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#TalkingWith Vanessa Beecroft

L'universo dell'artista contemporanea Vanessa Beecroft
Vanessa Beecroft
Vanessa Beecroft

Il lavoro di Vanessa Beecroft è incentrato sulla denuncia della discriminazione e dell’abuso perpretati sulle donne e sui neri, attraverso performances regolate da un’estetica che deve molto alla pittura e alla scultura classica, ma anche a una certa immagine di moda. Se Beecroft definisce la moda “un’alleata” nell’elaborazione del suo linguaggio visivo, il fashion world ne ha fatto la propria artista d’elezione, coinvolgendola in un’infinità di progetti (l’ultimo a Milano per il battesimo di Moncler House of Genius in Galleria Vittorio Emanuele II). «Mia madre, insegnante di lettere e femminista progressiva, che mi ha cresciuta senza telefono, senza TV e senza carne, era contraria alla moda, al consumo della moda. Compravo Vogue di nascosto, strappando pagine che conservo tuttora, guardavo le foto di Steven Meisel, le supermodels mie coetanee, Linda Evangelista, Kirsten Owen, Nadja Auermann. Ho realizzato solo dopo la sua morte che la copertina di un Vogue del 1988, che mi aveva tanto colpito, era la prima copertina di Franca Sozzani». Le sue donne, nude, in calze nere e inerpicate su tacchi a spillo «come piedistalli di statue, perché non mi interessa il naturalismo degli anni ’70 nei confronti della nudità, quella era gente liberata, le mie donne sono befo- re the liberation», fanno pensare a Helmut Newton, anche se lei fa risalire l’utilizzo ricorrente di questi stilemi alla propria storia familiare: «Avevo una nonna spartana, coi capelli corti e sempre in maglietta, molto in stile Helmut Lang, che diceva: “la donna deve avere sempre le calze nere e i tacchi a spillo”. La mia ossessione per le calze color carne deriva invece dal fatto che erano il gadget preferito di mia madre, mentre le parrucche colorate, avvistate a Milano a carnevale, le ho introdotte per allontanare la performance dalla realtà». La prima volta che una donna nera appare in una sua performance è a Chicago nel ’96, ma è «un caso, vivevo nell’equivoco che Chicago fosse una città bianca e invece è una città di neri. Ma Jeffrey Deitch (l’art dealer che l’aveva scoperta su una rivista e convinta a trasferirsi a Brooklyn nel ’95, nda) mi disse subito di non mischiarmi coi neri. La prima volta che ho deciso di usare modelle nere come statement fu in occasione del G8, dove volevo portare il tema dell’immigrazione. All’inizio Franca Sozzani mi disse di lasciar perdere, poi fece volare un aereo da Parigi pieno di modelle nere perché era impossibile usare immigrate. Il suo famoso numero di Vogue tutto di modelle nere uscì dopo: ecco il nostro rapporto era questo, io la ispiravo perché avevo idee radicali e lei mi supportava perché nel suo mondo poteva fare miracoli, come farmi arrivare in piena giungla brasiliana 50 paia di ballerine di Azzedine Alaïa per una performance che stavo organizzando. Il nostro era un contatto psichico, ci chiamavamo quando avevamo bisogno l’una dell’altra. La rispettavo ma non la frequentavo, perché non frequento nessuno». Il suo rapporto psichico più intenso è quello con Kanye West: «Lui mi aveva convocata varie volte, ma io non sapevo neanche chi fosse. Ci siamo incontrati nel 2008, lui aveva perso madre e fidanzata e io il marito. Il nostro è un rapporto turbolento, lui dice che io sono i suoi occhi, mi lusinga, ma poi non mi fa mai implementare la mia visione e quindi mi chiedo perché mi cerchi. Il 24 novembre presenteremo un’opera a Hollywood Bowl, gli ho già portato 500 milioni di immagini che abbiamo selezionato, lui vuole essere Nabucodonosor, comunque improvviseremo, io dò il meglio in situazioni di emergenza. Vorrei convincerlo a lavorare con me al mio sogno di realizzare un’opera lirica, ma forse è una forma troppo arcaica, non credo che la farò mai. E poi è dal 2008 che continuo a riproporgli “Il vangelo secondo Matteo” di Pasolini, autore che amo moltissimo per la sua capacità di parlare in termini elitari, ma di essere compreso a tutti i livelli. Lo considero un parametro ma non sono mai arrivata a prendere le persone in modo caravaggesco dalla strada e a inserirle in un’opera come lui». Ossessionata per tutta la vita dal rapporto col cibo, oggetto di un meticoloso diario che è diventato anche un’opera, “Despair”, («Detesto mangiare un corpo estraneo. Adorerei arrivare allo stadio di astensione delle Sante»), Beecroft non ama farsi fotografare. Il suo autoritratto, ha dichiarato più volte, sono le sue modelle. «Tutte quelle che scelgo hanno un dettaglio anche infinitesimale di me, o della mia famiglia. Jeffrey Deitch mi dice sempre che la ragazza che sta davanti nella performance, che non è la più bella, nè la più talentuosa, è il mio alter ego: la scelgo d’istinto, anzi le scelgo d’istinto, perché sono quasi sempre una bianca e una nera. L’artista Miltos Manetas mi ha detto: “Il tuo problema è che hai basato tutta la tua opera sul nascondere il tuo viso, e il tuo viso è l’unica cosa che vogliamo vedere”». Beecroft definisce la sua carriera artistica, «la caduta in un turbine di responsabilità di cui mi sono fatta carico. Ancora recentemente alcune divergenze sia con il mio attuale marito che con il mio ex marito mi hanno fatto capire come sia labile la linea di demarcazione tra progressista e criminale, e quanto sia forte l’odio per la donna progressista nella società americana. Ho anche avuto paura per la mia vita: nella società contemporanea crediamo di poter parlare, ma in realtà questo spazio, il vero spazio dell’isterismo femminile, non esiste ancora. Ma è un diritto! Se in futuro le donne si prenderanno più spazio, io me ne posso andare, sono stanchissima, ho quattro figli, e sono sempre stata capofamiglia da quando sono nata. Sogno di ritirarmi nella giungla sudamericana per poter immaginare altri mondi. Anche se per ora riesco a navigare ancora molto bene tra tutte le cose che faccio».

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