La casa di Gherardo Felloni
Il suo primo atto, una volta insediatosi nell’headquarter di Roger Vivier, a Parigi, è stato rifare l’ufficio. «Perché volevo essere circondato da ciò che più mi piace; brutti, belli, poveri, lussuo- si che siano, per me è fondamentale avere attorno oggetti che mi rappresentino», racconta Gherardo Felloni, che tra le sue passioni annovera la lirica, la recitazione e i film d’epoca. Un amore dichiarato anche attraverso le campagne pensate per la Maison di cui oggi è direttore creativo. La S/S 2019 con Catherine Deneuve, un omaggio all’attrice che con “Belle de Jour” di Luis Buñuel non solo conquistò milioni di shoe-addicted ma fece entrare il marchio nell’immaginario collettivo borghese. E la più recente con Susan Sarandon, nelle vesti di un’insegnante di recitazione, in un remake ispirato al film “Io la conoscevo bene” di Antonio Pietrangeli. La sua casa, nel cuore di Parigi, è un vero e proprio invito al viaggio, tra cimeli acquistati nei mercati vintage, opere d’arte e mobili restaurati, ciascuno con una storia, come un tavolo che apparteneva a un maestro di scuola. Un interior designer mancato? «Sono un compratore occasionale, a eccezione dei gioielli che spesso trovo a Milano, da Pennisi. Amo indossare collane preziose dal gusto antico abbinate a jeans e sneakers. Poi frequento il mercato delle pulci a Parigi e, da qualche anno, partecipo a delle aste, in particolare in Italia». Tra i mobili a cui è più affezionato: «La consolle in formica verde con specchiera rotonda, recuperata dall’Hotel Parco dei Principi e disegnata da Giò Ponti». E il tavolino in cucina. «È degli anni ’40. Apparteneva a un maestro di scuola che aveva sei figli. Per dar loro lezione, aveva creato un buco al centro per lui e sei cassettini per loro». Un mix and match di antico e moderno, tra opere d’arte, ricordi e scarpe. Ovunque. Come trofei. Sandali, Mary-Jane, pumps, tra i volumi di design e moda e fotografie d’epoca, come il ritratto di Monica Vitti sul caminetto della sala, lì, nel mezzo, tra un paio di Christian Dior vintage verdi, «Un prototipo mai prodotto sotto la guida di John Galliano; il tacco lo avevo fatto con le mie mani», puntualizza il designer. O ancora, le décolleté nere di Roger Vivier per Christian Dior: «La prima scarpa di Vivier degli anni Sessanta che ho acquistato a un’asta» e gli stivali con le margherite applicate del designer Fabrizio Viti, «la prima persona con cui ho lavorato. Questi stivali me li ha regalati lui e risalgono alla collezione con cui ha debuttato con il suo marchio», racconta. Sul muro un paio di Miu Miu furry, un ricordo del suo passato alla corte di Miuccia Prada, dove nel 2014 si occupava di pelletteria e bijoux: «ogni persona che le vede le associa a un Muppet», ride. «In casa mia tutto è basato sull’accostamento degli opposti: ho una testa di marmo raffigurante Apollo di scuola romana dell’Ottocento, che po- trebbe rappresentare il mio io adulto, ma è poggiata su una base di cemento rosa baby di Duccio Maria Gambi, che la rende a suo modo “infantile”», aggiunge. In sala troneggia “Two naked women”, il dipinto di Nicolas Party, uno tra i suoi artisti preferiti. «Mi ispiro a tante cose; se dovessi individuare un “mentore” sceglierei Nina Yashar (la fondatrice iraniana della galleria Nilufar di Milano, nda). Osservandola ho imparato molto su come accostare gli oggetti». Ed è impossibile trovare oggetti usa e getta, senz’anima, «non amo buttare le cose, compro a lungo termine, e troverete sempre dei tappeti». In casa pare comandare Mina, la gatta di Gherardo Felloni. «Lei è padrona quanto me, ha accesso ovunque... ma credo che il suo spazio preferito rimanga il mio letto». Felloni non ama lavorare da casa: «Ho uno studio che non uso quasi mai. E poi lì dentro sembra sempre che sia esplosa una bomba». Dalla finestra si scor- ge l’amato giardino. «È lì che mi rilasso». Ma è la sala da pranzo, dove c’è un grande tavolo, il luogo dove passa la maggior par- te del suo tempo, anche solo per guardare un film. E in cucina: «Da italiano che vive in Francia sento la necessità di cucinare a casa. Solo cose semplici, non ho molto tempo. La cucina francese è elaborata, talvolta un po’ troppo per le abitudini di noi italiani». Victor Hugo scriveva “dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa l’inquilino”. «La mia casa? La definirei eclettica, a modo mio: mi rappresenta quasi in tutto, ho curato e trovato tutto quello che c’è dentro».
Foto Romain Ricard