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Finchè non saremo libere, la mostra a Brescia contro la violenza sulle donne e l'Iran

Finchè non saremo libere, è la mostra che si svogle a Brescia, presso il Museo Santa Giulia, contro la violenza sulle donne, il riconoscimento dei loro diritti - con un focus sull'Iran e le oppressioni del regime - e dell'identità di genere. Un mostra, inaugurata l'11 novembre 2023, di donne per le donne, ma anche un monito per gli uomini affinchè imparino ad accogliere e rispettare il femminile, non solo a oscurarlo e circoscriverlo.

Sonia Balassanian, Untitled (Self Portrait) - 04, 1982
Sonia Balassanian, Untitled (Self Portrait) - 04, 1982

Finché non saremo libereè la mostra dedicata alla condizione femminile nel mondo, con focus sull’Iran, del Museo Santa Giulia di Brescia. Il titolo deriva dal libro Finché non saremo liberi. IRAN la mia lotta per i diritti umani di Shirin Ebadi, avvocatessa e pacifista iraniana e prima donna musulmana Premio Nobel per la pace (2003). La mostra, curata da Ilaria Bernardi e voluta dal Comune di Brescia, Fondazione Brescia Musei con Alleanza Cultura e in collaborazione con l’Associazione Genesi, racconta il femminile esplorando molti temi, sociali e geo-politici. Ad aprire il percorso espositivo l’opera Becoming (2015), dell’unico artista maschile presente, anch’egli iraniano, Morteza Ahmadvand che riflette sulla convivenza tra culture e popoli servendosi dei tre simboli religiosi: la Croce, la stella di David e un cubo raffigurante la Kaaba islamica. A seguire le opere delle artiste donne contemporanee, provenienti da varie aree geografiche per arrivare all’area dedicata a quelle Iraniane, aperta dalle opere di: Soudeh Davoud e Shirin Neshat con “Women of Allah” (1994), che rappresenta una donna velata con i mano un fucile: guerriera e schiava allo stesso tempo.

Shirin Neshat, Stories of Martyrdom (Women of Allah series), 1994

E dalla complessità e dualità della Neshat, con l’immagine di quelle mani incerte ma consapevoli, si giunge a quella che risulta una delle parti più interessanti della mostra: quella dedicata a Sonia Balassanian e Farideh Lashai, nate in Iran negli anni ’40, e formatesi prima della rivoluzione islamica del 1979. Della Leshai è presente “Rabbit in Wonderland”, composta da sette opere riferite alle figure chiave che si sono opposte al regime iraniano nel XX secolo. Nell’animazione video installata, i conigli bianchi illustrati sono alla ricerca della tana e di una via di uscita, metafora della condizione nel Paese delle donne. E dalla speranza della Leshai si passa all’oblio conturbante della Balassanian, con i suoi ritratti-collage e la sequenza di disegni astratti “Brooding”, dove il corpo femminile rappresentato finisce per scomparire. Distrutto e sacrificato, come le quattro teste di agnello dorate a chiusura. In ultimo, l’installazione della contemporanea Zoya Shokoohi che offre un dolce ai visitatori: una fetta di torta alla panna, in cambio un respiro da rinchiudere in un barattolo, da donare a tutti coloro che vivono “senza poter respirare”. E qui capiamo come “Finché non saremo libere” è più di una mostra. È un inno di battaglia.



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Sonia Balassanian, The Flock, 2008
Farideh Lashai, Keep Your Interior Empty of Food; that You Mayest Behold There in the Light of Interior, Clergies, 2010

Un’incitazione a farsi valere, ascoltare e rispettare. Una frase per tutte le donne che vivono nell’ombra del suprematismo maschile: a casa, al lavoro, nei luoghi comuni o nel proprio Paese. Si, perché ci sono tante donne schiave della propria condizione, senza sapere bene come porvi fine. Cosa fare. A chi chiedere aiuto. Schiavismo, anche  psicologico, in cui vivere di accettazione sembra essere l’unica via di uscita, che si trasforma nella loro, o anche nostra, gabbia personale. Una risposta inconsapevole a qualcosa che arriva a sembrarci giusto e normale, anche nella violenza e nel sopruso. E allora si, “Finchè non saremo libere” deve diventare il motto di rivalsa, un modo per ricordarci di combattere tutte le nostre battaglie. Piccole o grandi che siano. Un motto che arriva da lontano: “Ji, Jiyan, Azadi” che in arabo significa “Donna, Vita, Libertà”, non si riferisce solo alla libertà della donna ma a quella di un’intera società repressa: quella iraniana. Si diffuse tra il 2022 e 2023, a supporto delle proteste a Teheran, dopo la morte di Mahsa Amini, arrestata nella capitale per non aver indossato correttamente l’hijab e successivamente deceduta in carcere per percosse. (A distanza di un anno - ottobre 2023 - sono ricominciate, e forse non si sono mai fermate, dopo la morte di un’altra giovane; la sedicenne Armita Geravand deceduta dopo 28 giorni di coma, per le stesse cause e circostanza della Amini). Lo slogan però, trova le sue radici nella letteratura curda e assunse valenza di lotta politica, quando le donne (curde) si ribellarono all’oppressione statale e del patriarcato in Turchia negli anni ’60 e ’70. Successivamente, anche in Siria le donne curde usarono lo stesso motto nella lotta contro l’Isis. Una lotta per la condizione di genere che deve trovare riscontro in un supporto globale. L’arte è uno di quei settori in cui la rivolta, la lotta e la disobbedienza sono sempre state ben accolte e manifestate. Un linguaggio per raccontare e mostrare ciò che accade sotto i nostri occhi e anche più lontano. Sicuramente non è abbastanza, ma è un punto di partenza affinché quei mancati respiri possano trovare un po’ d’aria. 

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