L'Officiel Art

The Folly & the Reason of Adam Charlap Hyman

La creazione dei capricci architettonici - “folly” in inglese da “folie” in francese - è una vecchia tradizione. Alla fine di un 2020 spaventoso, abbiamo pensato di dare spazio a una dose di fantasia escapista, chiedendo a 14 artisti il loro contributo. Questo portfolio è un’ode spontanea alla collaborazione fra lo storico dell’arte B.J. Archer e il curatore Leo Castelli a partire dal 1983.
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Dopo essersi dedicato alla decorazione nel corso della seconda Guerra mondiale, Carlos de Beistegui, erede di miniere d’argento spagnole, si concentrò sulla creazione del suo giardino nel Castello di Groussay, poco meno di 50 km a ovest di Parigi, a Montfort-l’Amaury. I suoi partner d’elezione, l’architetto Emilio Terry e l’artista Alexandre Serebriakoff, erano stati molto impegnati, durante l’occupazione di Hitler, a concepire gli stravaganti interni del castello, in uno stile che Terry aveva definito “Luigi XVII,” in onore del re francese che non aveva mai regnato. Nel 1949 il trio aveva già completato il Temple de l’Amour, il primo dei sette capricci previsti dal progetto. Al centro di un colonnato calcareo, protetta da una piccola cupola in rame, una statua di Venere si ergeva oziosamente sul suo piedistallo, apparentemente ignara del fatto che, al di là degli obelischi in travertino Senese delle stalle di Beistegui, si estendessero su tutto il Paese i segni crudi della guerra, i razionamenti continui, un lento processo di ricostruzione e un mare di smarrimento e sofferenza. Direi che il fatto che la parola “folly”, in inglese, derivi dal francese “folie” con il significato di “pazzia” sia perfetto per la situazione. Ma come si spiega che così spesso le cose più belle vengano create nelle circostanze più infelici? Cominciai a interessarmi ai capricci del Castello di Groussay al college, dopo la scoperta del lavoro assolutamente irriverente che Terry aveva realizzato per gli interni dell’appartamento modernista di Beistegui, progettato dall’architetto Le Corbusier. Adoravo il modo con cui Terry usava riferimenti storici per inventare fantasie per il presente, mettendo insieme tecniche narrative, materiali e motivi da lui reinterpretati a modo suo. È sorprendente pensare che l’architetto avesse concepito un mondo così classico rielaborandolo in maniera post-moderna. Quando finalmente visitai il castello, i progetti di Terry mi avevano ormai già trasmesso un amore per questo tipo di microcosmo architettonico personale. Mi recai così al Royal Pavilion di Brighton per fotografare le tre colonne a palma della cucina; alla Palazzina Cinese, in Sicilia, per osservare il meccanismo che consente di trasferire un tavolo dal soggiorno alla cucina del piano sottostante; al Giardino di Bomarzo, informalmente conosciuto come il Parco dei Mostri, per cogliere l’effettiva dimensione della bocca spalancata che costituisce l’entrata; e alla grotta del Castello di Neuschwanstein, in Bavaria, per vedere la porta basculante che conduceva alla camera di Ludovico II.

