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Archivio Pharaildis: intervista alla curatrice Barbara Garatti

Project Room, tre mostre che celebrano l'archivio-atelier
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L’Archivio Pharailidis Van den Broeck è nelle sue mani dal 2015. Fare i conti con un archivio così vasto significa anche saper riconoscere differenze e analogie tra i diversi lavori, volendo fare ordine. Ci sono dei simboli sempre presenti?

Le opere di Pharailidis Van den Broeck sono ricche di simboli e immagini che ritornano costantemente durante tutti i vent’anni di attività, si evolvono e cambiano ma conservano una coerenza interna facilmente apprezzabile. Inizialmente la possibilità di trovare un ordine tra più di duemila dipinti su tela o carta di giornale e altrettanti disegni, schizzi, bozzetti, sembrava un miraggio. Dopo più di tre anni sono riuscita, grazie al prezioso supporto del marito Michele Sagramoso, a definire una cronologia e a comprendere le linee di sviluppo complessivo della sua opera.

Aby Warburg associava simboli e elementi di diverse epoche artistiche, come se fosse sempre sul punto di riesumare un’immagine dimenticata. Succede qualcosa del genere nell’archivio di Pharaildis? I simboli dell'artista a quale elemento del passato possono essere associati?

Il simbolo ricorrente nelle opere di Phara è la cipolla. Le prime opere ritraggono delle cipolle di grandi dimensioni ironicamente debitrici dei canoni classici della ritrattistica barocca, successivamente la cipolla assume connotati sempre più astratti e simbolici, fino a comporre una sorta di alfabeto. Credo che questo semplice ortaggio appaia attraverso il suo lavoro come una metafora dell’esistenza umana, una stratificazione di pelli sottili, tessuti, pattern in continua trasformazione che si nutrono dalla terra in cui sono ben radicate ma che si sviluppano slanciate e robuste verso l’alto. Le possibilità di lettura simbolica di questo oggetto sono sterminate: dalla medicina tradizionale cinese al racconto della donna malvagia e la cipolla ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Da un punto di vista botanico la cipolla è un bulbo ovvero un organo di propagazione vegetativa, che svolge anche una funzione di resistenza permettendo il superamento di condizioni avverse. Mi piace pensare che Phara sia rimasta nascosta per poter dare forma alla sua fervida vitalità artistica questo al di là del suo livello di consapevolezza e di qualsiasi sentimentalismo romantico: nelle sue opere l’utilizzo di questo elemento va al di là dell’iconologia, Phara a un certo punto arriva ad impersonificarsi nel suo stesso simbolo.

Alcuni dei suoi dipinti potrebbero essere utilizzati come stampe su t-shirt. La stilista Pharaildis ne sarebbe felice?

Alcuni suoi dipinti sono chiaramente frutto di raffinate conoscenze sulla storia del tessile, sarebbe molto interessante che qualcuno studiasse tecnicamente un modo per riconvertirli nuovamente in tessuti. Per quanto riguarda invece le stampe su t-shirt non saprei, bisognerebbe fare delle ulteriori ricerche in archivio per capire meglio il rapporto di Phara con la mercificazione dell’immagine, non escludo che potrebbe nascere qualcosa di molto interessante.

Pharaildis non ha disegnato solo su tela. C’è la volontà di fare una protesta dietro l'uso della carta di giornale?

Non ci sono intenti critici espliciti nel suo lavoro, ma c’è tanta ironia e soprattutto autoironia. La carta di giornale è stata scelta per le immagini che riporta, per la possibilità di replicare serialmente un soggetto, di contestualizzarlo o decontestualizzarlo secondo necessità. Nel suo lavoro è evidente una particolare fascinazione per le mitologie collettive contemporanee, quale strumento migliore di un giornale per raccogliere le immagini del mondo in trasformazione (stiamo parlando degli anni tra il 2003 e il 2008, prima di Facebook e Instagram). Nella carta di giornale Phara trovava la vitalità e il brulicare del quotidiano, lo percepiva benissimo anche da outsider proprio grazie alla sua sensibilità da fashion designer sempre protesa alla ricerca del nuovo.

