Artistic Ways: l'arte è in mano alle donne
Tre artiste incontrate nelle ultime edizioni della Biennale d’Arte di Venezia, MIART e Milano Design Week si raccontano a L’OFFICIEL Italia insieme alla direttrice del Museo Madre di Napoli.
SANG A HAN
SEOUL, COREA DEL SUD
Sang A Han è un’artista coreana, nata e cresciuta a Seoul. Ha presentato il suo lavoro per la prima volta in Italia al Miart 2023, un’opera che parla di vita quotidiana, dell’essere madre e donna.
L'OFFICIEL ITALIA: Qual è la storia della scultura presentata a Miart?
Sang A Han: Non avendo una religione, ho capito che avevo bisogno di crearne una mia per vivere in questo mondo pieno di situazioni incontrollabili. L’opera presentata al Miart, “Madre della misericordia a dodici braccia”, va in questa direzione. Da quando i miei due bambini sono cresciuti, tanto da non poterli più stringere con entrambe le braccia, ho pensato di volere più corpi per prendermi cura di loro, perciò facendo così sarei stata una madre migliore. Mi sono imbattuta nel dipinto “Avalokitesvara Bodhisattva dalle mille mani” che mi è sembrato essere la descrizione della madre perfetta. Da lì è nata l’ispirazione per l’opera.
LOI: La maternità ha cambiato il modo in cui ti avvicini all’arte?
SAH: Passo metà della mia giornata a fare la mamma e l’altra metà a fare l’artista, è difficile separare le mie identità. Fino all’anno scorso lavoravo e mi occupavo dei miei figli da casa. La stoffa è stato il materiale che si è adattato meglio a questa mia esigenza. Dipingevo quando loro facevano il sonnellino e cucivo quando si addormentavano la sera. In quei momenti ho capito che il modo in cui si vive la propria vita ha un enorme impatto anche sull’estetica del proprio lavoro.
LOI: Qual è la prima cosa che pensi quando guardi i tuoi figli?
SAH: Una sensazione di amore insicuro ma caldo.
LOI: E quando guardi una tua opera?
SAH: È come un autoritratto, indipendentemente dalla forma.
LOI: Pensi che la società o il settore dell'arte sostengano le madri?
SAH: Per fortuna l’atmosfera sociale è cambiata molto da quando sono diventata madre. Non direi che è sufficiente, ma ho visto dei miglioramenti. Ci sono diversi progetti e mostre sul tema in tutto il mondo, e mi aspetto che questo comporti maggiore sostegno.
LOI: C'è una donna che ti ha ispirato come persona e come artista?
SAH: Mia madre. Non ho mai incontrato nessuno con un amore materno così forte, ma forse è quello che pensano tutti della propria. Quando ero incinta, ricordo di aver visto un documentario con una mamma leopardo, feroce e protettiva con i suoi cuccioli, che mi ha ricordato la mia. Da allora i leopardi compaiono spesso nelle mie opere, a rappresentare mia madre e ciò che spero di diventare un giorno.
LOI: Quali emozioni vuoi trasmettere ai tuoi spettatori?
SAH: Sento che le mie opere in tessuto si prendono cura del mio cuore. Mi piacerebbe facessero lo stesso per gli spettatori. È il mio modo di abbracciarli e confortarli.
LOI: Quali immagini visive ispirano il tuo lavoro?
SAH: In generale, raccolgo scene di esperienze ordinarie della mia vita quotidiana. Quando ho bisogno di uno spunto, guardo molti dipinti religiosi orientali e occidentali, in particolare quelli buddisti.
LOI: Perché hai scelto di lavorare solo in bianco e nero?
SAH: In Asia orientale, il meok (inchiostro di china) è chiamato Hyeonsaek, che tradotto letteralmente significa nero, ma può anche significare qualcosa di misterioso o profondo. In Oriente simboleggia il vero colore dell’universo che esiste senza la luce del sole. Quindi, la differenza di profondità, o di luce e ombra, contenuta in quel colore rappresenta le migliaia di colori che compongono ogni cosa. Mostra infiniti cambiamenti e possibilità. Per questo il meok, non è solo “nero”. È un materiale che tratto con grande rispetto e che racconta bene la mia storia. Spero che i visitatori che incontreranno le mie opere ne possano sperimentare la bellezza.
