Interviste

"A Tailoring Conversation" con Maria Giulia Prezioso Maramotti e Ian Griffiths

Maria Giulia Prezioso Maramotti, terza generazione della famiglia e Ian Griffiths, Max Mara Creative Director, raccontano 70 anni di stile firmati Max Mara. 

Un'immagine della Manifattura Max Mara di San Maurizio (Reggio Emilia).
Un'immagine della Manifattura Max Mara di San Maurizio (Reggio Emilia).

Grande brand del made in Italy Max Mara è stato fondato nel 1951 a Reggio Emilia da Achille Maramotti. Sua madre nel 1925 aveva avviato in città una scuola di cucito e modellistica, dopo avere ereditato la passione per la moda dalla nonna, dal 1850 alla guida di un atelier nelle vie del centro. Lui capisce che il destino delle sartorie è destinato a cambiare dopo la guerra. Guarda all’America, all’efficienza dei loro processi industriali da innestare sul saper fare dell’artigianalità italiana, e di fatto pone le basi del nostro prêt-à-porter. Max Mara cresce e si espande anche all’estero: vestiti veri, per donne vere. Mentre i couturier parigini disegnano per le gran dame del nascente jet-set internazionale, il brand punta alle mogli di notai, medici, avvocati. Donne che, quando Max Mara nasce, non sono ancora affrancate dall’idea di famiglia tradizionale, ma che anche grazie a quei look eleganti e di qualità, conquistano il proprio posto nel mondo. È il cappotto l’icona assoluta di Max Mara, altra intuizione di Maramotti, nominato Cavaliere del Lavoro nel 1983 dall’allora presidente Sandro Pertini. Ludmilla, Manuela, Teddy Bear e 101801, ovvero il best-seller assoluto, disegnato dalla stilista francese Anne-Marie Beretta per il marchio nel 1981: questi sono i modelli più significativi, tutti figli dell’idea di dare alle donne un coat ispirato a quelli maschili. È come se il fondatore avesse intuito la loro necessità di uscire di casa con qualcosa che non solo le proteggesse dal freddo, ma desse loro più sicurezza, insomma quello che oggi chiameremmo empowerment. Per rendere omaggio ai 70 anni di Max Mara L’OFFICIEL ha chiesto a Maria Giulia Prezioso Maramotti, terza generazione della famiglia e a Ian Griffiths, Max Mara Creative Director, di sedersi intorno a un tavolo e raccontare il brand. Una conversazione schietta, informale, a tratti intima.

L’OFFICIEL ITALIA: Che effetto vi fa pensare ai 70 anni di Max Mara?

MARIA GIULIA PREZIOSO MARAMOTTI: Per un’azienda 70 anni sono tanti, se poi si tratta di una realtà della moda, il traguardo credo sia ancora più significativo, perché questo è un settore in continuo cambiamento, peraltro accelerato di molto negli ultimi 20 anni. Ci sono diversi player altrettanto longevi, ma non tutti sono stati capaci di restare rilevanti nel tempo. Penso alla nostra storia e vedo una legacy significativa. Scelgo apposta la parola legacy e non heritage, perché trasmette la capacità di traghettare nel presente quello che c’era prima. Max Mara esiste da 70 anni perché è sempre stata un’azienda capace di connettersi con il presente, evitando un approccio nostalgico.

IAN GRIFFITHS: Credo sia importante riflettere sul fatto che Max Mara abbia sempre seguito l’idea geniale del nonno di Maria Giulia e cioè vestiti veri per donne vere. Una formula semplicissima che ancora adesso applichiamo perché è quella la chiave per essere in linea con il qui e adesso.

Scorri verso il basso per scoprire tutta l'intervista con Ian Griffiths e Maria Giulia Prezioso Maramotti di Max Mara 

L'Archivio Max Mara a Reggio Emilia.

LOI: Quali sono state le altre intuizioni vincenti del brand?

IG: Ho sempre avuto il sospetto che Max Mara trasmettesse un’idea di femminismo non dichiarato. Quando sono entrato in azienda, nei primi anni ’80, non se ne parlava perché era un tema molto legato alla politica, ma nel tempo ci siamo resi conto di quanto Max Mara diffondesse valori di empowerment femminile. Lo definirei un femminismo pragmatico, perché qui non è mai stata una questione di bruciare reggiseni, tuttavia il messaggio dato alle donne è sempre stato quello di fare il meglio per se stesse. Credo derivi dallo spirito della madre del Cavalier Maramotti, che aveva voluto mandare il figlio all’università e creare una scuola di modellistica. Basta dare uno sguardo alle brochure che scriveva per capire quanto in realtà stesse insegnando alle donne a vivere in modo più consapevole, a migliorarsi.

MGPM:
Si, la mia bisnonna è stata una femminista ante litteram! Aggiungerei anche il fatto di non avere mai voluto uno stilista superstar, una scelta coerente perché mio nonno non era un couturier. Tanti designer importanti hanno collaborato con il marchio, ma l’unica vera protagonista è sempre stata la donna che indossa Max Mara. Il nostro non è un brand auto-riferito: esiste nel momento in cui esiste per la sua cliente.

LOI: Cos’è il lusso targato Max Mara?

IG: Il marchio è spesso descritto come luxury product e io lo contesto perché per me il lusso è qualcosa che costa tanto e non è necessario. Max Mara non costa poco, ma è una specie di equipaggiamento per la vita. Veste chi vuole emergere, farsi strada con un armadio che l’aiuta ad arrivare dove vuole. I nostri sono abiti che rendono più forti, il contrario del lusso.

