The fab three: l'intervista all'artista Precious Okoyomon
Indicata da Cecilia Alemani come una delle artiste più interessanti della Biennale, Precious Okoyomon, americana di origini nigeriane, è autrice di installazioni potenti. L'artista si è raccontata a L’OFFICIEL ITALIA nel trambusto del count down prima dell’inizio della Biennale.
Su Instagram Precious Okoyomon si definisce un “non binary battle angel”, e nel suo feed gli angeli, sia come bambole/ sculture in larga scala protettrici degli ecosistemi delle sue installazioni che come Angels cards (bigliettini con key words che aiutano a focalizzarsi sui propri sentimenti e bisogni, nda), sono ricorrenti. «Sono cresciuta in una casa impregnata di un forte senso religioso. Da bambina ero ossessionata dalla mistica cristiana, ero devota al punto di scrivere preghiere sotto forma di poesia che poi andavo a seppellire nel bosco», racconta l’artista di origini nigeriano/americane. Nata a Londra nel 1993, Precious trascorre la prima infanzia a Lagos con la madre, per poi trasferirsi a sette anni negli Usa, prima a Houston e poi in Ohio; più tardi studia filosofia a Chicago, per poi trasferirsi a New York, a Brooklyn, nel 2017. Il suo lavoro, sempre più apprezzato (e riconosciuto dal Frieze Artist Awards del 2021), in mostra recentemente all’Aspen Art Museum e alla Fondazione Luma ad Arles, tocca temi oggi al centro del dibattito artistico culturale: l’identità nera, la connotazione razziale con cui abbiamo investito la natura, la sessualità queer, non binaria, non rigidamente corrispondente alle regole codificate, la corruzione e morte del corpo, delle piante, del mondo, il ciclo continuo di evoluzione e rinascita. Nel suo lavoro il tenero, il grazioso, il protettivo, si incontrano con il caos e la corruzione del tempo. Il suo è uno work in progress con elementi ricorrenti, la terra, il sole, le bambole di lana e argilla, gli orsi di pezza, gli alberi coi cappi utilizzati per il linciaggio dei neri ed esperimenti culinari pensati per sfidare i limiti della comfort zone, per “far cambiare il modo di pensare”, così spiazzanti per concezione e ingredienti da essere addirittura in grado di “decostruire la mascolinità tossica”, secondo l’attrice Indya Moore. Tra i lavori più impattanti di Okoyomon c’è sicuramente “Earthseed”, presentato nel 2020 al MMK di Francoforte, protagonista il kudzu, una pianta giapponese trapiantata nel 1876 nel sud degli Stati Uniti per ricompattare la terra erosa dalla coltura intensiva del cotone praticata dagli schiavi deportati dall’Africa. Trapiantato in un altro clima il kudzu si è sviluppato con una crescita anomala, al punto da soffocare e distruggere tutte le altre forme viventi, fino ad essere messo fuori legge in molti stati. Così la pianta è diventata un simbolo del pericolo delle specie invasive, e una metafora dell’identità nera, perché, come la pianta rimossa dal suo ambiente diventa un’entità mostruosa una volta trapiantata in America, lo schiavo africano impiegato nelle piantagioni diventa al tempo stesso indispensabile e inconciliabile con la società occidentale. Ma per Precious (“Ho bisogno di stare nella spirale del caos per continuare a produrre nuova magia“), la pianta è anche un simbolo positivo della resilienza caotica della natura.
