Fashion Week

Milano Fashion Week: se Milano diventa Parigi?

Cala il sipario sulla Milano Fashion Week per la Primavera Estate 2023, con Jil Sander e Bottega Veneta a fare il pieno di applausi. E con una scena creativa che deve interrogarsi sul proprio futuro.

Bottega Veneta la sfilata Primavera Estate 2023 alla Milano Fashion Week
Bottega Veneta la sfilata Primavera Estate 2023 alla Milano Fashion Week

Boom di presenze per la Milano Fashion Week dedicata alle sfilate donna per la Primavera-Estate 2023. La notizia è ottima, per il comparto  e per la città in generale che ha fatto il pienone tra alberghi, ristoranti e servizi vari. Milano piace e attrae la gente della moda da (quasi) tutto il mondo, altra good vibe, peccato però che il calendario si sia trasformato in una prova di resistenza per chi di fashion show ne vuole vedere il più possbile per farsi un’idea dei trend. Quello più macroscopico parla di location periferiche, di per sé una pensata geniale che consente di scoprire angoli inaspettati (scenografiche le venue di Marco Rambaldi e Andreādamo, freddo becco a parte), ma non tiene conto di un tema che dovrebbe essere in cima all’agenda di tutti, il contenimento dei consumi energetici. Come può una Settimana della Moda dichiararsi attenta alla sostenibilità e poi impazzire da un capo all’altro della città? E prima di dare addosso alla Camera della Moda, storicamente disarmata di fronte alla testardaggine dei brand che si considerano isole a sé, ogni singola azienda dovrebbe domandarsi se davvero ha senso raccontare dell’ennesima capsule collection sostenibile, quando poi non riesce a ragionare insieme alle altre per darsi dei paletti.

Chiudere gli appuntamenti fisici con i Sustainable Fashion Awards, dopo aver costretto l’intero carrozzone a viaggi della speranza, è ben poco Earth-friendly.  Buona parte dei brand in calendario vuole parlare ai giovani, i quali nella giornata del venerdì si sono dati appuntamento in centro per uno dei Fridays for Future, lanciato da Greta Thunberg, una che non ci va giù proprio tenera con chi si muove in modo poco consapevole.

Altra nota controversa, sono stati gli slot allocati a ogni sfilata: iniziare alle 9:30 e terminare alle 21:30 significa una sola cosa: Milano ha bisogno di un giorno in più, a maggior ragione se vuole prendere certe abitudini parigine come le location a casa di dio. Tra sfilate, presentazioni ed eventi, dove si trova ancora il tempo di fermarsi un attimo e riflettere su ciò che si e visto?

Ma forse elaborare un pensiero, tracciare una linea che unisca suggestioni diverse non è più una attività richiesta al mondo della moda. Tutto si consuma nell’attimo in cui accade, tra reel e stories: si spengono le luci della passerella e si buttano alle spalle mesi di lavoro di chi quella collezione l’ha pensata, costruita, organizzata. Magari è per quello che sempre più show sono diventati infiniti. L’editing, quell’attenta pratica di selezionare i capi per trasmettere il più possibile un messaggio conciso e preciso, in un contesto simile ha poco senso. Meglio far durare la sfilata il più possibile che poi chi s’è visto, s’è visto.

Stando così le cose la ricerca di un senso, o meglio di un sentire comune rispetto allo spirito del tempo, diventa quasi secondaria. Volendo però provare a tirare le fila, applausi per Lucie e Luke Meier, che la loro Jil Sander ha fatto un salto quantico. Per Matthieu Blazy, capace mantenere Bottega Veneta sulla cresta dell’onda con una visione mai urlata della moda. Per Stella Jean che ritornando in passerella a patto di avere accanto il collettivo Wami - We Are Made in Italy fatto di marchi BIPOC operativi in Italia, ha fatto emozionare fino alle lacrime i presenti con uno statement potente. Per Dolce & Gabbana che nel sostenere la sfilata di Matty Bovan hanno fatto arrivare a Milano una super scarica di eccentricità Brit. E menzione d’onore per il debutto di Marco de Vincenzo da Etro e di Andrea Incontri da Benetton, due riusciti innesti della propria creatività nei codici del brand).

In generale, c’è chi scarnifica il minimale tipo Prada, chi lo celebra in purezza come Calcaterra, o lo rende più rassicurante, alla Max Mara. Dall’altro lato della barricata abbiamo il loud thinking di Gucci, sebbene più “silenziato” rispetto al passato; di Roberto Cavalli, ben disegnato da Fausto Puglisi. E poi c’é l’onda “naked and rough” dei più edgy, da Diesel, a Blumarine, AC9 o Act N°1. Un filone questo, emerso nelle scorse stagioni e che ha portato alla ribalta Milano come hub di creatività più spinta. Ben venga lo spazio a chi osa, sperimenta e rompe gli schemi, con una piccola considerazione: la grandezza del Made in Italy sta nell’unicità suo prêt-à-porter, collezioni dalla manifattura impeccabile, che entrano guardaroba delle persone per diventare parte delle loro vite, niente resta uguale a se stesso ed è sano mettere in discussione lo status quo. Attenzione però a non disperdere l’identità che il mondo ci riconosce, nella ricerca esasperata di vestire questa o quella influencer.

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