Finchè non saremo libere, la mostra a Brescia contro la violenza sulle donne e l'Iran
Finchè non saremo libere, è la mostra che si svogle a Brescia, presso il Museo Santa Giulia, contro la violenza sulle donne, il riconoscimento dei loro diritti - con un focus sull'Iran e le oppressioni del regime - e dell'identità di genere. Un mostra, inaugurata l'11 novembre 2023, di donne per le donne, ma anche un monito per gli uomini affinchè imparino ad accogliere e rispettare il femminile, non solo a oscurarlo e circoscriverlo.
Finché non saremo libere, è la mostra dedicata alla condizione femminile nel mondo, con focus sull’Iran, del Museo Santa Giulia di Brescia. Il titolo deriva dal libro Finché non saremo liberi. IRAN la mia lotta per i diritti umani di Shirin Ebadi, avvocatessa e pacifista iraniana e prima donna musulmana Premio Nobel per la pace (2003). La mostra, curata da Ilaria Bernardi e voluta dal Comune di Brescia, Fondazione Brescia Musei con Alleanza Cultura e in collaborazione con l’Associazione Genesi, racconta il femminile esplorando molti temi, sociali e geo-politici. Ad aprire il percorso espositivo l’opera Becoming (2015), dell’unico artista maschile presente, anch’egli iraniano, Morteza Ahmadvand che riflette sulla convivenza tra culture e popoli servendosi dei tre simboli religiosi: la Croce, la stella di David e un cubo raffigurante la Kaaba islamica. A seguire le opere delle artiste donne contemporanee, provenienti da varie aree geografiche per arrivare all’area dedicata a quelle Iraniane, aperta dalle opere di: Soudeh Davoud e Shirin Neshat con “Women of Allah” (1994), che rappresenta una donna velata con i mano un fucile: guerriera e schiava allo stesso tempo.
E dalla complessità e dualità della Neshat, con l’immagine di quelle mani incerte ma consapevoli, si giunge a quella che risulta una delle parti più interessanti della mostra: quella dedicata a Sonia Balassanian e Farideh Lashai, nate in Iran negli anni ’40, e formatesi prima della rivoluzione islamica del 1979. Della Leshai è presente “Rabbit in Wonderland”, composta da sette opere riferite alle figure chiave che si sono opposte al regime iraniano nel XX secolo. Nell’animazione video installata, i conigli bianchi illustrati sono alla ricerca della tana e di una via di uscita, metafora della condizione nel Paese delle donne. E dalla speranza della Leshai si passa all’oblio conturbante della Balassanian, con i suoi ritratti-collage e la sequenza di disegni astratti “Brooding”, dove il corpo femminile rappresentato finisce per scomparire. Distrutto e sacrificato, come le quattro teste di agnello dorate a chiusura. In ultimo, l’installazione della contemporanea Zoya Shokoohi che offre un dolce ai visitatori: una fetta di torta alla panna, in cambio un respiro da rinchiudere in un barattolo, da donare a tutti coloro che vivono “senza poter respirare”. E qui capiamo come “Finché non saremo libere” è più di una mostra. È un inno di battaglia.
Un’incitazione a farsi valere, ascoltare e rispettare. Una frase per tutte le donne che vivono nell’ombra del suprematismo maschile: a casa, al lavoro, nei luoghi comuni o nel proprio Paese. Si, perché ci sono tante donne schiave della propria condizione, senza sapere bene come porvi fine. Cosa fare. A chi chiedere aiuto. Schiavismo, anche psicologico, in cui vivere di accettazione sembra essere l’unica via di uscita, che si trasforma nella loro, o anche nostra, gabbia personale. Una risposta inconsapevole a qualcosa che arriva a sembrarci giusto e normale, anche nella violenza e nel sopruso. E allora si, “Finchè non saremo libere” deve diventare il motto di rivalsa, un modo per ricordarci di combattere tutte le nostre battaglie. Piccole o grandi che siano. Un motto che arriva da lontano: “Ji, Jiyan, Azadi” che in arabo significa “Donna, Vita, Libertà”, non si riferisce solo alla libertà della donna ma a quella di un’intera società repressa: quella iraniana. Si diffuse tra il 2022 e 2023, a supporto delle proteste a Teheran, dopo la morte di Mahsa Amini, arrestata nella capitale per non aver indossato correttamente l’hijab e successivamente deceduta in carcere per percosse. (A distanza di un anno - ottobre 2023 - sono ricominciate, e forse non si sono mai fermate, dopo la morte di un’altra giovane; la sedicenne Armita Geravand deceduta dopo 28 giorni di coma, per le stesse cause e circostanza della Amini). Lo slogan però, trova le sue radici nella letteratura curda e assunse valenza di lotta politica, quando le donne (curde) si ribellarono all’oppressione statale e del patriarcato in Turchia negli anni ’60 e ’70. Successivamente, anche in Siria le donne curde usarono lo stesso motto nella lotta contro l’Isis. Una lotta per la condizione di genere che deve trovare riscontro in un supporto globale. L’arte è uno di quei settori in cui la rivolta, la lotta e la disobbedienza sono sempre state ben accolte e manifestate. Un linguaggio per raccontare e mostrare ciò che accade sotto i nostri occhi e anche più lontano. Sicuramente non è abbastanza, ma è un punto di partenza affinché quei mancati respiri possano trovare un po’ d’aria.