L’OFFICIEL: Parlaci del tuo lavoro per la Biennale
PRECIOUS OKOYOMON: Ho utilizzato per la prima volta la canna da zucchero, insieme al kudzu che invece è già stato protagonista di altri miei lavori. (Conclusa “Earthseed”, il kudzu cresciuto per la mostra è stato bruciato e la cenere è stata utilizzata nell’ecosistema dell’esibizione “Fragmented Body Perceptions as Higher Vibration Frequencies to God”, tenutasi l’anno scorso al Performance Space New York, intesa come una sorta di catarsi post pandemica, e Okoyomon l’ha piantato anche nel giardino rooftop del museo di Aspen, nda). È un’installazione ispirata a un musical, un progetto che ha avuto una fase di gestazione lunga, circa due anni, creato insieme al mio caro amico Gio Escobar, un compositore straordinario, e a una jazz band, Standing on the Corner Ensemble, altrettanto eccezionale. Un progetto davvero speciale, con delle figure nere protettive, fatte di lana, terra e sangue, e un fiume di alghe nere che va a nutrire i campi di canna da zucchero. Il mio lavoro è un lungo processo, fluisce, si sviluppa lentamente, richiede molto pensiero, molta concettualizzazione. Lavoro con la terra, e niente cresce dalla sera alla mattina.
LO: Cosa significa per te la Biennale di Venezia? Conoscevi già Cecilia Alemani?
PO: La Biennale è un’occasione molto speciale, una specie di capsula del tempo. Ho intitolato il mio lavoro a Venezia “To See the Earth Before the End of the World” (come il libro di poesie del 2010 di Ed Roberson, nda), e penso che questo sia davvero un momento molto particolare, in cui tutti ci chiediamo:“Dove siamo adesso?”,“Cosa ci lega agli altri” e “Cosa succederà?”. Non conoscevo Cecilia prima, penso sia magnifica, ha supportato splendidamente un progetto estremamente ambizioso come il mio. Le sono grata di essersi assunta il rischio e di essersi messa a sognare insieme a me.
LO: Su che nuovi progetti stai lavorando?
PO: Lavoro sempre contemporaneamente su più opere. Fino a settembre sarò impegnata sul giardino in continua evoluzione, dove le sculture e le musiche cambiano con le stagioni, commissionatomi dall’Aspen Art Museum, poi mi concentrerò su un progetto di quattro anni per creare una foresta. E in autunno uscirà per Wonder Press e Serpentine Galleries il mio nuovo libro di poesie (il terzo, dopo “Ajebota” e “But Did U Die?, nda), frutto di un lavoro di tre anni.
LO: Il tuo lavoro è interdisciplinare, sei poetessa, chef, autrice di installazioni... Nell’organico fluire della creatività, cosa viene prima? Tu ti senti soprattutto...
PO: È tutto legato, è tutta questione di emozioni, ma indubbiamente all’origine ci sono le mie poesie, che sono diventate naturalmente installazioni. È soprattutto la reazione di fronte alle mie poesie che mi dà l’amore, l’energia per immaginare quello che vorrei vedere nel mondo. Ho sempre avvertito l’urgenza di creare per le altre persone. E sono molto grata per la possibilità di essere vista: perché in realtà sono molte le persone che vogliono costruire ponti tra sé e gli altri.
LO: Per la sfilata a Pitti A/I 20 Telfar ha chiamato Spiral Theory Test Kitchen, il collettivo di cucina concettuale e sperimentale che hai cofondato, a preparare i piatti apparsi alla fine dello show sulla passerella trasformata in tavola. E hai sfilato per Puppets and Puppets. Che rapporto hai con la moda?
PO: Mi piace ovviamente, è un’armatura che metti sul tuo corpo, un modo per proteggersi, e per gioire della possibilità di espressione che ti dà, di far risplendere il tuo vero io. Indosso qualsiasi cosa mi faccia sentire felice in quell’istante, ma non la prendo particolarmente sul serio.
LO: Quali tuoi lavori/mostre giudichi più interessanti?
PO: Tutto quello che faccio si sviluppa lentamente, tutti i lavori sono interconnessi, non ci sono momenti artistici privilegiati rispetto al resto. Ognuno rappresenta una sfida verso me stessa, una possibilità di crescere e cambiare, e ognuno è ugualmente prezioso, isolarne uno sarebbe come scegliere uno dei propri figli a scapito degli altri.
LO: Cosa ti aspetti dalla Biennale?
PO: Di essere sorpresa.
LO: Il tuo più grande desiderio?
PO: Che ci alzassimo tutti insieme per uscire dalla nostra individualità, correggere collettivamente i nostri comportamenti, e sognare più in grande tutti insieme.