LOI: Quanto c’è della cultura tradizionale coreana nel tuo lavoro?
SAH: Sono nata e cresciuta in Corea, la cultura e il patrimonio tradizionale coreano sono profondamente radicati in me. Il mio background è l’Oriente, amo il nostro mood e la nostra estetica.
Text by Giulia Gilebbi
AMY LINCOLN
NEW YORK, USA
I suoi paesaggi astratti e vibranti sono stati esposti in mostre personali e collettive nelle più grandi città degli States. L’attenzione del pubblico internazionale le ha permesso di accedere alle capitali dell’arte con mostre in varie istituzioni di Londra, Parigi, Tokyo e Pechino. «Ho iniziato più di 20 anni fa quando andavo al college, ma anche da piccola disegnavo già parecchio» racconta Amy Lincoln. «Oggi è una grande soddisfazione trascorrere il tempo da sola nel mio studio ed essere capace di risolvere i problemi della pittura, per me è come risolvere un puzzle! Ho un grande gruppo di amici nel quartiere di Bushwick a Brooklyn e abbiamo gallerie permanenti dove mostriamo i nostri lavori con vernissage ogni settimana. Siamo una scena di artisti molto interessante e non mi sono mai pentita di aver scelto questa strada».
L’OFFICIEL ITALIA: Come si diventa un’artista oggi?
AMY LINCOLN: Sai, io dipingo da tantissimo tempo, quindi per me si trattava di dare priorità alla mia pittura. Non nascondo che per molti anni non sono riuscita a monetizzare le mie opere e mi sono ritrovata coinvolta in altri lavori. Però ho sempre considerato importanti i miei dipinti, e la dedizione a coltivare la mia community e a mantenere un confronto attivo con altri artisti. Negli ultimi otto anni Instagram è diventato uno strumento importante per l’art system e oggi capita facilmente che il consenso del pubblico arrivi proprio dai social media.
LOI: Per la Milano Design Week hai collaborato con Marco De Vincenzo per il progetto “Woven Spectrum” di Etro. Com’è stato questo incontro?
AL: Adorabile, mi hanno contattato per creare sei opere che sono state convertite in formato digitale con photoshop. Lavoro tanto per gradienti di colore, miscelo tonalità per ottenere sfumature differenti ed è stato bello vedere la mia arte figurativa trasformarsi in digitale. In questo processo il retoucher mi ha dato la possibilità di stabilire le cromie, poi abbiamo lavorato con i livelli di trasparenza su versioni differenti. Insieme abbiamo prodotto una capsule di stampo lifestyle con una serie di coperte luxury per la casa e un’installazione site-specific per lo store di Etro Home di Brera. In passato avevo avuto modo di lavorare con il settore dell’interior, ma non in maniera creativa, Marco De Vincenzo ha idee molto chiare in termini di combinazioni cromatiche; il processo di creazione e il confronto che abbiamo avuto sono stati lineari.
LOI: Pensi che sia un buon momento per la pittura oggi?
AL: I linguaggi dell’arte oggi sono più interessati alla pittura figurativa, perché si traduce alla perfezione per i media digitali. Quando ho concluso i miei studi nel 2006 alla Temple University’s Tyler School of Art, ricordo che il panorama artistico era più interessato all’installazione, alla performance e alla video arte. Erano tutti concentrati su un’estetica differente, io ero interessata alla potenza visuale.
LOI: Cosa vogliono comunicare le tue opere?
AL: Non racchiudono messaggi specifici, mi piace lasciare che le persone percepiscono in maniera individuale sensazioni ed emozioni dai miei paesaggi astratti. Sono cresciuta nella natura della West Coast in Oregon tra spiagge e foreste, e quando sono arrivata a New York tutto questo mi è mancato molto. Con la mia arte cerco una sorta di fuga pacifica dalla regolarità della vita. Abitando ora in un contesto urbano credo con i miei paesaggi di aver cercato a modo mio di ricreare la natura intorno a me.
LOI: Chi sono i tuoi artisti di riferimento?
AL: Sono attratta dall’arte folk, i dipinti naïf e l’idea di filtrare la realtà con semplicità o in maniera volutamente ingenua. Quindi apprezzo Henri Rousseau, David Hockney e i lavori di amici come Matthew F. Fisher o Loie Hollowell, suo papà David Hollowell era un mio professore e credo che mi abbia influenzata molto.
