Eduardo Scarpetta: «L'aspettativa sul mio cognome mi fa paura, ma la trasformo in energia»
L’attore napoletano, volto delle serie Netflix La legge di Lidia Pöet e Storia della mia famiglia e dell'ultimo film di Lucio Pellegrini, Gioco Pericoloso, ci racconta la sua vita tra Napoli e il set. E il sogno di portare in scena l'intero (e sterminato) repertorio teatrale della sua famiglia.
Photography GUIDO STAZZONI
Text ALESSANDRO VIAPIANA
LOHI: Hai mai sentito il peso delle aspettative del pubblico a causa del tuo cognome?
ES: No. Non l’ho scelto io, non è colpa mia se mi chiamo così. E poi, ho fatto tutta la gavetta: sono partito dalle comparse, poi una battuta, due, tre, e via via ruoli più consistenti. Oggi sento davvero il peso delle aspettative nei progetti che mi propongono. Spesso si tratta di ruoli complessi, distanti da me. Ma se arrivano a propormeli, vuol dire che credono che io possa farcela. Questo mi spaventa, ma mi motiva. La paura diventa energia. Mi ci spremo l’anima.
LOHI: C’è un ruolo già interpretato da un tuo familiare che sogni di fare?
ES: Più che sognarlo, lo farò. È un progetto che ho già in testa. Tra dieci o quindici anni fonderò una mia compagnia teatrale e porterò in scena tutto il repertorio Scarpetta-De Filippo. Quest’anno ricorrono i cento anni dalla morte del trisavolo, Edoardo Scarpetta. Mi hanno proposto qualcosa per celebrarlo, ma ho detto no. Voglio essere io, quando sarà il momento giusto, a rendere omaggio. Userò fondi miei, sarà una compagnia teatrale indipendente, con una mia casa di produzione. Non cinematografica — troppo ambizioso — ma teatrale, sì.
«Il teatro è vivo. Ogni sera è unica, il pubblico cambia, tu cambi. È un evento irripetibile»
LOHI: Recitare a teatro ti emoziona in modo diverso rispetto al cinema?
ES: Assolutamente. Il teatro è vivo. Ogni sera è unica, il pubblico cambia, tu cambi. È un evento irripetibile. Il rapporto col pubblico è diretto, immediato, travolgente. Ogni reazione, ogni risata, modifica il ritmo. Il teatro ha per me una forza che il cinema, pur meraviglioso, non potrà mai eguagliare.
LOHI: In Carosone, che ruolo interpretavi e perché è stato un punto di svolta per te?
ES: È stat un’esperienza che ha segnato un prima e un dopo: da lì ho iniziato a ricevere vere proposte. Carosone era un genio: dopo nove anni in Africa, torna a Napoli e fonde sonorità africane, napoletane e americane. Ma poi, a 39 anni, lascia tutto dopo aver suonato alla Carnegie Hall. Un gesto elegante, ma anche una grande perdita. A Napoli è un’icona, e interpretarlo è stato un privilegio.
LOHI: Che rapporto hai con Napoli, la tua città?
ES: Napoli è la molla della mia esistenza. Ci vivo. Ho acquistato una nuda proprietà: è crudele dirlo, ma un giorno quella casa sarà mia. È l’unico luogo in cui mi vedo vivere in Italia. A Roma ho trascorso tre anni e mezzo: la conosco bene, ma è troppo caotica, dispersiva, scomoda. Napoli ha i suoi problemi, certo, a tratti è invivibile. Ma è concentrata, raccolta. E ogni volta che ci torno, la vivo come una vacanza.
LOHI: Chi è Peter Drago e cosa ti ha attratto di lui in Gioco Pericoloso?
ES: Inseguivo questo film da tre anni. Lucio me lo aveva proposto da tempo, poi tra i suoi impegni, i miei, e i soldi che mancavano… ci siamo arrivati solo ora. Mi ha conquistato il genere: un thriller, rarissimo in Italia. È un genere che non ha morale, non cerca la profondità in senso classico: deve angosciare, tenere incollati. Se riesce in questo, è riuscito. Peter Drago è disturbato, vendicativo, probabilmente con problemi psichici. Io ho deciso che è bisessuale e si droga, e ho cercato di farlo emergere in scena attraverso l’uso di diverse sostanze. Massimo Cantini Parrini mi ha dato la chiave: al primo costume mi disse “Edoardo, io ti vedo come un clown chic.” Quella frase ha spalancato un mondo. Drago è ferito dalla rottura con Giada, rientra nella sua vita fingendo amicizia con il nuovo compagno… solo per distruggere la coppia dall’interno.
LOHI: Che legame hai stretto con Elodie e Adriano Giannini sul set?
ES: Abbiamo lavorato molto insieme fin dall’inizio: letture del copione, incontri, confronti. C’è stata grande sintonia, rilassata, aperta. Capitava spesso di modificare il testo, eliminare battute, cambiare tono. Merito anche di Lucio Pellegrini, che conoscevo già da Carosone. Con Elodie è stato diverso: non ha una formazione attoriale classica, è istintiva, naturale. Porta qualcosa di nuovo, di fresco.
LOHI: Che rapporto hai con Lucio Pellegrini, il regista?
ES: Lucio — insieme alla Rai — mi ha dato una possibilità enorme. Carosone mi ha cambiato la carriera. Dopo quel film, ho potuto iniziare a dire dei “no”. Lo hanno visto cinque milioni e mezzo di persone. È stato il mio trampolino. Stimo Lucio, gli voglio bene, e gli sono grato per questa seconda occasione.
LOHI: Come scegli i progetti a cui partecipi?
ES: Devo sentirmi coinvolto dal messaggio del film, ma anche da come quel messaggio viene raccontato. Non basta che sia chiaro: dev’essere espresso con un linguaggio interessante. Molti progetti nazional-popolari hanno buone intenzioni, ma spesso non condivido lo stile con cui vengono realizzati. L’arte, per me, non è decorazione. Ora sento il bisogno di allontanarmi da quel mondo, di cercare qualcosa di più complesso, più raffinato.
LOHI: C’è una scena che secondo te racchiude il senso del film?
ES: L’incendio finale. Ricostruiamo la casa dei miei genitori a Sabaudia, in scala 1:1. Prende fuoco. Il pubblico si chiede: “È dentro mentre brucia?” Poi, nel finale, si insinua il dubbio: quella casa è mai esistita davvero? O è solo nella mente del personaggio di Carlo Paris, interpretato da Giannini? È un incendio fisico, certo, ma anche interiore. Simbolico. Una distruzione che è anche rinascita.
«Nella vita reale, invece, la moda non mi interessa granché. Per me è importante stare bene con se stessi»
LOHI: Che rapporto hai con il costume e la moda?
ES: Sul lavoro, il costume è fondamentale. Ti cambia postura, movenze, perfino il modo in cui abiti lo spazio. Ti dà limiti, e a volte sono una benedizione. Ricordo Capri Revolution, il mio primo film con Martone. Alla presentazione del film alla Mostra di Venezia ero vestito in Valentino: tutto nero, camicia bianca. Con quell’abito non mi sarebbe mai venuto di sedermi in modo sciatto. Il costume ti trasforma, anche se magari hai il conto in rosso. Nella vita reale, invece, la moda non mi interessa granché. Per me è importante stare bene con se stessi, non colpire gli altri. Vesto sobrio, nero, senza loghi. L’eleganza non ha bisogno di farsi notare.