L'ART: Jenna Gribbon è 'allo Specchio' in Collezione Maramotti
«Abbiamo ancora del lavoro da fare per convincere il mondo che le donne non sono idee e non sono intercambiabili», denuncia Jenna Gribbon, ora in Collezione Maramotti con la mostra “Mirages”.
La mostra “Mirages”, la prima dell’artista statunitense Jenna Gribbon in una istituzione europea, è un corpus di dieci opere concepito appositamente per essere esposto nella Pattern Room di Collezione Maramotti (fino al 19 febbraio). Con un unico soggetto – plasmato con colori vividi e pennellate sensuali –, la compagna dell’artista, la musicista Mackenzie Scott (Torres).
L’OFFICIEL ITALIA: Puoi parlarci del processo di ricerca per le tue opere?
Jenna Gribbon: Non direi che i miei dipinti richiedono una “ricerca”. Seguo il filo dei miei interessi e lascio che la realizzazione dell’opera porti all’idea successiva.
LOI: "Mirages" sarà la prima mostra personale in un’istituzione europea, in Fondazione Maramotti. Come l’hai preparata?
JG: Poiché questa mostra è costituita da opere nuove, l’approccio non è stato molto diverso da quello adottato per altre mostre. Essenzialmente, inizio. Inizio a dipingere, a inseguire le mie idee. L’idea di “Mirages” era quella di esplorare come ci si sente a cercare di afferrare un’immagine, e al tempo stesso la realtà di un’altra persona.
LOI: Quanto è rilevante il concetto di voyeurismo nel tuo lavoro?
JG: Il mio lavoro è incentrato nel guardare lo sguardo altrui, descrivere le dinamiche di potere che si instaurano tra soggetto, artista e spettatore. Il voyeurismo è un elemento di tutto ciò. In generale lo si nota di più nei dipinti piccoli, perché sono rubati a momenti reali in cui osservo la mia compagna, e lei può esserne consapevole o meno. I dipinti più grandi hanno un punto di partenza più consensuale, in cui lei svolge consapevolmente il suo ruolo di soggetto.
LOI: I colori, le pennellate dei tuoi quadri rappresentano il tuo stato d'animo?
JG: No. Le pennellate evidenti servono a richiamare l’attenzione sul fatto che l’immagine è mediata dalla pittura. Mi piace che la gente mantenga la sensazione di guardare un quadro, non una persona. Cerco sempre di evidenziare il modo in cui un’immagine è mediata, che sia attraverso la pittura, la luce – che ha un effetto incredibile sul modo in cui interpretiamo un’immagine – un riflesso o una lente.
LOI: La rappresentazione delle donne nelle tue opere è anche politica? Se sì, in che modo?
JG: Sì. Dipingere dal punto di vista di una donna in relazione intima con un’altra donna è politico a causa della mancanza di rappresentazione di questo tipo di relazioni. È molto raro nella storia della pittura, e anche oggi. Ma forse è ancora più importante il fatto che i miei dipinti esplorano l’idea di soggettività, in un modo che, si spera, richieda una risposta empatica da parte dello spettatore. I dipinti vogliono che ci si soffermi su ciò che la donna (in questo caso Mackenzie) sta passando per essere il nostro soggetto. È uno sforzo, voglio che si percepisca la realtà della sua nudità e della sua personalità. È anche per questo che la dipingo più volte, per familiarizzare il pubblico con lei e darle una specificità. La cosa sconvolgente è che abbiamo ancora del lavoro da fare per convincere il mondo che le donne non sono idee e non sono intercambiabili. Dobbiamo ancora lottare per convincere il mondo della nostra umanità.
LOI: Gli abiti presenti nelle tue opere hanno un significato particolare?
JG: I quadri piccoli hanno un aspetto documentaristico e ritraggono momenti estrapolati dalla vita reale, quindi Mackenzie di solito indossa ciò che porta realmente in quel momento. I dipinti di grandi dimensioni sono invece costruzioni, devo pensare a cosa farle indossare. In generale cerco di mantenere l’abbigliamento, se c'è, senza tempo e senza generi. Spesso la ritraggo con gli stivali da cowboy. In molti dipinti si trova in una posizione così vulnerabile come soggetto… e mi sembra che farle indossare gli stivali le permetta di mantenere un po’ del suo potere.
LOI: Nella tua vita personale, l'abbigliamento ha un ruolo importante?
JG: Mi vesto nel modo in cui dipingo. Per il mio piacere. A volte questo significa indossare poco per poter sentire la mia pelle. E adoro gli scudi opachi, i cappotti pesanti. Uso i vestiti come la pittura. Penso al colore, all’opacità, alla consistenza, ma alla fine si tratta di un dialogo con il mondo esterno in cui considero ciò che mi piace rivelare o non rivelare di me stessa. Spesso questo significa andare in incognito, in modo che piuttosto che attirare l’attenzione su di me sia io a poter osservare.