Un americano a Parigi: Daniel Roseberry e l'heritage Schiaparelli
Il direttore creativo di Schiaparelli, Daniel Roseberry, racconta il suo rapporto con la Ville Lumière, con il team creativo del brand e con la leggendaria figura della fondatrice, Elsa Schiaparelli.
Nel gestire la sua vita professionale e personale nella capitale francese dal 2019, l’americano Daniel Roseberry è riuscito a schivare con grazia molti degli stereotipi legati alla condizione di essere “un americano a Parigi”, anche se il composto, riflessivo, designer di fama internazionale ammette di non riuscirci sempre. L’abbiamo intervistato poco dopo la presentazione della sua sfilata couture 2022 e l’apertura di “Shocking! Les Mondes Surréalistes D’Elsa Schiaparelli” al Musée des Arts Décoratifs, tra una piccola folla composta da genitori, fratelli e sorelle, nipoti, zii e cugini venuti a fargli il tifo, trasformando il tutto in una riunione di famiglia.
Arrivati da New York e Los Angeles, «c’erano 40 persone sedute a un tavolo del nuovo hotel Chateau Voltaire la cui ambientazione ricorda un party in casa a Los Angeles». L’Hotel era più adatto a ricevere ospiti rispetto all’appartamento dello stilista nel VII° arrondissement con vista sulla Basilica di Santa Clotilde, uno scorcio rassicurante per Daniel Roseberry, figlio di un prete episcopale poi unitosi alla chiesa anglicana. «Le domeniche per me sono sacre. Non faccio quasi mai piani perché finisco per cancellarli. È un’oasi. Me ne sto da solo nel mio spazio, e non ho ospiti, sebbene stia pian piano accumulando cose». Il creativo bazzica infatti Paul Bert Serpette a Saint-Ouen, uno dei più celebri mercati delle pulci della città, dove va almeno una volta al mese in cerca di oggetti per costruire il suo linguaggio di home design.
«Sono ossessionato dalla luce e di solito finisce che compro qualcosa», dice indicando una piantana degli anni ’70 di Maison Jansen: «Ma era un’imitazione imperfetta e stramba. Preferisco le bancarelle all’esterno. Quelle dentro tendono a essere troppo fancy e serie per i miei gusti». Costruire un linguaggio progettuale è stato naturale per Daniel Roseberry. Al suo arrivo era deciso a non fare affidamento sui ricchi archivi di Schiaparelli ma ora che ha dato al brand un certo respiro, trova il suo spazio proprio nel confronto con l’heritage di Elsa Schiaparelli. «Se dovessimo fare un vestito aragosta domani avremmo l’autorità creativa per farlo, mentre in principio avevo bisogno di stabilire la mia voce». Ci sono delle somiglianze con il suo lavoro da Thom Browne. «È una danza, un qualcosa di organico che non cerco di controllare».
I musei sono diventati il suo passatempo parigino preferito. In particolar modo, la mostre del Centre Pompidou e la Fondation Louis Vuitton. «A volte vado al Musée Rodin e mi siedo nel parco per rilassarmi». Roseberry deve ancora padroneggiare il francese o tuffarsi nella pop culture al di là della moda e del cibo. Lo stilista ammette di essere stato tentato di trasformarsi in un archetipo di couturier francese. «Pensavo che mi sarei potuto svegliare e uscire di casa vestito come un giovane Yves Saint Laurent: dolcevita nero, pantaloni lunghi e una sigaretta accesa. Ma alla fine ritorno alle solite cose: il mio Texas Tuxedo di denim su denim e giro per Place Vendôme con il mio zaino. Mantenere certe abitudini è una specie di conforto. Mi piace indossare gli abiti di prima che avessi questo lavoro: sono come dei vecchi amici. Non so se avevo osato sognare di Parigi e dell’alta moda, ma sono cresciuto in una delle epoche dorate della scena fashion di New York», ricorda il 36enne designer.
I tempi delle sue medie e superiori erano segnati da Michael Kors da Celine e Marc Jacobs da Louis Vuitton, mentre il remake di “Il caso Thomas Crown” aveva riportato l’interesse sulla moda maschile, con l’ascesa del suo precedente datore di lavoro, Thom Browne, insieme ad altri stilisti come Adam Kimmel. «C’era molto glamour associato all’essere un designer americano, all’epoca. Il mio dilemma di vita da ragazzo non era il mio destino creativo; era più una questione legata alla sessualità, essendo io cresciuto in un ambiente ecclesiastico. Quello era il mio problema», confessa. «La questione non era, “Come diventerò uno stilista?”. Sono sempre stato quello che lavorava più sodo, anche nei week-end quando nessun altro lo faceva».
«Forse mi manca una New York che non esiste più. Di Parigi amo il mio spazio, dove sono creativamente produttivo. Quando sto via troppo a lungo, mi manca la creatività, il team e il processo in sé. Nonostante le nostre differenze, come città è stata molto generosa nei miei confronti; mi ha dato una Maison con un team». Del team di Schiaparelli Roseberry ha una considerazione speciale: «dietro all’orgoglio della gente che vive qui, batte il cuore di gente che farebbe di tutto per il bello. La squadra è devota e dedicata nel perseguire eccellenza e bellezza; si guadagna il diritto di essere orgogliosa». Roseberry punta sulla sua fuga estiva, di solito nel Maine.
«Poche volte all’anno, ho bisogno di trascorrere cinque o più giorni in un ambiente naturale, che sia all’interno o sulla costa. Andare da solo sul lago in kayak la mattina è davvero la mia idea di paradiso». Comunque Roseberry riconosce che Parigi ha già lasciato un segno profondo in lui. «Quando Parigi vuole mettersi in mostra e farsi bella per te, il livello di bellezza è davvero sorprendente. Non invecchia mai. Camminare lungo la Senna quando il sole fa capolino attraverso le Tuileries mi affascina ogni volta».
Questa etica del lavoro è una delle ragioni per cui Roseberry è approdato da Thom Browne, dov’è restato fino alla sua nomina da Schiaparelli nel 2019, dopo aver abbandonato il Fashion Institute of Technology nel 2008. In quel periodo da Browne – lo stilista volava a Parigi almeno quattro volte all’anno e l’ha fatto per sette anni. Da newyorchese con origini degli stati del Sud, Roseberry non trovava Parigi particolarmente intimidatoria, anche se trovava difficile connettersi con la città. «Ho bisogno dell’estroversione del ritmo insano di una città per uscire dal mio guscio. In generale, sono molto riservato e credo che l’energia di Manhattan, il passo e il melting pot che c’è lì mi abbiano tirato fuori da me stesso. Parigi è riservata, fredda e chiusa, è così che la vedo, non intimidatoria. O forse lo sarebbe? Dal punto di vista della personalità, sento che siamo navi che passano nella notte». Durante i suoi primi due anni da Schiaparelli ha viaggiato molto tra le due capitali della moda. «Ero esaurito e ora che i viaggi sono ricominciati, è diventato ancora più infernale. Andare avanti e indietro durante la pandemia era un sogno!», dice ripensando ai giorni in cui i terminal e gli aerei erano delle città fantasma.