Le foto di Jimmy Nelson al Portrait di Milano
È una fantastica sala museale a cielo aperto la loggia dell’ex Seminario Arcivescovile di Milano ora sede del Portrait, che ospita fino al 5 novembre uno spin-off della mostra a Palazzo Reale di Jimmy Nelson, “Humanity”. Diciotto immagini divise in 2 serie (una di primi piani e l’altra dove gli indigeni di popolazioni a rischio estinzione sono fotografati nel loro contesto naturale), in formato gigante (6 m x 2,5), inserite tra le colonne della loggia al primo piano, particolarmente suggestive con l’illuminazione serale.
Quella di Palazzo Reale è la prima grande mostra del cinquantacinquenne fotografo inglese, basato ad Amsterdam, abituato a viaggiare costantemente fin da bambino con un padre geologo il cui lavoro lo portava a spostarsi spessissimo. Mandato a 7 anni a studiare in un collegio inglese gestito da preti, Nelson è stato oggetto di ripetuti abusi che l’hanno traumatizzato profondamente, al punto da fargli perdere completamente i capelli a 16 anni. A 17 anni è fuggito, sulle orme del suo avatar, il personaggio dei fumetti Tintin, in Tibet, dove, nelle sue parole, è stato “salvato” dall’amore e ha trovato una nuova casa. La prima fotografia che scatta è il ritratto di una coetanea tibetana di cui è innamorato. «Le mie foto nascono dall’incontro con persone bellissime che mi affascinano e che voglio mi abbraccino. Siamo fin troppo indottrinati dall’odio, ma io voglio mostrare la bellezza di chi è diverso da noi», racconta. Da allora i suoi viaggi l’hanno portato in Mongolia, Papua Nuova Guinea, Kenya, Siberia, Etiopia, Bhutan, Tanzania e molti altri paesi, incontrando Masai e Maori, Inuit e Kazachi. «Non sai mai veramente dove vai. Di solito non sono accolto bene. E allora io mi siedo e aspetto, senza macchina fotografica. Continuo ad aspettare e dopo qualche tempo inizia una forma di interazione che è al tempo stesso rispetto, danza, flirt. Lentamente la gente comincia a incuriosirsi, e li coinvolgo facendomi aiutare a sistemare gli specchi riflettenti che uso in grande quantità perché le mie foto sono molto costruite, molto posate, l’equivalente di una composizione pittorica. È il motivo per cui non scatto mai in bianco e nero: è troppo semplice, troppo riduttivo rispetto al colore. Uso una macchina fotografica molto grande non solo per la qualità dei risultati, ma anche per la teatralità e il senso di ritualità che comunica. La foto arriva alla fine, ed è un climax. E allora mi sento protetto dal rapporto che si è instaurato con queste persone».
Nelson è stato accusato di accelerare con le sue foto, che pubblicate sui social scatenano in molti un desiderio di emulazione, l’estinzione delle culture che dichiara di voler proteggere, ma l’arrivo di viaggiatori intenzionati a realizzare uno scatto alla sua maniera non sempre ha gli effetti temuti dai suoi detrattori: «Sono tornato in Mongolia 8 anni dopo il mio primo viaggio, e mi è stato spiegato che grazie all’afflusso di visitatori hanno capito che preservare la cultura ancestrale era redditizio, quindi hanno ripreso l’attività tradizionale di caccia con le aquile, e in omaggio al nuovo spirito dei tempi hanno permesso per la prima volta che diventasse eagle hunter anche una donna». Autodidatta, sentendosi «un artista che usa accidentalmente la macchina fotografica», Nelson cita tra i suoi modelli Edward Curtis, che per 30 anni documentò gli indiani americani, e Richard Avedon.