Dalle utopie del primo mondo digitale alla decadenza dell’ultima era di internet, il trentasettenne artista canadese, racconta l’impatto emotivo, sociale ed esistenziale della tecnologia. E della sua collaborazione con Balenciaga (il debutto fashion)

Foto di Guillaume Simoneau

&ldquo;Ride Never Ends&rdquo; &egrave; il titolo dell&rsquo;installazione multimediale che Jon Rafman ha realizzato per la sfilata primavera-estate 2019 di Balenciaga a Parigi: un tunnel cilindrico coperto di schermi al led con immagini di paesaggi alieni, ecosistemi surreali e presenze di civilt&agrave; tecno-feticiste sull&rsquo;orlo del collasso, con musiche composte appositamente da BFRND (progetto musicale di Lo&iuml;k Gomez e Melchior Mahot). &laquo;Demna Gvasalia, direttore creativo di Balenciaga, mi ha coinvolto in questa collaborazione, la mia prima con un brand di moda, e mi ha dato carta bianca nella realizzazione del progetto&raquo;, racconta Rafman. &laquo;Siamo entrambi nati nel 1981 e cresciuti prima dell&rsquo;arrivo dell&rsquo;internet, condividiamo una visione del mondo e dell&rsquo;evoluzione della tecnologia digitale che mi ha permesso di lavorare in totale libert&agrave;. Il contesto della sfilata soddisfaceva per me anche il desiderio di confrontarmi col teatro, con un ordine coreografico e scenografico&raquo;. &Egrave; ricorrente, infatti, nella pratica di Jon Rafman la creazione di ambienti immersivi dove tutti i sensi sono ugualmente stimolati, per un&rsquo;esperienza totale che coinvolge non solo la visione dei suoi video - che raccolgono montaggi di immagini tratte da internet e videogiochi - ma anche sculture e installazioni che calano l&rsquo;osservatore in uno spazio percettivo in continuit&agrave; con quello dello schermo, della visione. Questo &egrave; il caso della sua prima grande personale in un&rsquo;istituzione italiana, la mostra &ldquo;Il viaggiatore mentale&rdquo;, organizzata da Fondazione Fotografia Modena e a cura di Diana Baldon, ospitata nella Palazzina dei Giardini di Modena fino al 24 febbraio 2019. La mostra raccoglie sette video presentati in installazioni multimediali che ripercorrono l&rsquo;evoluzione della produzione di Rafman dal 2011 a oggi, degli ambienti come frammenti visivi-esperienziali in un viaggio ai confini tra il materiale e il virtuale accompagnato da una voce narrante ipnotica.&nbsp;

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&laquo;Ho visitato lo spazio assieme all&rsquo;architetto e abbiamo studiato ogni singola stanza come un ambiente e un concetto diverso&raquo;, racconta. Si parte dall&rsquo;ingresso con i video &ldquo;Legendary Reality&rdquo; (2017), &ldquo;A Man Digging&rdquo; e &ldquo;Remember Carthage&rdquo; (2013) presentati all&rsquo;interno di tre cabine di proiezione che ricordano le postazioni dei videogiochi, per continuare con &ldquo;Betamale Trilogy&rdquo; (2013-2015) installazione di video presi da community online, &ldquo;Kool-Aid Man in Second Life&rdquo; (2008-2011) risultato di tre anni di frequentazione dell&rsquo;omonima piattaforma virtuale, &ldquo;Poor magic&rdquo; (2017) e &ldquo;Dream Journal&rdquo; (2016-2017) create entrambe usando una grafica 3D computerizzata. Quest&rsquo;ultimo &ldquo;diario onirico&rdquo; nasce da una pratica che Rafman sta continuando a sperimentare e che porter&agrave; anche alla realizzazione della seconda parte del progetto: si tratta dell&rsquo;onironautica o sogno lucido, quel fenomeno che permette di prendere coscienza durante il sogno, mentre si sta dormendo, e che consente di esplorarlo e modificarlo a piacere. &laquo;Lavoro con un&rsquo;assistente-terapista che annota i miei pensieri e le associazioni improvvise, si tratta di una tecnica connessa all&rsquo;inconscio. Ancora una volta, mi interessa il teatro di improvvisazione e la commedia dell&rsquo;arte perch&eacute; mi permettono di testare tecniche di libere associazioni da incorporare nella narrazione delle mie storie&raquo;.

Jon Rafman

 Per sviluppare i suoi progetti, l’artista fa spesso affidamento a una pratica di libere associazioni, non ha paura di incontrare i suoi demoni anzi esplora quella soglia che regala immaginari di paure personali mischiate a fobie collettive, derivanti da costrutti sociali