LOI: Quali sono gli elementi fondamentali per il dipinto perfetto?
AL: I gradienti cromatici sono un mio trademark, campiono sempre tre colori e aggiungo il bianco che mi aiuta a limitare in qualche modo le opzioni cromatiche. Infine la ripetizione, un altro elemento formale che gioca un ruolo importante per la mia arte.
LOI: Come artista che cosa desidereresti per il tuo futuro?
AL: È un buon momento, quindi direi: continuare su questa strada.
Text by Simone Vertua
CANDICE LIN
LOS ANGELES, USA
Candice Lin, artista Asio Americana, è stata notata dal pubblico italiano durante la Biennale d’arte di Venezia della Alemani con due sculture mostri/chimera: Xternetsa. Nello stesso anno ha vinto il Premio Arnaldo Pomodoro per la scultura. Ora è a Milano, alla GAM, con l’ultimo lavoro “Personal Protettive Demon” (PPD), un gigantesco corpo verde antropomorfo.
L’OFFICIEL ITALIA: Da cosa nasce Personal Protective Demon (PPD)?
CANDICE LIN: L’opera è stata progettata appositamente per il balcone ellittico con la scala a chiocciola della GAM. Fa riferimento ad antichi oggetti apotropaici come sculture medievali di vagine che cavalcano peni o di creature mitologiche come Baubo e Sheela na Gig, figure femminili che mostrano la vulva ingigantita e aperta come una bocca urlante. Mi sono ispirata anche ai tessuti chinoise europei del XVII e XVIII secolo, all’incisione di un diavolo, alle ceramiche funerarie della dinastia Tang e a Buffy l’Ammazzavampiri! Ho pensato che sarebbe stato divertente per il visitatore alzare lo sguardo sulla gonna della scultura salendo le scale e trovarsi di fronte tutto questo.
LOI: Considerando il titolo dell’opera (PPD), quali sono i demoni dei nostri tempi?
CL: Ci sono molti demoni nel nostro mondo, più evidenti dal post-pandemia: le catastrofi climatiche globali, le crisi economiche e l'ascesa della politica fascista di destra in molte nazioni. Alcuni invece sono micro-demoni, più individuali: come l’incapacità di essere presenti nella realtà senza la mediazione di strumenti tecnologici. Ho guardato per la prima volta la tv durante la pandemia (i miei genitori me la vietavano) e mi sono accorta di come velocemente sia diventata una sorta di riempitivo. All’inizio il cambiamento è stato eccitante e anche lo scenario dei mie sogni è cambiato, si è fatto più vivido. Con il passare del tempo però mi è mancata la ricchezza della mia vita immaginaria, dei libri e dell’arte. Sto tornando alle mie vecchie abitudini.
LOI: In molte tue opere sono raffigurate chimere, come mai?
CL: Le chimere, forme ibride uomo-animale, emergono dalla mia ricerca sull’immaginario asiatico, dall’antropologia e dalla storia naturale. Un esempio è il diario di viaggio di Sir John Mandeville del XIV secolo, che descrive i cannibali con la testa di cane dell'isola di Nacumera (le attuali isole Nicobare, nell'Asia meridionale) o i disegni di George Psalmanazar del XVIII secolo, sulla vita a Formosa (l’antica Taiwan) che mostrano un dio diavolo con diverse teste di animali. Del tratto bestiale non mi interessa l’aspetto etimologico del violento, orribile o edonistico, ma cercare di capire cosa è umano e cosa no.
LOI: Quali scenari visivi ispirano il tuo lavoro?
CL: Gran parte deriva dalla mia fantasia, ma anche dalle illustrazioni enciclopediche e dai libri d’arte, anche se non sono andata in un museo fino all’università! Mi affascinavano le incisioni medievali e gotiche così come i dipinti a inchiostro cinesi e queste due estetiche si sono fuse insieme.
