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Costume GENIUS: l'intervista a Massimo Cantini candidato all'Oscar

Candidato allOscar per il film “Pinocchio”, Massimo Cantini Parrini ha appena firmato gli abiti del “Cyrano” di Joe Wright.

Massimo Cantini Parrini
Massimo Cantini Parrini

Text by FABIA DI DRUSCO

Photography DAVIDE MUSTO

Chissà se il 25 aprile Massimo Cantini Parrini avrà vinto l’Oscar. Forse invece il premio per il miglior costume designer sarà stato assegnato a Trish Summerville per “Mank”, il film di David Fincher grande favorito della vigilia con dieci nomination. O ad Ann Roth, veterana di Hollywood (suoi già i costumi di “Un uomo da marciapiede”), per “Ma Rainey’s black bottom”, concorrente di tutto rispetto, con quattro precedenti nomination, l’Oscar nel ’96 per “Il paziente inglese”, la collaborazione con Anthony Minghella continuata con “Il talento di Mr. Ripley” e “Cold Mountain”. E prima ancora con film che hanno segnato la storia del costume da “Hair” a “Una squillo per l’ispettore Klute”, fino alla summa degli inguardabili anni ’80: “Una donna in carriera”; creatrice infine dell’immagine indelebile di Nathalie Portman in parrucca rosa fluo e solo uno scintillio di strass sul corpo in “Closer”. O magari avrà vinto Alexandra Byrne, alla sesta nomination per “Emma”, la creatrice delle superbe, stilizzatissime mises di Cate Blanchett nei due Elizabeth di Shekhar Kapur, vincitrice dell’Oscar con il secondo, “Elizabeth: The Golden Age”. O Bina Daigeler, per “Mulan”, in curriculum “Tutto su mia madre” e “Volver” di Almodóvar, i due biopic sul Che di Soderbergh e quella piccola meraviglia di “Solo gli amanti sopravvivono” di Jim Jarmusch, con Tilda Swinton col caftano giallo... Comunque sia andata, per Cantini Parrini il riconoscimento dell’Academy, tributato ai suoi costumi per il “Pinocchio” di Garrone, è stata la consacrazione a degno continuatore di quella cultura e craftmanship del costume caratteristica dei suoi (grandi) maestri: Piero Tosi e Gabriella Pescucci. Allievo al Centro Sperimentale di Cinematografia di Tosi, il maestro cui si devono i costumi per l’esigentissimo Visconti in “Senso”, “Il Gattopardo”, “La caduta degli dei”, “Morte a Venezia”, “Ludwig”, come anche quelli della “Medea” di Pasolini e de “Il portiere di notte” della Cavani, Cantini Parrini entra alla Sartoria Tirelli dove diventa l’assistente di Gabriella Pescucci, premio Oscar per “L’età dell’innocenza” di Scorsese. «È stato come entrare in una bottega rinascimentale», ricorda lui. Tra i suoi primi lavori, “La trattativa” di Sabina Guzzanti, seguito, nel 2015, da “Il racconto dei racconti”, che segna l’inizio della collaborazione con Matteo Garrone, proseguita con “Dogman” e “Pinocchio”. «Garrone non mi conosceva, ma voleva un giovane e aveva chiesto a Tosi di fargli un nome».

L'OFFICIEL ITALIA: Come è nata la tua passione per il costume?

MASSIMO CANTINI PARRINI: L’ho sempre avuta, fin da bambino. Aprire gli armadi di famiglia e trovarvi abiti anni ’20 dei miei bisnonni era meraviglioso. Ho iniziato a collezionare abiti d’epoca a 13 anni. Allora il vintage non era di moda, si buttava tutto, andavi ai mercatini delle pulci e trovavi Dior, Balmain, Chanel... Per me c’era l’esigenza di sottrarre alla distruzione questi frammenti di vita. All’inizio pensavo di fare lo storico del costume.

LOI: Qual è il pezzo più incredibile della tua collezione? E dove e come la conservi?
MCP: La collezione è sparsa tra Firenze e Roma, gli abiti del ’900 sono appesi, quelli più vecchi sono chiusi in scatole. Vanno curati, ogni sei mesi bisogna cambiare il modo in cui sono sistemati, per non imprimervi delle pieghe. Quando faccio nuovi acquisti, li metto sui manichini, per studiarli nel dettaglio. Non ho “un” pezzo favorito, il più antico è un corpetto del 1640. Del ’900 ho degli Schiaparelli, dei Fortuny, abiti della Wiener Werkstätte... La collezione è composta da oltre 4.000 pezzi e arriva fino agli anni ’90, perchè è ancora presto per capire quali saranno i capi iconici degli anni 2000. Anche se mi sono ripromesso di non aspettare troppo: mi mangio ancora le mani per non aver acquistato dei Versace anni ’90, poi diventati super iconici. Compro sempre nei mercati, mai alle aste, perché mi piace scoprire le cose.

LOI: Hai lavorato anche coi fratelli D'Innocenzo e immaginato i particolarissimi costumi di "Miss Marx" con Romola Garai.
MCP: In “Miss Marx” ho usato anche maglioni degli anni ’70 di mia madre, ma praticamente nessuno se n’è accorto, a dimostrazione che se la forma è giusta e la silhouette è giusta puoi fare di tutto. Eleanor Marx era una grande sostenitrice dei diritti delle donne, e gli anni ’70 sono stati quelli delle prime grandi battaglie femministe: il mio è un lavoro antropologico, si tratta di raccontare il personaggio attraverso i costumi.

LOI: Chi ti piace tra i costume designer? Com’è stato lavorare con Maria Grazia Chiuri? (per "Le mythe Dior", il video di Garrone di presentazione dell'Alta Moda F/W 2021)? Che rapporto hai con la moda?
MCP: Ammiro Maurizio Millenotti (due nomination agli Oscar, per “Amleto” e “Otello” di Zeffirelli, nda), Milena Canonero, Sandy Powell. Lavorando con Maria Grazia ho capito quanto la moda guardi al costume e quanto la moda aiuti noi a svecchiare il passato. Adoro Viktor & Rolf, Margiela, Galliano. Penso che Piccioli sia stato molto bravo a portare modernità all’alta moda di Valentino senza stravolgere l’identità del brand.

LOI: Nel tuo lavoro sarai molto influenzato anche dalla pittura...

MCP: Tanto, anche se dopo il 1840 mi documento soprattutto sulla fotografia. E guardo molto alla caricatura perchè da lì esce la verità dell’abito vissuto, non l'immagine idealizzata della pittura.

LOI: Come è nato il tuo abito più celebre primo post del tuo profilo Instagram , l'abito rosso di Salma Hayek ne "Il racconto dei racconti"?

MCP. Erano arrivati dei campioni di stoffa da Tirelli, sono stato folgorato dalla certezza che l’abito dovesse essere rosso. È diventato il mio simbolo, richiesto in tutte le mostre: l’equivalente dell’abito da ballo della Cardinale ne Il Gattopardo” per Tosi.

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