&nbsp;In realt&agrave; Rafman decodifica e racconta il mondo attraverso una pratica gi&agrave; nota e ben sperimentata da artisti che lui stesso cita, William Burroughs per esempio sviluppava il proprio processo liberandosi del proprio lato conscio grazie alla tecnologia - nel suo caso usava il registratore per scrivere, mentre Rafman un&rsquo;intelligenza artificiale su misura. Gi&agrave; Charles Baudelaire - un riferimento per l&rsquo;artista - lavorava sulla tensione tra i due mondi, quello dell&rsquo;ideale per certi versi romantico e quello razionale che vede la realt&agrave; per quello che &egrave;. Allo stesso modo Rafman racconta l&rsquo;internet, dai suoi inizi carichi di utopie e aspettative di libert&agrave; e uguaglianza ai lati oscuri che negli anni sono emersi con impatto sulla vita reale, perch&eacute; anche online c&rsquo;&egrave; stato un movimento che ha portato dall&rsquo;idealismo al decadentismo. &laquo;C&rsquo;&egrave; una tensione tra la persona digitale e quella fisica che mi interessa esplorare. All&rsquo;inizio dell&rsquo;internet c&rsquo;era una grande libert&agrave; ed eccitazione di poter creare personalit&agrave; multiple mentre oggi si vivono semplicemente due vite; chi &egrave; nato in questa era &egrave; cresciuto con un doppio se stesso, quello che presenta online, e ormai non c&rsquo;&egrave; pi&ugrave; via d&rsquo;uscita se non esplorare e analizzare questo mondo. Gli spazi virtuali sono riflessi della mente, cos&igrave; frammentati da essere quasi pi&ugrave; onesti rispetto alla nostra natura&raquo;. Legato al tema dell&rsquo;identit&agrave; nel lavoro di Rafman emerge anche quello della memoria e di come la tecnologia influenza il modo in cui guardiamo al passato e organizziamo i nostri ricordi. &laquo;La memoria &egrave; la base sulla quale costruiamo le nostre identit&agrave;, pi&ugrave; viene registrata meno rester&agrave; impressa, a causa anche della super-stimolazione, della frammentazione e dell&rsquo;attenzione al disordine che subiamo. C&rsquo;&egrave; un&rsquo;immagine forte alla quale penso: un serpente che mangia la sua coda rappresenta l&rsquo;idea dell&rsquo;essere umano che viene consumato e al tempo stesso consuma, non ha idea dove questo processo inizi e termini, le sue sono solo pseudo-soddisfazioni perch&eacute; quella vera non arriva mai&raquo;.

 Jon Rafman e Polina Dubik, producer nello sviluppo creativo e nella produzione, di progetti come “Dream Journal”  o l’installazione per Balenciaga; qui al lavoro nel tavolo che guarda la sede di Ubi Soft a Montreal.

 Diversi i progetti futuri che impegnano Jon Rafman, tra questi uno dei suoi prossimi video - di tipo musicale - coinvolgerà anche attori di giochi di ruolo ambientati in mondi di fantasia, con costumi costruiti con materiali economici e quotidiani. 

Quest&rsquo;analisi del contemporaneo si attua principalmente nella post produzione di video realizzata al computer ma anche nella creazione di sculture, oggetti, dipinti e props che convogliano nelle installazioni multidisciplinari e quasi sinestetiche di Rafman. Il suo studio, che &egrave; anche la sua casa, si trova a Montreal - citt&agrave; nella quale &egrave; nato e cresciuto - nel distretto di Mile End dove vive da circa 5 anni. Anche se la sua vita artistica e sociale non &egrave; necessariamente collegata alla citt&agrave; e potrebbe essere in qualsiasi parte del mondo, qui Rafman ha il suo spazio vitale ed &egrave; vicino alla famiglia, inoltre l&rsquo;East Coast francese sta crescendo molto. &laquo;Molte aziende hanno aperto qui le loro sedi&raquo;, racconta, &laquo;perch&eacute; Montreal offre benefici fiscali a chi lavora sulle nuove tecnologie, come Ubi Soft che fa video games e che vedo proprio davanti alla mia finestra. A Montreal tutto &egrave; grigio e freddo, e il freddo ti spinge a stare all&rsquo;interno, l&igrave; si sviluppa la vera vita della citt&agrave;&raquo;.&nbsp;

La routine lavorativa per lui non esiste, si alternano momenti d&rsquo;intensa produzione a periodi di ricerca e solitudine: &laquo;A volte lavoro assieme a dieci collaboratori con me in studio, giorno e notte, &egrave; un fluire continuo dove arte e vita non si separano; altre volte sono pi&ugrave; solitario ma mai annoiato, non penso mi sia mai successo, se mai ci fosse noia ne godrei perch&eacute; il mondo in cui viviamo oggi &egrave; pieno di distrazioni e raramente permette momenti di abbandono. Uno dei miei registi preferiti &egrave; Tarkovskij, in un&rsquo;intervista gli chiedono un consiglio per le nuove generazioni e lui risponde semplicemente &ldquo;impara a stare solo&rdquo;&raquo;.

Oltre alla personale &ldquo;Il viaggiatore mentale&rdquo; a Modena e alla collettiva &ldquo;Low Form. Immaginario e visioni nell&rsquo;era dell&rsquo;intelligenza artificiale&rdquo; al Maxxi di Roma, a cura di Bartolomeo Pietromarchi - entrambe fino al 24 febbraio 2019 - Jon Rafman ha diversi progetti in cantiere per il prossimo futuro, molti dei quali ancora segreti, tra questi possiamo per&ograve; annunciare la sua partecipazione alla Sharjah Biennale negli Emirati Arabi Uniti a marzo 2019.

 Jon Rafman nel suo studio di fronte a una foto delle serie “9 Eyes”, una raccolta di scatti fotografici rubati a Google Street View, e con ai piedi una scultura della serie “New Age Demanded”.

Jon Rafman

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