LOI: C’è un continuo rimando oriente-occidente…
CL: Assolutamente. Per la mostra del Premio Arnaldo Pomodoro ho portato avanti una grande ricerca sulle rappresentazioni visive dell'Asia nell'immaginario europeo. Per quella del 2020, “Seeping, Rotting, Resting, Weeping”, mi sono concentrata su tessuti con motivi che riflettevano momenti di cambiamento interculturale, dove l'immagine era una sorta di ibrido di vari elementi simbolici di diverse nazioni. Per il pezzo per la GAM ho voluto fare una ricerca sui tessuti italiani chinoise della Fondazione Antonio Ratti. Il curatore Federico Giani mi ha fatto conoscere gli scritti sull’argomento di Chiara Buss, che mi hanno ispirato per la creazione del tessuto che drappeggia e nasconde la scultura. Nel mio disegno ho messo un orso che scuote un tronco, sulla cui cima è appollaiato un cane e un uccello del Paradiso che plana verso un albero dove è avvolto un serpente con la testa di canide. Ho trasformato tutto in stencil e stampato con il metodo giapponese della pasta katazome (procedimento che deriva dalle tradizionali tecniche di stampa dei kimono con motivi bianchi e indaco a imitazione della porcellana bianca e blu). Questi strati di traduzione culturale, di alterazione razziale e di fantasia sono rappresentativi di quello che faccio.
LOI: Le tue opere sono tecnicamente complesse e multi-materiche.
CL: Mi piace lavorare con materiali diversi, legati a storie antiche, culturali e globali. Amo fare e imparare e sono sempre alla ricerca del nuovo. In futuro mi piacerebbe imparare a lavorare il vetro.
LOI: Anche il colore ha un ruolo importante nel tuo lavoro…
CL: Ho studiato le specifiche dei materiali coloranti: come la cocciniglia (rossi e viola), l'indaco, la porcellana e il nero d’osso. Volevo capire il risvolto sociale del colore, associato ad esempio al concetto di razza o purezza, o come un colore potesse comunicare piacere visivo o ancora come il desiderio per alcuni di questi riuscisse a dare forma a interi sistemi di commercio e produzione. Ci piace pensare che l’estetica sia in qualche modo al di fuori di quadri politici più ampi, ma in realtà ha plasmato e motivato molti aspetti dell'espansione coloniale, delle guerre e delle economie costruite sulla schiavitù.
LOI: Qualche persona in particolare che ti ha influenzato?
CL: Tutti gli amici della comunità di Los Angeles (umani e gatti), i miei studenti e tutto ciò che vedo e leggo. Recentemente sono stata affascinata dalle storie di Yoko Tawada, dalla ricerca di Howard Chiang sul genere nella cultura e nella letteratura cinese, dai reality-show e le soap opera in costume cinesi.
Text by Giulia Gilebbi
EVA FABBRIS
DIRETTRICE DEL MUSEO MADRE, NAPOLI
«Un museo è un dispositivo di relazione con la comunità. Res pubblica, alla latina, cosa pubblica». Eva Fabbris, vicentina del ’76, curatrice dal 2016 di Fondazione Prada a Milano e curatrice indipendente presso istituzioni italiane e europee, tra cui il Madre – dove nel 2021 ha co-curato con Andrea Viliani “Diego Marcon. The Parents’ Room” – è la seconda donna alla guida dell’istituzione napoletana.
L’OFFICIEL ITALIA: Come ti sei avvicinata al mondo dell’arte?
EVA FABBRIS: Respiro arte sin da bambina, i miei genitori sono entrambi artisti. Dopo un breve periodo in cui ho pensato di studiare giurisprudenza all’università, ho scelto gli studi umanistici. Da lì il mio percorso è stato abbastanza naturale: dopo un’esperienza come guida alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia dove ho capito la mia passione per la didattica, ho iniziato a lavorare come curatrice indipendente a Milano e all’estero.
LOI: Hai tenuto conferenze e lezioni in diverse istituzioni tra cui il Centre Pompidou di Parigi, la Daimler Foundation di Berlino, il GAM di Torino oltre a numerose università italiane. Ti affascina la didattica?
EF: I primi passi professionali che ho mosso nel mondo dell’arte sono stati proprio nella didattica. È importante per chiunque sia un professionista dell’arte oggi lavorare sulla linguistica visiva, acquisire sensibilità nel racconto per coinvolgere pubblici diversi. Non c’è una narrazione univoca da trasmettere quando si parla di arte, ma un metodo nel guardare da offrire alla collettività. La didattica mi affascina perché permette di entrare in contatto con le parole del presente.
LOI: Che progetti hai per il Madre di Napoli?
