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La vita come una sitcom: come mai ci innamoriamo delle serie tv?

In un momento in cui si pensa molto a "quello che ci aspetta", il nostro scrittore si chiede cosa possa insegnarci un genere un tempo molto apprezzato sul confronto fra vita e fiction. E se non sarebbe decisamente meglio abbracciare entrambe.

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Artwork di Francesco Vezzoli

La definizione è il primo problema che si presenta nel parlare di sitcoms. Che cos’è una sitcom? Quali sono i limiti del termine? Se diciamo che “Friends” è la sitcom per eccellenza, viene naturale chiedersi se non rappresenti un vero e proprio genere in sé. L’etimologia della parola può aiutare a spiegarne il significato. Sitcom è la forma contratta di “situation comedy.” Quindi, un sistema comico legato a una situazione. La parola “situazione” è una di quelle difficili da inquadrare: la si può definire come la presenza di persone e oggetti all’in- terno di un ambiente. Nello specifico, sitcom potrebbe significare la presenza comica di oggetti e persone all’interno di un determinato ambiente. Questo stesso termine (in inglese “location”) suscita una serie di domande: possiamo definirlo come un set preciso, che non cambia mai – come accadeva nelle prime situation comedies originali degli anni ’50 e ’60? O può trattarsi forse di una città intera, ad esempio, come nella più moderna serie “Beverly Hills 90210”, che presentava in realtà una commistione di generi? Cosa accade se l’ambiente è centrale, ma l’azione del programma si svolge in molti altri luoghi – come si può vedere nello show di grande successo “Chiami il mio Agente!”, in onda su Netflix Francia?

Un’altra difficoltà nell’individuare il significato di situation comedy è legata all’origine di questo genere: le sitcom sono considerate un vero e proprio colosso culturale americano. Negli anni ’80 ovunque nel mondo tutti guardavano le serie comiche americane. Matthew Perry e Jennifer Aniston erano nostri amici. Quelli di noi che appartengono alla pre generazione Z li hanno conosciuti come loro contemporanei, e ora le nuove generazioni li guardano in streaming. Si potrebbe arrivare a sostenere che la conoscenza delle sitcom separa coloro che ormai appartengono a un mondo passato – quello della cultura americana esportata all’estero, nella quale poche serie dominavano il globo – dagli abitanti del nuovo mondo, che percepiscono i Millennials come già troppo vecchi, e che non hanno bisogno di vivere l’esperienza delle sitcoms come una finestra sulla vita, perché per loro la vita stessa è una sitcom.

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“The Reunion (Rachel on Tinder)”, 2021, #francescovezzoli

Quello che caratterizzava la sitcom era la presenza di personaggi abituali in un ambiente che diventava per noi familiare quanto l’ambiente in cui viviamo. Eravamo abituati agli appartamenti in “Friends” come lo eravamo alle nostre case, nonostante vivessimo a New York, Parigi, Tokyo, Delhi, Lagos o Los Angeles. In un’epoca in cui si cessava di avere una “casa base” – grazie ai viaggi in giro per il mondo, nel caso dei più fortunati di noi, o alla scoperta di nuovi mondi su internet, possibilità, questa, accessibile a tutti – le sitcoms ci davano una rassicurante sensazione di “casa”. Queste persone avevano una casa. Avevano una vita. Vivevano, amavano, erano amiche. L’americanità di questa utopia – l’utopia della felicità sociale – andava al di là della globalizzazione della cultura, e diventava localizzazione: Brasile, India, Francia, Italia, Spagna e America Latina cominciarono tutti a creare la loro versione personale di questi amici fittizi. Volevamo essere parte dell’utopia di avere una casa e degli amici, di amare, vivere, e restare per sempre giovani. Questi amici erano la famiglia che sognavamo di avere. La famiglia ci viene data, e noi stessi la diamo ad altri. Ci definisce, e noi la definiamo. È il centro delle nostre vite. Le sitcom ci offrivano la possibilità di crearci una famiglia di nostra scelta nella fiction.