MGPM: Siamo associabili al lusso a livello di business, però la nostra è una questione di valore, non di prezzo.

LOI: È impossibile celebrare un anniversario simile senza dedicare un pensiero al suo fondatore, di cui in verità si sa poco. Avete un suo ricordo che vi piacerebbe condividere con i lettori?

MGPM: Potrei parlare per ore di mio nonno. Ero molto legata a lui e la famiglia rappresentava per lui uno straordinario valore. Amava il confronto ed era un uomo molto aperto, con i suoi figli come con noi nipoti. Da bambina, mia madre mi portava in mensa, non prima di essere passate dall’ufficio del nonno. Lui era lì con il suo sigaro e i suoi quadri: sprigionava energia, curiosità e un amore incredibile per la vita che credo abbia vissuto con grande profondità. E poi era uno super concreto.

IG: Ero arrivato in azienda da pochi giorni. Vedevo questo signore che girava per i corridoi con il camice bianco come tutti gli altri, ma si capiva che c’era qualcosa di diverso. Un giorno è venuto nell’ufficio di Laura Lusuardi (Fashion Coordinator Max Mara, ndr), dove io lavoravo. All’epoca ancora non conoscevo le sfumature dell’italiano, così me ne uscii con un: «Ciao» a cui lui tranquillamente rispose: «Ciao». Era veramente carismatico, ovunque entrasse, avvertivi subito la sua presenza. Spesso batteva il pugno sul tavolo mentre lavorava e io, giovane com’ero, quasi tremavo, però ho sempre visto una luce di grande gentilezza e generosità nei suoi occhi.

LOI: C’è un suo insegnamento per voi particolarmente caro?

MGPG: Mi riconosco moltissimo nel suo amore per la vita. Il nonno era proprio irripetibile, eppure la cosa pazzesca è che, pur sentendo tutti e sempre la sua mancanza, dopo la sua scomparsa l’azienda ha saputo adottare l’atteggiamento del business as usual. Credo sia questa la sua eredità più straordinaria.

IG: Da lui ho imparato l’importanza di essere deciso. Diceva spesso che se non decidi, di sicuro sbagli. Conta essere convinti delle proprie scelte, anziché andare a caso.


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Un'immagine della Manifattura Max Mara di San Maurizio (Reggio Emilia).

LOI: C’è un pubblico nuovo a cui Max Mara vuole parlare?

MGPM: Per un brand il rischio è quello di rimanere settati sulla generazione che si è andati a colpire al momento della propria nascita. Capita di essere moderni in un determinato periodo e poi di rimanere impigliati in quell’idea di modernità. Fino alla rivoluzione digitale gli archetipi estetici e valoriali erano rimasti abbastanza simili, dopo abbiamo assistito a una forte discontinuità nel passaggio generazionale. Donne tra i 18 e i 25 anni sono cresciute con strumenti completamente diversi rispetto a chi le aveva precedute e nel loro immaginario noi siamo rilevanti in quanto iconici. Oggi dobbiamo prestare molta attenzione al linguaggio attraverso cui comunichiamo con loro.
IG: In un mondo dove c’è tanto prodotto senza valore penso che Max Mara sia un po’ come una roccia nell’oceano e per questo attira la curiosità dei giovani.

LOI: Dopo 70 anni di qualità sussurrata, nel futuro il brand c’è qualcosa di sorprendente?

IG: Sarebbe un errore fare un gesto solo per sorprendere. Tutto quello che presentiamo ha motivazioni genuine, pensiamo per esempio alla sfilata dell’A/I 2017-18 in cui Halima Aden uscì sulla nostra passerella indossando un hijab. Non volevamo scioccare, solo dipingere il mondo Max Mara nella sua molteplicità.

MGPM: La provocazione la capisco in alcuni nostri competitor perché quello è il loro stile, ma non fa parte di noi. Dobbiamo invece aprire di più le nostre porte e lasciarci conoscere. In un certo periodo storico la scelta di understatement ha pagato, oggi credo sia importante anche far sapere di più al mondo chi siamo e cosa facciamo.

LOI: Qual è il capo Max Mara che personalmente preferite?

MGPM: Il cappotto Manuela è quello che sento più mio. È una delle nostre icone, forse il più semplice e il meno celebrato. Lo amo per come sa essere minimale e sostanziale.

IG:
Per me è quello che deve ancora essere disegnato. Nel nostro pantheon c’è ancora spazio per delle nuove icone. Certo un successo come quello del Teddy Bear (ideato da Griffiths nel 2013, ndr) non capita tutti gli anni, ma sto lavorando a un tipo di shape che manca tra le nostre icone.

LOI: Alla luce di tutto quanto ci siamo detti, oggi cosa vuol dire per voi essere parte della «famiglia» Max Mara?

MGPM: È il proseguimento del mio privato, anzi non c’è distinzione tra i due. A casa si è sempre parlato di lavoro in maniera trasparente, è parte di me. È una grande passione e anche una grande fatica.

IG: Mi ricordo di Maria Giulia quando con sua madre veniva a salutare Lusuardi. Girava per l’ufficio, guardava gli schizzi, provava le matite. È cresciuta con noi, fin da bambina ha sempre saputo cos’era uno stilista, come funzionava un ufficio stile. Max Mara è una famiglia all’interno dell’azienda, il che significa rapporti di grandissima fiducia. Lavoro con persone conosciute 20 o 30 anni fa: tra di noi possiamo essere onesti.

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