“La Colonne Détruite at Désert de Retz,” 2020

Cominciai a capire che i capricci esistono nella tensione fra la ragione e l’irragionevolezza. Sono l’antidoto ai principi architettonici dell’Illuminismo, che esaltano l’ordine e la chiarezza nella relazione dell’uomo con il paesaggio, e tuttavia hanno un proprio rigore e una propria logica. La definizione di follia come puro ornamento da giardino – inutile e creata per l’occhio solamente– è ormai datata. Queste costruzioni in miniatura, o sculture di edifici, sono portatrici di tutto ciò che le loro controparti a grandezza naturale non trasmettono: l’irrazionale, l’effimero, il falso, il teatrale, il perverso, l’assurdo, l’inconscio e l’oscurità. E come tali, sono essenziali. Mi viene in mente il bordello a forma di fallo di Claude-Nicolas Ledoux, nella Maison des Plaisirs a Parigi, o i dipinti a sfondo sessuale di incontri in piccoli templi Classici di François Boucher, o Clive che tira il golf di Maurice davanti al Padiglione di Palladio a Wilbury Park, nel film della Merchant Ivory. Questi sono luoghi dove il piacere rasenta la follia, dove il cerebrale approccia il carnale, dove le persone trovano dentro di sé qualcosa di crudo e potente al tempo stesso. Mentre lavoravano a Groussay, Terry, Serebriakoff e Beistegui si innamorarono di una proprietà a circa trenta minuti di macchina, confinante con la Foresta di Marly, conosciuta come Le Désert de Retz. Non erano i primi. Il luogo ha sempre attirato molti visitatori sin dalla sua costruzione, negli anni precedenti la Rivoluzione Francese; da Maria Antonietta a Thomas Jefferson fino a Colette, Salvador Dalí e Jean Cocteau. Le désert era il giardino privato di 99 acri, proprietà del nobile francese François Racine de Monville fra cui, un tempo, erano disseminate 21 capricci, di cui dieci si sono conservati sino ad oggi. Al centro del giardino si trova La Colonne Détruite, una enorme struttura che si presenta come la base crollata di una colonna in rovina. Se il tempio perduto fosse stato completo sarebbe stato più alto del Faro di Alessandria. Le crepe che si allargano lungo le scanalature pantagrueliche della colonna sono in realtà delle finestre, e i diversi livelli all’interno sono accessibili attraverso una scala a chiocciola che sale intorno ad un albero che oggi non esiste più. Mentre camminavo nei giardini, nel 2013, ho afferrato il senso della natura veramente radicale del progetto di Monville, un codice segreto che svelava una nuova visione del mondo, celebrandone il secolarismo e la ragione al tempo stesso, ma che abbracciava anche il senso dell’effimero. Sono certo che la natura poetica e riflessiva del luogo non si sia persa con lui, e mi piace immaginare che, come si direbbe in termini folkloristici, quando il Regno del Terrore avesse raggiunto finalmente le pareti del Deserto e lui avesse finto di essere il suo giardiniere, Monville avrebbe visto con non poca soddisfazione il futuro della sua follia come ‘rovina di una rovina’. Questa sorta di straordinario loop in cui qualcosa è autenticamente falso sembra intrinseca all’idea di follia. Mi ritorna in mente Carl Hagenbeck, il folle inventore dello zoo moderno, conosciuto per le sue realistiche formazioni rocciose scolpite nella... roccia. Circondate dall’acqua, queste piccole isole divennero lo sfondo teatrale della vita animale, osservate da visitatori che le guardavano senza alcuna barriera se non la distanza, come se gli animali si trovassero veramente nel loro ambiente naturale. Hagenbeck fece sua l’immaginazione coloniale dei suoi sostenitori, trasportandoli in immaginari luoghi esotici che dovevano suggerire l’habitat naturale degli animali, raggruppati a seconda della specie su ciascuna isola. Visitare il suo Giardino Zoologico a Roma, nel cuore di Villa Borghese, è un’esperienza totalmente differente dal passeggiare nel già citato microcosmo aristocratico fuori da Parigi, ma il mercante tedesco mi colpisce come l’erede ottocentesco di Monville, con il suo rivendicare la follia come strumento di marketing, creazione coloniale e fonte di intrattenimento per la borghesia.