EF: Mi collego a quanto detto prima: vorrei portare il presente. Il museo è espressione della società, emanazione della città in cui risiede. Non è un caso che temi dall’attualità stringente siano al centro delle produzioni di artisti e artiste più giovani. Hanno una sensibilità che permette loro di trasferire nel linguaggio artistico istanze che sono nell’aria. Il bello dell’arte è quello di trascendere la contingenza e tramite un passaggio linguistico toccare l’universale. Vorrei che il Madre venisse percepito come una casa per tutti i player artistici del territorio e come laboratorio di nuove prospettive per la città e con la città. La mia programmazione sarà basata su studio e ricerca di formati che offrano filoni leggibili senza irrigidirsi e restare isolati rispetto alla contemporaneità.
LOI: Qual è la scena artistica napoletana in questo momento?
EF: Sono ancora in una fase di ascolto, incontro e conoscenza. Cultura e tradizione napoletane sono straordinariamente stratificate, in questo momento il mio lavoro è simile a quello di un archeologo. Gli attori sono tanti: galleristi, una solida rete di collezionisti, artisti e artiste che lavorano sul territorio e altri che continuano a mantenere un legame forte con la città pur non vivendo più a Napoli.
LOI: C’è una corrente artistica a cui sei più affezionata?
EF: Il concetto di corrente appartiene al nostro immediato passato, oggi ci troviamo di fronte a un ripensamento del canone e rilettura storiografica. Parlerei di area artistica: amo lavorare con e per l’arte italiana.
LOI: Un progetto che hai curato che ti rappresenta di più?
EF: In questi giorni mi è capitato di ripensare a una mostra che ho realizzato alla Fondazione Arnaldo Pomodoro insieme a Nevine Mahmoud e Margherita Raso, due scultrici che evocano il tema del corpo attraverso la materia: vetro soffiato per la prima, lavori con tessuti per la seconda. Due visioni a confronto, e in dialogo, con l’artista Derek MF di Fabio a cui avevo chiesto di realizzare un display. Lui ha preferito spostare l’attenzione sulla situazione, piuttosto che concepire qualcosa di fisico: un laboratorio condotto in carcere dove è stata realizzata un’audio guida che racontasse attraverso la poesia le opere in mostra. Un’operazione a cui non avevo mai pensato ha consegnato a un luogo privo di oggetti (il carcere) il racconto dell’oggetto, grazie alla forza dell’oralità che spesso trascende la tattilità.
LOI: Quali sono le sfide per un’istituzione pubblica come il Madre?
EF: Credo che la mission sia quella di produrre cultura per la collettività, mantenendo un legame indentitario forte con il territorio e interpretando le urgenze e le istanze del nostro tempo. La sfida è quella di creare un bilanciamento tra locale e internazionale, valorizzando la cultura materiale e immateriale dei luoghi. Mi piace pensare al museo come a uno specchio, non solo orientato verso se stesso, ma in grado di girarsi e riflettere l’esterno. Il Madre è emanazione di un progetto più grande di rivalutazione della tradizione culturale napoletana, immerso in una dimensione geografica mediterranea. Il museo è strumento di relazione per definizione, la sfida è rendere vivo e concreto questo pensiero.
LOI: Puoi raccontarci qualcosa sulla tua prima mostra per il Madre?
EF: La scelta di dedicare la prima mostra (inaugura il 6 luglio) all'artista giapponese Kazuko Miyamoto (nata a Tokyo nel 1942) coincide con la volontà del museo di raccontare la storia dell'arte più recente attraverso figure meno convenzionali. È stata la prima assistente di Sol Lewitt, maestro del Minimalismo, le cui opere fanno parte della collezione permanente del Madre. Le opere degli anni Settanta sono inscrivibili nella corrente della string construction in cui il rigore appreso da Lewitt si trasforma in una direzione di una tattilità vibrante, quasi animalesca, direi "pellicciosa". Nei decenni successivi sperimenta performance, esprimendo una poetica del tutto unica nel fondere memorie della danza tradizionale giapponese e suggestioni dalla vita di strada registrate a Soho, dove ha co-fondato alcuni spazi espositivi femministi e dedicati ad artisti non occidentali. Si tratta di una pratica artistica solida, mai gridata, politicamente impegnata, a volte giocosa, desiderosa di bellezza.
Text by Cecilia Corsetti