakubo. Issey per la texture innovativa dei suoi tessuti, estremamente tattili. McQueen per la sua femminilità oltraggiosa e la lavorazione artigianale e Rei per le sue forme.

La tua visione è sempre stata molto coerente, ma c’è una collezione che in retrospettiva ti sembra surclassare le altre?
Una collezione che ha segnato una svolta decisiva nel mio processo creativo è stata "Voltage", nel 2013: già alla fine della scuola mi sembrava claustrofobico lavorare soltanto con tessuti e macchine da cucire, ma quella è stata la prima volta in cui ho collaborato con tanti professionisti diversi, architetti, ingegneri, artisti. È lì che ho capito che avevo ancora così tanto da imparare.

Il tuo miglior fashion moment?
Il finale dello show “Hypnosis”, quando la modella con indosso Infinity, uno scheletro di alluminio e acciao con piume applicate, è passata attraverso la scultura cinetica in forma di alone creata da Anthony Howe. Anthony ed io abbiamo lavorato insieme sia all’abito che alla scultura, disegnati per muoversi in circoli infiniti spinti dal vento. Questo momento, quando lo spazio attorno alla modella è diventato armoniosamente tutt’uno con lei, simboleggia la mia visione della moda del futuro: un futuro più sostenibile dove eleviamo noi stessi per collaborare con la natura.

Dove vedi il tuo brand e te stessa tra dieci anni?
Mi auguro che in questo spazio temporale io abbia contribuito a fare moda in maniera più intelligente, a rafforzare il potere delle donne e ad approfondire il pensiero sottostante alla moda con il contributo della scienza, dell’arte, dell’architettura, dell’ingegneria e della biologia, focalizzandomi sulla collaborazione sostenibile con la natura.

Tanti grandi fotografi hanno scattato le tue creazioni. Qual è la tua immagine preferita?
Molly Bair con addosso il modello Aeriform, un pizzo di finissimo metallo che fluttua attorno a lei come una nuvola di microparticelle, in piedi di fronte al Large Hadron Collider (la più grande macchina al mondo per l’accelerazione dei protoni, nda) del CERN, fotografata da Nick Knight. Nel modo in cui l’ha scattato Nick, l’LHC si trasforma in un cielo notturno, in un ammasso stellare. L’immagine non è ancora stata pubblicata, lo sarà nel mio prossimo libro.

Credi che il Covid-19 segnerà un punto di non ritorno per la moda?
La moda stava già pattinando su una lastra di ghiaccio sottilissima, e il sistema della fast fashion in particolare stava già mostrando tutte le sue crepe. Il Covid-19 ha messo profondamente in crisi l’industria della moda, dobbiamo trovare un nuovo punto fermo, che credo si possa riassumere nel concetto di slow fashion. Sul breve periodo i marchi produrranno meno collezioni all’anno, meno prodotti, meno show. Sulla lunga durata la crisi ambientale influenzerà radicalmente consumatori e produttori. Significativamente la motivazione all’acquisto dei più giovani non è più soltanto costruirsi un’identità e una propria bellezza. Oggi si compra un messaggio per il pianeta, un messaggio per la propria salute, quella degli altri e quella delle generazioni future.

Negli anni per raccontare le tue sfilate hai fatto riferimento a sistema nervoso, organismi marini, labirinti liquidi, ilozoismo, la pratica giapponese del suminagashi (l’inchiostro fluttuante nell’acqua), cartografie celesti, ibridi umani/animali, ingegnerizzazione del DNA, mitologia giapponese, cronofotografia, architettura dell’ala, stratificazioni fossili e floreali, seijaku (la pratica giapponese per trovare la serenità nel caos)... Cosa aggiungerai in futuro?
Alchimia incorporata, realtà mista, archeologia del futuro, “craftolution”.

Tu ti definisci motivata dall’innovazione e la introduci costantemente nelle tue creazioni. Ho letto tue interviste in cui parlavi di esperimenti di stampa 4D, per codificare il movimen- to all’interno dei materiali, e delle possibilità legate a un mantello invisibile attualmente in fase di brevetto per l’esercito americano...
Abbiamo fatto dei test con le stampanti 4D ma ci vorrà ancora molto tempo prima che la tecnologia possa svilupparsi al punto da creare materiali per un abito. Il mantello invisibile non si è rivelato così impattante dal punto di vista visivo come pensavo. Un materiale può essere interessante dal punto di vista concettuale ma in ultima istanza deve essere la sua bellezza a sedurci.

Hai dichiarato: «Bisogna arrivare al punto in cui sei tu ad avere il controllo del materiale, e non è invece il materiale a controllare te». Quali materiali non sei ancora riuscita a controllare?
Stiamo facendo dei test con una stampante 3D per arrivare a un materiale trasparente e solido come il cristallo, che possa essere stampato con la stessa delicatezza della gioielleria.

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