Anche per chi era giovane e aveva amici e una famiglia felice, quella offerta dalle sitcom era una versione della vita migliore di quella che si aveva. Era possibile che ci fossero principi a Bel-Air, e nonostante il personaggio della serie fosse vagamente basato sulle esperienze personali di Will Smith, nessuno aveva veramente una vita come quella del “Principe”. La compressione, serializzazione e trasformazione della vita quotidiana rendeva la sua vicenda un sogno per tutti noi.

Le sitcom sono considerate un vero e proprio colosso culturale americano. Vogliamo essere parte dell'utopia di avere una casa, avere amici, amare, vivere ed essere giovani per sempre.

A tal proposito, le sitcom portarono alla nascita di un certo genere di reality show. Le sorelle Kardashian erano davvero le protagoniste di una sitcom, ma il programma era la presunta cronaca della loro vita vera. Il permettere che la propria vita venisse filmata per gli altri era profondamente Duchampiano: trasformava la vita in un prodotto pre-confezionato. Ovviamente, la scelta della vita da raccontare non era casuale, cosí come non era veramente pre-confezionata. Era invece la scelta deliberata di presentare un tipo di concetto al pubblico.

I personaggi delle sitcom – come succede nella reality TV – non hanno una psicologia. Provano delle passioni, sì, e vengono travolti da sentimenti forti, ma poi la vita continua. Nella versione sitcom dell’esistenza, non c’è spazio per il risentimento. Nel corso delle varie stagioni sia l’odio che l’amore passano. Talvolta ritornano. Ma questi personaggi non agiscono in base al proprio bagaglio emozionale, vivono in uno stato permanente di reazione al singolo momento.

Ricordo quando, ad una cena a casa di Azzedine Alaïa, di cui ero un amico stretto e un collaboratore, spiegai a Kim Kardashian i motivi per cui Pierre Guyotat aveva scritto “Coma”. Lui parlava del tentativo di scagionarsi, dell’essere consapevole di trovarsi su un palcoscenico o in un campo. E Kardashian si trovò d’accordo con me: era esattamente quello che lei faceva e come viveva la sua vita. Trasformandosi in una sorta di palcoscenico dove far accadere le cose, rifiutando così la separazione tra dimensione privata e quella pubblica. La vita era un tutt’uno, e scorreva in un flusso continuo. Nel caso sia della Kardashian sia di Guyotat – con le dovute differenze, naturalmente – queste sono state scelte esistenziali, eroiche. Lasciarsi cogliere come creatori di immagine e testualità, essere contemporaneamente se stessi e altri, identificabili e contemporaneamente figure vuote in cui altri si possano identificare. In “Ione”, Platone parla di “entusiasmo”, o di essere posseduto da una divinità che dona poesia alla nostra voce. Per essere posseduti è necessario essere vuoti. Non è possibile provare sentimenti complessi, sfaccettati, conflittuali. Al contrario, questi ci attraversano, e noi siamo il vascello che li trasporta in una direzione o nell’altra .

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“The Reunion (Joey on Grindr)”, 2021, #francescovezzoli

Questo modo di pensare andando oltre la dimensione psicologica si estese alla cultura grazie alle sitcom: poiché non venivano solamente definite dai loro protagonisti, ma dalla situazione, non parlavano dei personaggi. Erano gli ambienti che venivano sfruttati, spostati, cambiati. Non c’era niente di personale, e per questo le serie assumevano un valore relazionale. Le sitcom erano interamente dedicate alle relazioni: tra famiglie, amici, amici che diventavano come famiglie. Per molti di noi le persone sui nostri teleschermi erano anche i nostri amici, la nostra famiglia.