Come ci si sente nel maneggiare gli strumenti che Pharaildis utilizzava per dipingere?

La prima volta che sono entrata nell’atelier era così come lo aveva lasciato. È una sensazione molto particolare quella che si ha entrando nello studio dell’artista in sua assenza, è il privilegio e allo stesso tempo la responsabilità dell’archivista. Ogni volta si tratta di trovare l’equilibrio tra il rischio di poter perdere qualche traccia invisibile toccando o spostando qualcosa e il desiderio e il piacere di scoprire un tassello in più per conoscere il suo lavoro.

E’ difficile individuare il punto in cui l’arte finisce e inizia la moda. L’artista in che rapporto poneva questi due termini?

Phara ha terminato le sue collaborazioni con le case di moda nel 1993. Si intuisce che voleva voltare pagina in modo molto netto. È vero però che analizzando il suo lavoro è evidente come a un livello più profondo l’attitudine e il processo che le erano propri siano rimasti fino alla fine debitori della sua esperienza nell’ambito della moda, così come la sua attività di fashion designer è sempre stata intrapresa con un forte senso artistico.

Parliamo di una donna che ha lavorato con grandi nomi come Versace, Trussardi, Missoni e molti altri. Eppure più volte le hanno dato della outsider. In che senso?

Gianni Versace, Nicola Trussardi e Ottavio e Rosita Missoni hanno stimato molto il lavoro di Phara come fashion designer, all’epoca si firmava Phara Vanden. È in realtà solo la produzione pittorica che non è mai stata vista ed esposta. È considerabile un’outsider nella misura in cui tutta la sua ricerca è avvenuta fuori dal sistema istituzionale e commerciale, ma in realtà Phara è stata un’artista molto colta con un immaginario visivo ricchissimo e sempre alla ricerca di nuovi stimoli.

È prevista la pubblicazione di una monografia sull’artista. I suoi lettori dovranno essere necessariamente degli esperti di arte o di moda?

Spero che possa essere interessante per entrambi e non solo. Gli apparati iconografici saranno curati di Bert Van Rossem, artista e amico di Phara fin dagli anni della formazione ad Anversa, ci sarà un testo molto interessante in cui Linda Loppa racconta alcuni ricordi sempre di quel periodo e poi altri scritti di Giulia Niccolai, Nicoletta Pallini e altri in corso di definizione.

Parliamo di Project Room. Coinvolgendo i tre artisti contemporanei Alessandro Roma, Giulio Squillacciotti e Andrea Kvas, come si struttura il progetto rispetto a quanto conservato in archivio?

L’idea di invitare degli artisti a lavorare sull’archivio e nell’archivio nasce dall’esigenza di cominciare a leggere il lavoro di Phara da un punto di vista critico. Volevo che fossero per primi degli artisti perché l’interpretazione non fosse condizionata da stereotipi metodologici o formali, ma avvenisse su un piano paritario artista-artista. Con la prima Project Room sono nate riflessioni molto interessanti sul modo di lavorare di Phara, sulla varietà del suo immaginario visivo e sul significato esistenziale della sua posizione di outsider ma non naïf. Alcune di queste sono raccolte nel testo riportato sulla piccola ma preziosa pubblicazione curata da Emiliano Biondelli che accompagna ciascuna delle Project Room.
Alessandro Roma ha usato numerose immagini tratte dai libri della biblioteca per produrre due libri d’artista che possono essere intesi come un viaggio onirico nel mondo di Pharaildis Van den Broeck. Giulio Squillacciotti e Andrea Kvas lavoreranno su altre porzioni dell’archivio. Il risultato sarà una scoperta per tutti.

 

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Foto credits Jacopo Menzani

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