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“Diana Mitford’s Temple de la Gloire,” 2020

Vi sono giraffe che brucano l’erba di fronte ad un minuscolo palazzo Mughul, zebre che riposano all’ombra di casette di argilla di Yoruba, e tigri che si aggirano in un tempio Khmer. Queste architetture e paesaggi in miniatura affascinavano i Vittoriani, che si muovevano in gregge alla ricerca di un incontro stimolante con l’altro e di un’affermazione fuggevole del loro dominio, in qualità di uomini, sugli animali o, in qualità di occidentali, sul resto del mondo. Purtroppo non sono un giardiniere, ma quello che ho potuto capire nei giardini dove ho trascorso del tempo e dai giardinieri che ho conosciuto, è che la caratteristica concettuale centrale della loro attività è il controllo. I profumi, i colori, le composizioni e le contrapposizioni, le tensioni e la tenerezza, perfino la vita e la morte sono il risultato di un’interazione /una trattativa continua fra il giardiniere e la natura. I capricci sono il prodotto dell'arroganza dell’uomo che per migliorare la natura selvaggia usa un metodo violento fino a creare cose meravigliose. Pensiamo a Diana Mitford in pseudo-esilio, dopo l’errore di giudizio di suo marito Oswald Mosly, capo dell’Unione Britannica dei fascisti, mentre si occupava delle sue rose nel capriccio Palladiano a Orsay, il Temple de La Gloire. C’è, ovviamente, un che di scioccante, ma anche totalmente appropriato, nel fatto che la moglie di un politico autoritario dovesse finire per risiedere in una costruzione totalmente classicheggiante, così compatta da far osservare alla Duchessa di Windsor, durante una visita: «Oh, è affascinante, ma lei dove vive?». Mentre l’area su cui sorge la Glass House di Philip Johnson è probabilmente quanto di più simile al Désert de Retz ci sia in America, e la sua Rockefeller guest house, sulla cinquantaduesima strada, può ricordare il Temple de la Gloire, la ricerca di capricci architettonici nella mia città mi ha condotto ad una visuale differente. Questa sorta di giardino comincia più o meno al sedicesimo piano e va a finire sotto circa 10mila galloni d’acqua. Per vederlo nella sua interezza deve essere collegato nelle sue parti, nello stesso modo in cui Neddy Merrill collega le piscine del suo quartiere di Westchester per formare il Fiume Lucinda, nel racconto breve “The Swimmer”, il nuotatore. I serbatoi idrici a torre, le battute d’arresto e le terrazze degli edifici di fianco al parco sulla Fifth Avenue e Central Park West rappresentano, nella mia mente, il più bel giardino in stile “folly” di New York, fortemente caratterizzato dai contributi di Emery Roth e Rosario Candela. Sfruttando il potenziale della battuta d’arresto, come richiesto dai codici di zona degli anni ’20, questi architetti adornarono i loro palazzi austeri e inespressivi con contrafforti, urne, cupole, volte e “folie” per nascondere i serbatoi idrici a torre che si trovano sempre su quella tipica invenzione newyorkese che è il grattacielo residenziale. Esplorare le terrazze di questi edifici equivale a vagare in un mondo diverso da quello della strada sottostante: una rete intricata di giardini nascosti e follie in cielo, sublimemente piccoli rispetto alla vastità della vista di cui si gode. È possibile che gli ideatori dei sobborghi revivalisti americani – estrapolando l’idea della follia come appannaggio dei ricchi e trapiantandola nel cuore ambizioso della middle class ante-guerra; realizzando miniature della residenza Tudor, della casa coloniale spagnola, e del castello medievale –stessero lavorando, alla fine dei conti, allo stesso progetto di Maria Antonietta quando aveva fatto costruire il suo Hermitage? O come Edward James quando aveva fatto la gettata di cemento per costruire Las Pozas nella foresta pluviale? Oppure come Niki de Saint Phalle quando aveva tagliato a mano i frammenti di piastrelle per il suo Giardino dei Tarocchi a Capalbio, in Italia? O, ancora, come Karl Lagerfeld quando aveva progettato di far uscire i suoi modelli in passerella facendoli passare attraverso una enorme giacca in bouclé? O come Not Vital quando aveva costruito una delle sue case per guardare il tramonto in ogni continente? Alla fine, forse, l’unica cosa che so con certezza delle “folie” è che si realizzano quando l’ampiezza del desiderio supera abbondantemente la dimensione della struttura.

“The roof of 780 Park Avenue by Rosario Candela, ”2020, by Adam Charlap Hyman

Portfolio curated by Kat Herriman 

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