#TalkingWith Arthur Arbesser
Originario di Vienna, formatosi a Londra e con base a Milano, Arthur Arbesser porta avanti il suo brand con un punto di vista personale, genuino e indipendente, lo abbiamo intervistato in vista della sua collezione Spring Summer 2020.
Le tue collezioni sono segnate da forti connotati semiologici. Quanto è importante per te la fase di ricerca?
È la parte principale di ogni collezione. Un momento inclusivo, stimolante e bello, in cui il team si confronta, ogni persona ha qualcosa da dire e lo scambio di idee è fondamentale. La ricerca è una fase in cui tutto è possibile, tutto è fattibile. Un momento di libertà, perché effettivamente possiamo fare quello che vogliamo fare.
Dalle tue collezioni emerge sempre uno studio collegato alla grafica. Quanto sei interessato a questo mondo?
Tantissimo, penso che proprio attraverso le stampe, i colori, i pattern per me sono un modo di raccontare la storia di ogni collezione, se parliamo di un artista o un periodo del tempo le grafiche aiutano tantissimo a rinforzare lo story telling della collezione. Ogni collezione ha delle stampe proprie significative e questo è un elemento riconducibile al mio lavoro. Poi ci sono alcuni simboli come il check-board che ritorna da sempre.
Vorrei collegarmi un attimo al tuo background, so che hai avuto un periodo della tua vita in cui il teatro e l’opera hanno catturato la tua attenzione. Come si è tradotto nell’attuale lavoro?
Ancora adesso faccio tanti costumi per l’opera teatrale e il balletto, attualmente sto lavorando per l’opera di Berlino e di Monaco di Baviera da una vera passione da teenager è diventata parte del mio lavoro e continua ad essere un momento di stimolo molto sano che mi spinge a riflettere e a vedere.
Vienna, Londra e Milano, c’è un fattore comune tra queste città?
Penso che siano le persone che ho incontrato in tutti questi posti che creano una rete di amici e collaboratori, riferimenti importanti per la mia realtà.
La sfilata rappresenta la punta dell’iceberg del processo creativo. Qual’è la fase che ti appassiona di più? E quella che ti fa capire che sta prendendo una dimensione propria?
La fase che mi appassiona di più è la fase di ricerca, in cui cerchiamo di partire dal niente, tabula rasa. Mentre la fase in cui prende forma la collezione sono sicuramente i giorni prima della sfilata, quando finalmente vedi i tuoi vestiti. È una sensazione molto strana, i vestiti arrivano dalla produzione, sembra quasi come fosse Natale.
In contemporaneo lavori come docente allo IUAV di Venezia, com’è trasferire la tua conoscenza ai giovani creativi?
É molto bello. Io di base sono una persona appassionata e mi viene molto naturale trasmettere questa passione. Vedo la nuova generazione, più leggera e serena rispetto alla mia quando studiavo. Eravamo molto più preoccupati e negativi.
Quanto le nuove generazioni hanno influito su di te rispetto alla produzione contemporanea?
Io sono un osservatore, e apprezzo tantissimo il confronto con ragazzi che hanno 15 anni in meno di me, però sono molto appassionato alla storia e alle generazioni che non esistono più.
Che rapporto hai con le tue vecchie creazioni?
Sono molto auto-critico, mi metto in discussione di continuo. Ogni stagione serve per migliorare sempre in vista al futuro, l’obbiettivo è migliorare è un rapporto sadomasochistico ma è anche uno stimolo per andare avanti.
Nella moda contemporanea è complesso definire l’autenticità di un designer. Quale pensi che sia il tuo contributo?
Io non sto cercando di essere cool, non voglio piacere a tutti i costi. Il mio obiettivo è di raccontare la mia storia attraverso il format della sfilata ogni sei mesi e se non piace va bene comunque. Tutti gli stilisti che ammiro hanno fatto un lavoro non esclusivamente per vendere tanti vestiti. La cosa fondamentale è raccontare qualcosa di interessante. È interessante quando il vestito ti racconta qualcosa per arricchire le persone.
Tre parole per descrivere la nuova collezione Spring Summer 2020
Nonna, una storia europea, cheecky.