C’è una classica, tradizionale definizione di sitcom, legata all’idea di un set che non cambia mai. Un’altra associa invece quello stesso set ad un’altra era – non abbiamo ancora superato l’epoca delle sitcom? Oppure potremmo estenderne il significato al presente, ed è quello che farei io. Perché in tal caso potrebbero diventare un’affascinante metafora per descrivere ciò che sia- mo diventati: chiamiamo amici persone che i nostri predecessori avrebbero considerato estranei, non distinguiamo tra realtà e finzione e abbiamo un’idea romantica, a tratti surreale, delle nostre vite. Forse una volta le sitcom erano una forma di fuga dalla quotidianità, ci mostravano la vita che avremmo voluto avere e che credevamo ci fosse dovuta. Sei una Carrie? Sei una Miranda o una Samantha? Una domanda comune negli anni ’90.

Ciò è sicuramente legato a un desiderio di evasione. Ma soprattutto le situation comedies ci consentivano di portare la magia nelle nostre vite. Ci davano degli amici che non vo- levano essere nostri amici. Una delle loro caratteristiche essenziali era l’esistenza di una sorta di compagnia, un gruppo di attori, che noi sognavamo essere nostri amici. Dovevano esserlo per appartenerci. Le sitcom ci facevano credere che la vita potesse essere un romanzo, un’avventura epica, una serie – e tale concetto si è successivamente esteso alla reality TV e ai social media.

Le sitcom incarnano una metafora affascinante di come stiamo vivendo nel mondo contemporaneo: chiamando degli estranei amici, non distinguendo il confine tra realtà e finzione e romanzando le nostre stesse vite.

Instagram, Facebook, Twitter, ogni social media è una sorta di sitcom a cui ciascuno di noi sta partecipando, in maniera più o meno cosciente. Come direbbe William Shakespeare: «Tutto il mondo non è che un palcoscenico, e tutti gli uomini e le donne ne sono gli attori». Ma cosa succederebbe se deci- dessimo come collettività di non avere bisogno di evasione? E che non ci servono amici fittizi? Le nostre stesse vite potreb- bero diventare una fiction, e noi gli eroi delle nostre storie. Ci amiamo, non ci amiamo piú, siamo amici, non lo siamo, ci parliamo, non ci parliamo. Condividiamo le nostre vite.

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“The Reunion (Phoebe on Tinder)”, 2021, #francescovezzoli

Nell’ultimo anno molti di noi si sono ritrovati confinati in casa, soli o con qualcuno di importante, una famiglia, o un animale domestico. Non proprio il set di una sitcom in cui si alternano diversi personaggi. Si potrebbe realizzare una sitcom ambientata nel lockdown? In effetti molti, in giro per il mondo, hanno provato a farlo, filmandosi, creando spezzoni di una vita nella quale la nozione di comunità era stata quasi cancellata. I loro tentativi hanno evidenziato i due limiti dell'esperimento: uno è l’aspetto narrativo, quello che manca completamente nelle nostre vite in questo momento. Che cosa fare, cosa succede dopo... rispondere a queste domande è diventato molto difficile ultimamente considerando la situazione globale. L’altro elemento totalmente mancante è la comunità: la famiglia l’interazione faccia a faccia tra due gruppi, l’aspetto teatrale delle relazioni interpresonali. Non c’è quasi nessuna teatralità nella solitudine o nella vita trascorsa con una persona soltanto. Ogni tipo di teatralità rischierebbe di sembrare falsamente forzata.

Tale situazione ci ha fatto capire come potrebbe essera la nostra vita da sitcom in un futuro anche prossimo. L’unica possibilità che ha di esistere è insistere sulle relazioni, l’interazione, il fatto che siamo tutti insieme, che i nostri gruppi di amici sono migliori quando possono andare e venire, trovarsi e di nuovo separarsi; e che, solo accettando queste condizioni saremo in grado di fare miracoli ogni giorno, in qualsiasi momento. Nelle nostre vite da sitcom accetteremo che c’è posto per il divertimento, per la rabbia, che si può essere in un luogo e molti altri, e che gli amici e la famiglia sono il frutto di relazioni che si costruiscono e che vanno coltivate nel tempo e con grande cura. E forse, un giorno, la vostra vita diventerà essa stessa una situation comedy. Un rovesciamento degno di unopera darte create da Marcel Duchamp.

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