Le signore dello Strega
Dopo la breve passeggiata per i corridoi asfittici degli scarabei di Piano, lo Strega è tornato a casa sua: Villa Giulia. Come succede spesso, anche in questo caso, l’innovazione non ha battuto la tradizione. Una fila di editori, scrittori, gente della Tv, giornalisti, arriva fino alla strada. Sbuffano, si sventolano, ridono, scivolano sulla ghiaia, si fanno i selfie. Controlli serrati, lentezza stroboscopica. Quando finalmente si riesce ad entrare una specie di luce ovattata ma nello stesso tempo forte ti sgrana le pupille. I tavoli ai lati e il corridoio centrale pietroso infestato da personaggi d’ogni tipo sembra un gigantesco mondo a parte, circondato dagli archi affrescati del giardino rinascimentale. Tavoli agghindati pieni di fiori arancioni, forse gigli, bicchieri mezzi vuoti con impronte di rossetto rosa shocking sul bordo, tazzine con fondi di caffè da leggere, piccoli contenitori di plastica con dentro formaggio e miele, mini-sacher, macedonia, gelato allo Strega sciolto. Brodaglie indistinguibili. Ma con quella luce e le annesse pupille dilatate tutto sembra buonissimo. E allora si mangia, si divora. Appena passa un cameriere in bianco con il suo vassoio argento pieno di misere vaschette di plastica con cibi informi dentro, tutti all’arrembaggio, e il cameriere quasi casca, ma non importa, bisogna saccheggiarlo prima che arrivi ai tavoli. Sarà la luce, e le pupille. Saranno i tacchi che sprofondano sul serio nell’erba e sembra di precipitare ad ogni passo, di scendere ai piani inferiori. Sarà la varietà.
Ci si muove a stento fra i tavoli, per trovare il proprio, i numeri sono coperti, come se fosse una tombola. Ci si siede in mezzo a gente che non si conosce, tutti rigorosamente agèe, parzialmente saggi o chiacchieroni. Una signora vegetariana -perché il vegan è una cosa troppo da giovani- con degli orecchini giganti, pendenti azzurri, ha delle molliche in giro per il mento ma non le interessa, le porta con nonchalance. Un giornalista pentito figlio di due spie parte con un racconto senza sosta, un po’ di miele sui baffi, spie, divorzi, una briciola di cioccolato sui pantaloni crema, armi, strategia, spie, ancora spie, vino bianco. Mentre sulla passerella centrale passa quel mondo incantato -sempre per colpa della luce-, perfettamente osservabile dalle sedie trasparenti disposte intorno ai tavoli. Passa, passeggia, zoppica, un’umanità composta da giovani flessuose damine laccate, signore ingioiellate fino ai mignoli dei piedi, distinti barbuti in frac, gente gobba, gente troppo dritta, alcuni sbottonati, altri troppo abbottonati. Signore panna, minimal, faccia appena lavata -perché noi ci prendiamo sul serio- e signore abbronzatissime dai colori accesi, trucco pesante, tette schiacciate sul mento, tacchi alti che s'infilano nella terra e scompaiono, fanno fatica a tirare su di nuovo il piede, c'è della gravità, sembra una scena girata a rallentatore. La donna dal vestito rosso -ci entra a malapena ma lo sfoggia con fierezza dondolante-, nera come un tizzone, che muove la bocca gonfia dello stesso colore del vestito senza sosta, è la madrina improbabile della serata. E le signore senza trucco che si prendono tanto sul serio sorseggiando uno Strega mule (!) si girano a guardare e dicono con il naso arricciato -ma l'hai vista? Non c’è più la selezione di una volta. Poi un vestito nero a rete, sotto niente, solo un paio di culottes -e non si trattava di Jane Birkin- le fa capitolare del tutto. Forse lei è la vice-madrina della serata, alla faccia del color cipria e del monocromo imperante. L'atmosfera si fa sempre più tropicale, umanità variegata e sudata, tutta mischiata, a sgomitare per una tartina, o per un po’ di punch arancione -chissà a che gusto era, sicuramente era pieno d’insetti.
Poi l'angolo segreto. Il punto dietro al tavolo dei giudici, un balcone immerso nel buio, capitelli dorici, cessi chimici, una Venere, una fontana, rose rosse. Affaccio su un buco, a terra un mosaico con divinità dei fiumi e cariatidi di Vasari. Si vede finalmente il Ninfeo, la parte bassa della Villa, dove si mangiava quando faceva caldo, sotto alla vigna. Spoglio, proclamazione: ognuno vicino al proprio candidato del cuore, come durante una finale di Champions, ma senza urla, in silenzio, si aspetta il numeretto. Solo allora se ne fregano tutti delle transenne rosse di maglia intrecciata che separano i tavoli normali dai tavoli gold, quelli degli scrittori in cinquina e dei loro parenti, degli amici della domenica e degli editori. Si oltrepassa e si sta in cerchio, vicini. Poteva esserci chiunque su quel palco, come in Shining: la gente cambia, è il posto ad essere stregato. Con i suoi riti, i gesti ripetuti, la fisiologia strana del Ninfeo, si entra per una sera in una piccola bolla incantata, e non importa del radicalshicchismo o dei discorsi vani, della fila per una tartina o della spocchia. Cognetti vince e sorseggia il liquore come da tradizione. Non importa nemmeno se indossa un ridicolo foulard, l'orecchino, la cinta borchiata e tutto il resto. L'unica cosa importante è la sua bocca che beve dalla bottiglia gialla, come da tradizione. Dopo poco si abbassano le luci, partono i Massive Attack e tutti si avvicinano ancora di più, tono di voce ancora più basso, sedie cadute, quasi sprofondate come i tacchi, gambe aperte, occhi al cielo, carte che volano. Tutto si sbraca benissimo. E pian piano cala il sonno e svanisce l’incantesimo, le pupille si riassestano a tre millimetri, la signora in rosso torna ad essere una signora in rosso e pure il punch torna ad essere solo un punch.