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A Reggio Emilia per la Collezione Maramotti

Sara Piccinini è la nuova direttrice di Collezione Maramotti: un viaggio nell'arte contemporanea, dagli anni'50 ad oggi. A Reggio Emilia.

Nella foto Un ritratto di Sara Piccinini
Un ritratto di Sara Piccinini

L’OFFICIEL ITALIA: Tutto inizia nel 2007, arrivi in Collezione Maramotti, l’anno in cui viene aperta al pubblico...
SARA PICCININI: Avevo 24 anni, terminato gli studi in Comunicazione e reduce da una internship alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia. Ho avuto l’occasione di crescere insieme al luogo in cui lavoravo, di imparare a conoscerlo dall’interno, di assistere alla sua evoluzione. Ho lavorato per dieci anni con Marina Dacci, la precedente direttrice. Ruolo che ricopro da gennaio: un bel riconoscimento e un segno di fiducia da parte dei collezionisti. Verso di me e il nostro staff di giovani e appassionati professionisti.

LOI: Cosa significa essere direttore di una delle più rilevanti sedi del contemporaneo in Italia?
SP: La Collezione Maramotti ha le radici nel territorio reggiano, ma un orizzonte internazionale. Gli artisti e le mostre che presentiamo, le collaborazioni che portiamo avanti, i punti della costellazione che cerchiamo di connettere per affinità hanno un respiro ampio. Nel 2020 la sfida è stata portare avanti un progetto culturale specifico in un contesto stravolto. Le maggiori soddisfazioni sono legate alla riuscita di progetti complessi: dalla costruzione di una scultura pubblica permanente e in potenza extraterritoriale di Margherita Moscardini al supporto delle attività del deflagrante Atelier dell’Errore BIG – collettivo di giovani artisti che ha il campo base in Collezione – fino al riallestimento di un quarto dell’esposizione permanente nel 2019.

LOI: Quanto è importante lo spazio (l’ex fabbrica Max Mara) e quanto la collocazione delle opere all’interno di esso?
SP: Lo spazio è fondamentale. L’identità della nostra raccolta è connessa alla storia della famiglia Maramotti, come collezionisti e imprenditori. Il fatto che le opere siano presentate in un edificio di matrice industriale, innovativo per l’epoca in cui fu concepito (1957) è frutto della volontà di non decontestualizzare ma di valorizzarne la storia.

LOI: Quali le opere di maggior richiamo e quali le tue preferite?
SP: La maggior parte delle opere esposte in permanenza sono ormai storicizzate, nell’ambito dell’arte contemporanea. Una sala centrale nel percorso di visita è occupata da una grande opera di Claudio Parmiggiani, una delle più emblematiche: una barca con tele/vele nere sospesa nell’aria dedicata a Caspar David Friedrich. Le mie opere preferite cambiano ogni giorno. Oggi è un “Untitled” del ’99 di Ellen Gallagher, un’opera in smalto, gomma e carta su tela su tavola, completamente nera, che rivela solo a una distanza ravvicinata i suoi pattern simbolici – un pullulare di segni quasi minimalisti che rimandano a una riflessione sull’assimilazione della blackness nella cultura americana.

LOI: Un tempo le opere erano esposte negli spazi dello stabilimento Max Mara. Quanto è importante l’arte nel quotidiano?
SP: Alcune opere erano esposte in uffici, corridoi, sale riunioni, per offrire un rapporto proficuo con l’arte e un’ispirazione a dipendenti e collaboratori. Il rapporto con la bellezza e con diverse forme di visionarietà sono centrali. Pur nella convinzione che arte e moda sono linguaggi differenti, con ragioni di esistenza diverse.

LOI: Come è stato ripensato l’approccio con i visitatori in un momento di chiusura dei musei e gallerie d’arte?
SP: Abbiamo potenziato l’online, senza la pretesa di surrogare l’esperienza insostituibile di una visita. Con Doppiozero abbiamo prodotto una serie di podcast per raccontare alcune opere con le parole dei loro autori (tra cui Massimo Recalcati, Ermanna Montanari, Marco Belpoliti, Riccardo Venturi), interpretate da attori del Teatro delle Albe. Sono inoltre stati realizzati video su opere e libri-opera rari conservati nella nostra biblioteca, normalmente non visibili. Ed è stata sperimentata la prima inaugurazione di mostra in streaming, in conversazione con ruby onyinyechi amanze da Philadelphia.

LOI: Quali sono i progetti per il prossimo futuro?
SP: Dal 17 ottobre apriremo la prima personale in Italia dei TARWUK, due giovani artisti croati con base a New York, insieme a una collettiva dal titolo “Studio Visit”. Dal 4 al 7 novembre ospiteremo invece una performance site specific dei Peeping Tom, nel quadro di una collaborazione con la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia. Gabriela Carrizo, fondatrice e coreografa della compagnia, sta lavorando al progetto che lo scorso giugno si è aggiudicato il Fedora Prize.

LOI: Mi parli del Max Mara Art Prize for Women? È ancora importante supportare le donne nell ’arte?
SP: Il premio nasce nel 2005 da una collaborazione tra Max Mara e la Whitechapel Gallery, a supporto di artiste con base nel Regno Unito. Due anni dopo entriamo come partner, ci occupiamo della fase della residenza, esponiamo e acquisiamo il progetto che ne deriva. Penso sia un premio unico: offre alle vincitrici la possibilità di concentrarsi su un progetto ambizioso, una mostra alla Whitechapel e alla Collezione. Non è scontato, soprattutto per le artiste, che devono confrontarsi con equilibri complessi. A molte ha cambiato la vita e portato a riconoscimenti come il Turner Prize, assegnato a Laure Prouvost e a Helen Cammock dopo la vittoria del Max Mara Art Prize. Emma Talbot, vincitrice dell’ultima edizione, è in Italia in questi mesi, immersa nell’arte e nella mitologia classiche, nella permacultura e nell’artigianato tessile: con la possibilità di dedicarsi esclusivamente alla sua ricerca artistica.

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